I bramavihara: gentilezza infinita 2

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I bramavihara: gentilezza infinita 2

seconda parte, e fine

di Fred Von Allmen

“La mia religione è la gentilezza” – S. E. il XIV Dalai Lama

Il secondo dei brahmavihara è l’amore compassionevole (karuna). La compassione è l’augurio che tutti
gli esseri viventi possano essere liberi da dolore e sofferenza. La frase usata nella meditazione di
karuna è la seguente: “Possano tutti gli esseri viventi essere liberi da dolore e sofferenza”.

Il nostro atteggiamento interiore è lo stesso sia nella karuna che nella metta, ma l’attenzione
viene ora rivolta alla sofferenza degli esseri viventi invece che alla loro felicità e al loro
benessere. Cambia l’oggetto della meditazione. In questa meditazione l’augurio è che gli esseri
viventi possano essere liberi dal dolore, diversamente dall’augurio di metta che essi possano essere
felici.

Karuna, la compassione, viene definita il “tremolio del cuore quando è in contatto con il dolore
degli esseri viventi”. Una persona compassionevole non rimane indifferente alla sofferenza altrui e
intraprende quanto necessario per prestarle aiuto. Ecco come il monaco Ryokan descrive questo
sentimento:

Possa la mia veste essere sufficientemente ampia
da accogliere tutti gli esseri che soffrono
in questo mondo in perenne agitazione
E Santideva scrive nella Bodhicaryavatara:
Possa io essere medico e medicina e curare
le creature di questo mondo,
fino a guarire tutti, senza eccezione.
Possa io essere un tesoro inesauribile
e trasformarmi in tutte le cose
di cui gli esseri viventi hanno bisogno

Il ‘nemico lontano’ della compassione è rappresentato da violenza, crudeltà e aggressività. Il
‘nemico vicino’, o falsa apparenza di quella virtù, è la compassione motivata da avversione, una
compassione che in fondo è autocommiserazione o che nasce da sensi di colpa, oppure una pietà che
guarda con disprezzo coloro che soffrono, dunque una pietà separata e distaccata.

Iniziamo la meditazione di karuna con qualcuno la cui sofferenza è palese. Anche in questo caso
accadrà che per alcune persone ci sarà più facile provare questo sentimento, mentre per altre sarà
più difficile, oppure non lo proveremo affatto. È sconsigliabile iniziare questo tipo di meditazione
con quelle persone che pensiamo abbiano meritato la propria sofferenza.

Anche qui possiamo graduare scegliendo le persone con cui abbiamo maggiori problemi, perché
apparentemente le cose vanno loro bene o perché sono benvolute o hanno successo, mentre noi le
troviamo antipatiche o addirittura irritanti. Dovremmo tuttavia praticare con questa categoria di
persone solo nella misura in cui siamo in grado di farlo senza troppe difficoltà.

La comune e abituale tendenza del cuore e della mente a contatto con dolore e sofferenza è di
reagire con avversione, di chiudersi interiormente e di proteggersi. Se però vogliamo correre il
rischio di aprirci, e permettere a dolore e sofferenza di toccarci, la risposta naturale del nostro
cuore sarà la compassione. È importante comprendere questo e praticare di conseguenza. Anche in
questo caso la cosa migliore sarà di iniziare con noi stessi. Siamo pronti a sentire il nostro
dolore, la rabbia, la tristezza, le paure? Dobbiamo farlo se vogliamo che si manifesti un’autentica
compassione al posto dell’avversione, il suo ‘nemico vicino’.

Parimenti alla meditazione di metta, anche la meditazione di karuna può esser praticata fino al
raggiungimento di stati profondi di concentrazione e di immersione in se stessi. L’amore
compassionevole è uno dei più nobili moti del cuore di cui l’uomo sia capace.

Il terzo brahmavihara, la gioia compartecipe (mudita) corrisponde alla ‘gioia simpatetica e
benevola’ e significa una “gioiosa partecipazione alla felicità, al benessere e al successo degli
esseri viventi”.

La frase usata nella meditazione di mudita è la seguente: “Possano felicità, benessere e successo
non abbandonarti mai”. Anche qui la frase viene ripetuta tenendo presente il suo significato e
visualizzando la persona a cui è diretta la gioia compartecipe. Il ‘nemico lontano’ della gioia
compartecipe è rappresentato dalla gelosia, dall’invidia e dallo spirito di competizione. Rumi si
chiede:

Dentro il grande mistero che ci sovrasta
non possediamo proprio nulla.
Cos’è dunque questa rivalità che proviamo
prima di passare uno dopo l’altro attraverso la stessa porta?

La gioia compartecipe è diametralmente opposta a gelosia, invidia e spirito di competizione. Il
‘nemico vicino’ o ‘falsa apparenza’ della gioia compartecipe si manifesta in smancerie e
sovraeccitamento.

La nostra difficoltà ad avere accesso alla gioia compartecipe sembra dipendere spesso dalla nostra
enorme carenza di autorispetto. Spesso non apprezziamo veramente la nostra vita, la nostra natura e
le nostre molteplici qualità. Trascorriamo troppo tempo a giudicare, valutare e condannare. Ci
comportiamo come Groucho Marx, che soleva ripetere: “Non farò mai parte di un’associazione che
accetta persone come me quali membri!”.

In quanto eredi della cultura giudaico-cristiana, siamo probabilmente gli unici esseri viventi che
non si reputano degni di vivere e di essere amati. E quando lo pensiamo ci sembra quasi di peccare
di presunzione. Ecco perché è così importante rivolgere la metta e la mudita a noi stessi,
compiacersi spesso delle nostre qualità e apprezzarle. Dovremmo almeno essere d’accordo con Ashley
Brilliant, quando affermava: “Può essere che io non sia del tutto perfetto, ma alcune parti di me
sono straordinarie”

La mudita prova piacere per il successo, le ricchezze, il benessere e le qualità degli altri. È un
atteggiamento augurale, un’espressione di felicitazioni. La gioia compartecipe nasce, proprio come
nella metta, dall’aver riconosciuto e sperimentato l’unità e la connessione di tutti gli aspetti
della vita. La mudita è, in ultima analisi, l’espressione naturale e spontanea di tale esperienza.

La gioia compartecipe può però venir praticata per capovolgere le nostre abitudini. All’inizio può
risultare facile compiacersi delle qualità e del benessere di grandi santi come il Buddha, il Cristo
o di persone come Madre Teresa di Calcutta o il Dalai Lama. Proviamo gioia per la loro saggezza, il
loro amore e la loro profonda fusione con il tutto. Ci rallegriamo anche quando godono di buona
salute o hanno successo nella vita. Ci sarà facile gioire della felicità, del benessere e delle
qualità delle persone che amiamo: figli, partner, amiche e amici. È perciò importante praticare
sempre con persone reali.

La questione si complica con le persone difficili. Bisogna chiedersi: “Sono pronto a riconoscere
qualità positive anche nelle persone con cui ho un rapporto difficile? Anche se si tratta di
concorrenti, rivali o nemici? O semplicemente nelle persone che mi danno fastidio o che trovo
antipatiche?”. Anche qui è importante avere in mente persone reali.

Durante un ritiro piuttosto lungo pensai di meditare sulla gioia compartecipe, cosa che però non mi
riusciva molto facile. Decisi così di scrivere tutto quello che mi veniva in mente. Il risultato fu
una mescolanza di mudita e metta:

Sono felice di partecipare a questo ritiro e gioisco dei momenti in cui il mio cuore si apre e prova
una profonda compassione per tutte le creature che soffrono.

Apprezzo i momenti all’alba e al tramonto, quando davanti alla porta benediciamo la terra e tutti
gli esseri viventi con il grande mantra. Sono grato a chi ha fatto costruire Dechen Choeling, la
sede di questo ritiro, ora a disposizione di tutti coloro che vi praticano. Provo gioia per
l’infinita compassione dei risvegliati, dei Buddha, e sono loro immensamente grato perché proteggono
e benedicono questo luogo e tutti coloro che vi praticano. Gioisco del mio impegno e dell’interesse
che provo a investigare incessantemente la natura della mente e apprezzo le esperienze di apertura e
di chiarezza, nonché i momenti in cui lascio andare e mi allontano dal samsara. Sono felice di poter
condividere tutte le qualità positive e le energie, che qui ho evocato e con cui ho preso contatto,
con tutti i miei insegnanti, il mio prossimo e i miei amici, con tutti coloro che hanno partecipato
a una mia conferenza, ritiro o corso, con tutti gli uomini e gli animali del luogo, i ragni, le
mosche, le tarme, i millepiedi, i lombrichi, i timidi cerbiatti e i cervi, i tacchini selvatici, le
sveglie marmotte, le civette, i falchi e l’airone solitario, le oche selvatiche canadesi nella loro
rotta verso il sud, con tutti gli esseri invisibili e soprattutto con le piccole creature che, per
riscaldarmi, sono state bruciate nella stufa assieme alla legna da ardere. Sono grato alla terra,
all’erba, agli alberi e alle stelle per il solo fatto che esistono.

È utile redigere elenchi di tutte le nostre qualità e azioni positive: piccole o grandi che siano
esse sono tutte ugualmente importanti. Ci risulterà così più facile notare le qualità degli altri e
apprezzare le loro azioni positive.

La gioia compartecipe può diventare uno degli aspetti più positivi e belli della nostra pratica e
donare colore e vivacità alla nostra esistenza.

Il quarto brahmavihara è l’equanimità (upekkha): l’andare incontro a tutto con calma, equilibrio
interiore e imparzialità, cioè ‘con animo equo’, privi di attaccamento e senza avversione. Upekkha
si riferisce alla capacità di mantenere una calma serena in mezzo a tutte le sfide e alle difficoltà
della vita, quali successo, insuccesso, guadagno, perdita, buona o cattiva fama, lode o biasimo. Si
tratta, in fondo, di esser in grado di incontrare con equanimità ogni essere vivente, sia esso
piacevole, indifferente o spiacevole.

Ecco come i maestri tibetani descrivono questa qualità:

Lo spazio aperto e vasto del cielo
non si sente particolarmente adulato dall’arcobaleno
né particolarmente turbato dalle nuvole e dalla tempesta.

Si potrebbe pensare che ciò significhi mantenere un uguale distacco di fronte a tutti gli esseri e
le cose. Ma è vero il contrario. Si è ugualmente vicini a tutti gli esseri e le cose. Si tratta di
uno stato di vigile vivacità e sensibilità e non dell”amico vicino’ della calma, cioè
l’insensibilità o l’indifferenza.

Nella pratica dell’equanimità, i buoni auguri dei primi tre brahmavihara, gentilezza amorevole,
compassione e gioia compartecipe vengono relativizzati e messi in giusta luce. Si fa presente quanto
la felicità e il dolore degli esseri viventi costituiscano la regola e come sia la ‘qualità karmica’
delle loro azioni con il corpo, la parola e la mente a causare benessere o dolore.

In altre parole: richiamiamo alla nostra attenzione come le intenzioni e le motivazioni dietro alle
nostre azioni si ripercuotano prima o poi su di noi: se queste sono benefiche, produrranno risultati
piacevoli di felicità e serenità in noi. Se invece sono nocive o distruttive, produrranno risultati
spiacevoli e dolore. Questa è la frase usata nella meditazione di upekkha: “Tutti gli esseri viventi
sono eredi del proprio karman”. Ciò significa che essi sono i ‘destinatari’ degli effetti delle loro
azioni.

Tale idea viene espressa ancora più chiaramente in un’altra frase che può esser usata:

“Il tuo benessere dipende dalle tue azioni e non dai miei auguri di bene nei tuoi confronti”. Ciò
non significa assolutamente che ora abbiamo cambiato parere rispetto al tema dell’amore e della
compassione e che abbiamo deciso di pensare innanzitutto a noi stessi, invece di fare del benessere
di tutti gli esseri viventi la nostra aspirazione principale. Perciò la meditazione formale di
upekkha dovrebbe esser praticata assieme a metta, karuna e mudita, in quanto essa produce il
necessario equilibrio interiore in relazione ai precedenti tre stati della mente e del cuore.

Fin troppo spesso incontriamo delle persone impegnate a favore della pace, dei diritti dell’uomo o
della giustizia sociale, che sono però talmente identificate con la loro causa, di per sé buona, da
dipendere totalmente dal successo o dall’insuccesso delle loro azioni, tanto da farsi prendere
dall’arroganza, dall’odio o addirittura dalla violenza. Succede così che le loro azioni, per quanto
ben intenzionate, ma immature, producano spesso un effetto opposto a quanto previsto all’origine.
Non di rado una marcia per la pace è finita in una rissa.

Per tali motivi è necessario innanzitutto sviluppare amore e compassione, che vanno poi bilanciati e
perfezionati da una profonda equanimità.

La seguente immagine illustra il rapporto che esiste tra amore, compassione e gioia compartecipe da
un lato ed equanimità dall’altro:

Metta, karuna e mudita riposano nell’equanimità. L’equanimità è uno stato di calma, ma anche di
disponibilità.

Alla luce delle esperienze fatte, il cuore esce dallo stato di riposo e, a seconda della situazione
e delle necessità, risponde con amore verso gli esseri viventi, con compassione quando entra in
contatto con il dolore, e con gioia compartecipe nei confronti del benessere o del successo, per poi
tornare allo stato di serena calma.
Noi facciamo quanto possiamo per il mondo e per l’umanità, diamo il nostro meglio, ma senza
dipendere dal risultato: il successo non ci fa esultare e l’insuccesso non ci abbatte, in quanto
sappiamo che le cose seguono un loro corso e cioè la legge del karman personale e le leggi
dell’universo. La comprensione di tale verità ci dà tranquillità.

I diversi moti dell’anima dei quattro brahmavihara equivalgono in un certo modo ai sentimenti che i
genitori possono provare: metta per il loro bambino appena nato; karuna per il figlio ammalato
cronico; mudita per l’adolescente che si compiace dei suoi primi successi nella vita; upekkha per il
figlio ormai adulto che se ne va da casa per condurre una vita autonoma (purché abbiano accettato
che il figlio è ormai adulto e indipendente) .

È possibile sviluppare i quattro brahmavihara senza limiti, in profondità e ampiezza, fino a
raggiungere profondi stati di concentrazione o jhana, tali da penetrare e irradiare tutto l’essere
di un individuo.

Tuttavia questi stati non sono altro che le qualità originarie e fondamentali della mente e del
cuore . Noi pratichiamo e cerchiamo la luce e la liberazione perché esse sono già in noi. Se non ci
fossero già, non potremmo né inventarle né svilupparle. Sono sempre state qui. Esse costituiscono la
nostra vera natura e possiamo aver fiducia in esse.

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1. 1 Cor 13, 1-3.
2. Anguttaranikaya, Ekadasanipata 16.
3. Erich Fried: Es ist was es ist, Qurtbuch, Berlin, 1983, NA 1996 (Verlag Klaus Wagenbach), p. 43.
4. Ryokan: One Robe, One Bowl, The Zen Poetry of Ryokan, traduzione e introduzione di John Stevens,
New York & Tokyo, 1977, (John Weatherhill, Inc.), p. 75.
5. Santideva: A Guide to the Bodhisattvas Way of Life, (Bodhicaryavatara), traduzione inglese di
Stephen Batchelor, Library of Tibetan Works and Archives, Dharamsala, India, 1979. Per gentile
concessione del traduttore.
6. Rumi: Offenes Geheimnis, Eine Auswahl aus seinem poetischen Werk, München, 1994, © Droemer Knaur
Verlag München, p. 43.
7. Ashley Brilliant: I’ve Abandonned My Search For Truth.

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