GUARDARE ALLA MORTE DA UN’ALTRA PROSPETTIVA – 2

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GUARDARE ALLA MORTE DA UN’ALTRA PROSPETTIVA – 2

(PARTE SECONDA)

Di Marco Ferrini

Ma non chiediamoci soltanto cosa fare con gli organi di un corpo ormai giunto al capolinea di questa
vita; pensiamo anche al futuro di quella persona che lo ha abitato e che, secondo la prospettiva
indovedica, continuerà la propria esistenza anche dopo aver lasciato quel corpo fisico. Come aiutare
la persona ancora imprigionata in quello scafandro ormai logoro? Come stimolarla a prepararsi
interiormente al suo abbandono? Come orientare il percorso evolutivo che principierà dopo
l’attestazione della sua morte clinica? La risposta a questi interrogativi è importante non solo per
chi opera nel settore sanitario ma per ogni individuo. Accoglienza, assistenza e accompagnamento
sono in questo ambito tre concetti chiave. Accogliere significa incontrare l’altro, aprire non solo
le braccia, ma anche il cuore e la mente. Assistere vuol dire intervenire con delicatezza, entrando
in empatia, prestando ascolto alle modalità e ai bisogni dell’altro. Accompagnare significa mettersi
a fianco della persona, senza precederla, ponendosi quasi dietro di lei, essere una presenza umile e
affettuosa, stimolandola a procedere. Accompagnare è sospingere dolcemente, far giungere a
destinazione con calore e bontà, con empatia, compassione e misericordia.

La tradizione indovedica non utilizza tecniche psicoterapeutiche, ma offre insegnamenti volti allo
sviluppo di una visione cosmica della vita, dell’uomo e del mondo, che non si concentra sulla
risoluzione di disagi psicologici ma sulla elevazione di una consapevolezza globale, affinché chi la
applica possa riscoprire l’interezza della propria natura sul piano bio-psico-spirituale ed
esprimere tutte le proprie potenzialità e aspirazioni più nobili, affrontando anche la morte in uno
stato di pace interiore. Perché esiste la morte? Chi o che cosa muore? Come ci possiamo preparare?
In cosa consiste il morire? Come assistere il malato nello stadio terminale? Come interagire con i
suoi familiari e con il personale sanitario? Interrogandosi sinceramente su tali domande si perviene
a intuizioni sorprendenti, talvolta in grado di farci sentire oltre il cangiante flusso di questo
mondo rutilante e ingannevole (i Veda lo definiscono maya che significa “illusorio”). La prima
domanda da porsi è: quando l’obiettivo cura medico-farmacologica non è più raggiungibile, cosa si
può fare per prendersi cura della persona? Si può trasformare un evento traumatico come la morte in
un’esperienza evolutiva? Il fenomeno morte viene abitualmente vissuto come fine di tutto,
dissoluzione, scomparsa, con tonalità che vanno dal rassegnato al drammatico, fino al disperato.
Eppure, secondo la tradizione filosofico- spirituale indovedica, la morte non esiste come entità, ma
solo come concetto o momento di passaggio da un segmento di vita ad un altro.

Attraverso un percorso di consapevolezza, ogni essere umano può imparare a “viverla” percependo che
la propria identità è diversa da quella del corpo e scoprendo di fronte a sé una nuova fase della
propria eterna esistenza, da progettare costruttivamente. La Bhagavad-gita (II.20) afferma: L’essere
non nasce, né muore. E’ eterno. Non muore quando il corpo è distrutto. Tagore scrive: Si cammina
quando si leva il piede come quando lo si posa. Come l’alba prepara un nuovo giorno che giungerà poi
al tramonto, così il tramonto, attraverso la notte, cederà il posto ad una nuova alba. La vita
scorre incessante e se ne comprendiamo il senso evolutivo e infine il suo arcano significato
trascendente, possiamo superare anche la paura più grande, quella della morte e – realizzando
l’immortalità della nostra essenza – ridare nuova speranza alle profonde aspirazioni di ogni essere
verso autentiche libertà e felicità, oltre i limiti dello spazio e del tempo.

da psicologiaespiritualita.blogspot.com/

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