Gli Arhat e la via della compassione
di Daniel Goleman
Han Shan piange quando muore una persona che ha conosciuto e amato. Ryokan
versa una lacrima per la sorte di un adolescente testardo. Queste sono
lacrime di compassione, non di rabbia, ira o tradimento. Infatti, davanti ai
travagli della vita, questi esseri sono essenzialmente imperturbabili: i
loro cuori possono ancora spezzarsi alla vista delle sofferenze degli altri,
ma le loro lacrime sono prive di attaccamento.
Tale è la vita emotiva degli “arhat”, i “Nobili” del buddismo, coloro che
hanno estinto ogni passione. La loro è un’equanimità oltremondana; il canone
Pali, i testi classici del buddismo Theravada, descrivono gli arhat come
esseri così rilassati da poter facilmente “sopportare il caldo, il freddo,
la fame, la sete, la puntura delle zanzare e dei tafani, le creature
dell’aria
e della terra, il linguaggio offensivo, le sensazioni fisiche dolorose,
pungenti, dure, brutte, fastidiose e mortali”.
Questi sereni santi buddisti sono un modello prezioso, fonte di ispirazione
per il meditatore comune. Ma, in un certo senso, sono problematici. Il loro
aspetto sereno rappresenta un tipo ideale, la pace alla fine del cammino.
Che però sembra qualcosa di remoto e irraggiungibile dalla limacciosa realtà
dei praticanti.
Potrei citare un numero infinito di casi in cui, qualche settimana, giorno
od ora dopo essere tornato da un ritiro in un ottimo stato d’animo (che mi
piacerebbe definire, in qualche modo, “da arhat”), mi sono improvvisamente
ritrovato d’umore brutto e irritabile. Per colpa del traffico, di un assegno
falso, delle zanzare, dei tafani, di un linguaggio offensivo. Le diecimila
seccature della vita. A un arhat non accadrebbe mai. Ma alcune recenti
scoperte sulla neurofiosiologia delle emozioni mi fanno provare più
comprensione per me stesso, in questi momenti.
Una parte del cervello, una struttura chiamata l’amigdala, è stata
identificata come la sede dei ricordi emotivi intensi: in essa sono
immagazzinati i traumi, le ferite, la paura, la rabbia ecc. Di fatto, i
ricordi amari e pungenti vi sono conservati con una forza particolare: gli
stessi ormoni che spingono il corpo a lottare o fuggire segnalano
all’amigdala
di codificare questi ricordi nel modo più indelebile possibile.
A lungo si è pensato che l’amigdala venisse allertata sulla natura emotiva
degli eventi da segnali provenienti dal cervello razionale, che prima vi
rifletteva sopra. Ma adesso i neuroscienziati hanno scoperto che l’amigdala
ha un accesso diretto all’area che decifra nel linguaggio del cervello i
segnali sensoriali provenienti dall’occhio e dall’orecchio. Questa via di
accesso aggira completamente il cervello ed è in grado di provocare una
reazione emotiva prima che abbiamo il tempo di pensarci.
Una vasta rete di circuiti parte dall’amigdala verso tutte le aree del
cervello, rendendola capace di provocare in noi una reazione di rabbia o
paura in meno di un secondo. Questo vuol dire che l’amigdala funge da
irascibile e nervosa sentinella, intenta a esaminare tutto ciò che ci accade
per vedere se può collegarla a qualche minaccia del passato. Se è così (e il
“legame” può essere alquanto impreciso), essa suona un allarme,
“sequestrandoci” emotivamente prima che la mente razionale abbia avuto
letteralmente tempo di capire cosa stia succedendo.
Questo sequestro ha la forma di un arco: raggiunge un picco di intensità e
reattività emotiva, poi gradualmente decresce.
La domanda è: quando comincia il sequestro, quanto tempo impieghiamo a
tornare in noi?
Propongo che un’indicazione del progresso sul cammino consista in un più
veloce tempo di recupero dai nostri sequestri emotivi.
Gli arhat, naturalmente, non hanno mai queste reazioni, anche se i dettagli
delle loro dinamiche emotive dipendono dal livello e dal tipo di arhat (ed
esistono tanti tipi di arhat quante sono le scuole di buddismo). Alcuni
sostengono che un arhat può avere un’inclinazione passeggera verso un
sentimento afflittivo, ma mai la piena emozione; come ha detto una fonte:
“Gli arhat possono scivolare, ma mai cadere”. Secondo altre scuole, gli
arhat hanno sradicato il minimo segno di emozioni disturbanti, in quanto
“hanno vinto il nemico” – “kilesas”, o tendenze negative – “che offusca e
disturba la mente”.
Piuttosto, la gamma delle loro emozioni è trascendente: compassione,
gentilezza amorevole, equanimità. Quando piangono, le loro lacrime sono
motivate da questi sentimenti superiori, non dall’attaccamento.
Consideriamo alcuni tratti emotivi distintivi dell’arhat (secondo un elenco
compilato dallo studioso svedese Rune Johanssen, ricavato da fonti Pali
sulla vita di uomini e donne che divennero arhat più o meno all’epoca del
Buddha): gli arhat non provano ansia, risentimento o rabbia; non hanno paure
di alcun tipo e in loro non esiste lussuria o desiderio di piaceri
sensoriali; non provano la minima avversione verso condizioni come la
sconfitta, l’infamia e il disonore; non desiderano niente che non sia lo
stretto necessario e non hanno alcun desiderio consumistico.
Allo stesso tempo, l’arhat mostra una percettività rapida e intensamente
operante, oltre a un’acuta capacità di attenzione; inoltre, ogni esperienza
è per lui fonte di un tranquillo piacere (non importa quanto mondana o
noiosa). Gli arhat sono l’opposto di una persona goffa e maldestra: ogni
loro attività è caratterizzata da compostezza e maestria. Oltre a ciò, gli
arhat personificano qualità trascendentali: l’equanimità in ogni
circostanza, l’imparzialità verso gli altri, la compassione e la gentilezza
amorevole.
Per i meditatori moderni, il problema è che le virtù degli arhat sembrano
incredibili.
Forse è comprensibile.
L’arhat è il prototipo buddista del santo, un prototipo che spicca nei
moderni sistemi di pensiero per la sua assenza. La radicale trasformazione
dell’essere rappresentata dall’arhat oltrepassa gli obiettivi e i sogni più
grandi delle nostre filosofie e psicoterapie; da un punto di vista moderno,
l’arhat è troppo bello per essere vero.
Per noi, meditatori comuni, la distanza tra la squallida realtà delle nostre
emozioni e i luminosi standard dell’arhat sembra insormontabile.
È come se questi ultimi fossero caduti da qualche galassia vicina, forse da
Alpha Centauri.
Paragonarsi a un arhat vuol dire favorire la demoralizzazione. Piuttosto,
proporrei un modello più accettabile per misurare i progressi emotivi dei
meditatori. Anziché usare come metro di paragone i più grandi campioni
olimpici di tutti i tempi, potrebbe essere utile valersi di una scala di
misura più modesta.
Nella classica psicologia buddista, i “fattori mentali” – le qualità della
mente che si combinano “aromatizzando” e definendo i nostri stati mentali di
momento in momento – determinano la realtà dell’osservatore.
Come dice un proverbio zen:
“Per l’amante, una donna bellissima è un piacere; per un monaco, una
distrazione; per un lupo, un pasto”.
Questo sistema psicologico distingue le qualità mentali “pure” e sane da
quelle nocive o “afflittive”. La regola pratica fondamentale alla base di
questa lista è se una qualità della mente aiuta od ostacola la meditazione.
La principale qualità nociva è l’illusione, un offuscamento percettivo; tale
ignoranza fondamentale viene considerata la radice della sofferenza. Tra le
altre qualità percettive di una mente non sana vi sono la perplessità, che
riempie di dubbi una persona, e l’impudicizia, che porta a ignorare i propri
valori morali. Una terza è il narcisismo. Le restanti qualità nocive sono di
natura emotiva: l’agitazione, la preoccupazione, l’avidità, l’avarizia,
l’invidia,
l’avversione, la contrazione e il torpore.
Questa lista, ovviamente, non è solo del buddismo: chiunque abbia studiato
il catechismo durante l’infanzia vi riconoscerà alcuni dei “peccati mortali”
del cattolicesimo.
La principale qualità sana è l’intuizione, la chiara percezione delle cose
così come sono. Una seconda è l’attenzione, che sostiene tale chiarezza.
Queste due qualità, da sole, sopprimono tutte quelle negative.
Un gruppo – la modestia, la discrezione, la rettitudine – è di supporto alla
vita etica.
Un altro – l’elasticità, la flessibilità, l’adattabilità e la bravura – dona
agli arhat scioltezza naturale, serenità e maestria in ciò che fanno.
Il resto – il non-attaccamento, la non-avversione, l’imparzialità e la
compostezza – riflettono quella tranquillità fisica e mentale che è il
“marchio di autenticità” della vita emotiva degli arhat, in quanto tali.
Nella mente degli arhat non sorge alcuna qualità nociva.
Per quanto riguarda il resto di noi, queste qualità mentali costituiscono
una “lista di controllo” grazie alla quale possiamo misurare i nostri
cambiamenti di umore.
Nella misura in cui il nostro stato mentale tende gradualmente alle qualità
della lista sana – o si distacca più rapidamente dagli stati negativi – la
pratica sta procedendo nella giusta direzione: verso una leggerezza
dell’essere.
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