I miei ricordi di Paramahansa Yogananda

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I miei ricordi di Paramahansa Yogananda”

di Swami Kriyananda

Tratto da:

(Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA

IL SENTIERO

Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda

Traduzione di MAURO MERCI

EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

“Devi mantenere il segreto su questo posto”, mi avvisò Bernard durante il viaggio in macchina verso
Twenty-Nine Palms. “Con la rapida crescita dell’organizzazione, al Maestro è necessario un luogo
dove possa rifugiarsi per concentrarsi sui suoi scritti. Altrimenti, fra chiamate telefoniche e
interviste, non gli rimane mai un attimo libero in tutta la giornata. Per difendere la sua intimità ha perfino usato il suo nome di famiglia, Ghosh, per acquistare questo posto.”

Era la prima volta in vita mia che vedevo un deserto. L’immensa distesa di sabbia, cespugli di
artemisia, alberi di yucca e tumbleweeds * Letteralmente erbe rotolanti, piante cespugliose, per lo
più Chenopodiacee, che una volta secche si staccano dalle radici a livello del suolo e sono
trasportate dal vento, spargendo i semi lungo il cammino. Sono diffusissime nelle zone semiaride del
sudovest degli Stati Uniti. N.d.T. * , esercitò su di me uno strano fascino. Sembrava di trovarsi in
una dimensione diversa, quasi il tempo, qui, fosse scivolato impercettibilmente nell’eternità. Il
cielo con le sue tinte pastello blu, rosa e giallo arancione al sole declinate del pomeriggio,
appariva di una consistenza impalpabile. Mi guardavo intorno incessantemente, pieno di stupore.

Bernard notò la mia espressione. “Vedo che la magia del deserto sta già operando su di te!”. E aggiunse: “Il Maestro dice che la luce qui assomiglia alla luce astrale”.
L’eremo per i monaci, che raggiungemmo poco dopo questa conversazione, era un piccolo cottage
circondato da una quindicina di acri di terra. Non c’era elettricità. Un imponente mulino a vento
pompava l’acqua da un pozzo, scricchiolando e cigolando lamentosamente ad ogni soffio di vento. Un
boschetto di Dalea spinosa blu verdastro celava la costruzione alla vista dalla pista sabbiosa poco
battuta. Nonostante la presenza del mulino a vento, che pur sembrava deciso a rendere di pubblico
dominio quanto fosse duro lavorare, il luogo sembrava perfetto per la clausura e per la meditazione.
Negli anni successivi, avrei trascorso parecchi mesi in questo ambiente tranquillo.

La residenza del Maestro era a circa otto chilometri, più a nord, in una zona più sviluppata. Là
l’acqua proveniva dalla città e c’era l’elettricità, che al Maestro serviva poiché scriveva, in
massima parte, di notte. La sua proprietà era appollaiata accanto alle pendici di alcune basse
colline che, spoglie com’erano, rassomigliavano a montagne. La casa del Maestro aveva bianche pareti
di stucco, nello stile spagnolo tipico della California meridionale. Attorno crescevano piante a
profusione e delicati olmi cinesi. L’intera proprietà, cinta da un basso reticolato, misurava uno o due acri di superficie.

La mia prima visita a Twenty-Nine Palms durò lo spazio di un fine settimana. Visitammo il Maestro
nel suo ritiro. I miei ricordi di lui in questa occasione consistono più in quello che non disse,
che in quello che disse. In quel periodo non lo sapevo ancora, ma egli attribuiva un’estrema
importanza al silenzio. Ai discepoli che lavoravano attorno a lui era permesso di parlare soltanto
quand’era necessario. “Il silenzio”, egli li ammoniva, “è l’altare dello spirito”.

Trovammo il Maestro seduto fuori dalla porta del garage. Io e Bernard rimanemmo in piedi accanto a
lui. Poi Yogananda chiese a Bernard di entrare in casa a prendere qualcosa. Improvvisamente, per la
prima volta dacché ero stato accettato come discepolo, mi trovai da solo con il mio guru. Mi parve
un’opportunità da non perdere; un’occasione d’oro per imparare qualcosa, qualsiasi cosa! Il Maestro
però vedeva evidentemente le cose in una luce diversa e non dette segno di voler parlare. Decisi infine che avrei fatto meglio a “rompere il ghiaccio”.

Avevo appreso da Bernard la tecnica per vibrare interiormente in sintonia con l’Aum, il suono
cosmico che si manifesta allo yogi in profonda meditazione. “Signore”, chiesi, “qual è il suono dell’Aum?”.

Il Maestro emise un “Mmmmmm” prolungato e si richiuse quindi subito in un confortevole silenzio che per me, purtroppo, era tutt’altro che tale.

“Come lo si può sentire?” insistetti, anche se già conoscevo la tecnica.

Stavolta il maestro non rispose neppure. Si limitò ad assumere la posizione prescritta e a
mantenerla per qualche istante, prima di riportare in silenzio le mani sul grembo.

Alcuni mesi più tardi mi lagnai con lui che trovavo difficoltà nel calmare la mia respirazione
durante la meditazione. “E’ perché eri abituato a parlare troppo e quell’influenza si fa ancora sentire”, rispose. “Farlo ti rendeva felice”, aggiunse a mo’ di consolazione.

Il silenzio è l’altare dello Spirito. A mano a mano che progredivo nel mio nuovo modo di vita, cominciai ad apprezzare questa massima.

Subito dopo la nostra prima visita a Twenty-Nine Palms, Bernard condusse di nuovo laggiù Norman e
me. Il Maestro aveva un progetto per l’esecuzione del quale aveva pensato a noi due, probabilmente
per fornirci un pretesto per stargli vicino mentre si concentrava sui suoi scritti. Ci chiese di
costruirgli una piccola piscina sul retro della casa, accanto alla sua camera da letto. Non che egli
desiderasse in modo particolare una piscina, anzi, una volta finita, egli non la usò mai. Il suo
intento era piuttosto, come ho già detto, di concedere a Norman e a me l’opportunità di trascorrere con lui un periodo ininterrotto di più settimane.

Fummo subito indaffaratissimi a spalare sabbia per scavare la profonda buca necessaria. Il Maestro,
concedendosi di tanto in tanto una pausa della sua attività letteraria, usciva a lavorare con noi
per una quindicina di minuti. Ogni volta che ciò succedeva, mi sentivo oggetto di una segreta
benedizione; non m’ero però ancora rassegnato al suo abituale silenzio. Un pomeriggio caldo e
assolato, mi accorsi che il Maestro stava ansimando leggermente per il violento esercizio fisico e osservai in tono confidenziale: “Che lavorone, vero?”.

“E’ un buon lavoro”. Mi fissò un attimo soltanto con espressione severa e riprese subito a scavare.

Pian piano, ispirato dal suo esempio, imparai a parlare meno e ad ascoltare di più il muto sussurrare di Dio nel profondo della mia anima.

Un altro giorno – era tardo pomeriggio – eravamo seduti con Yogananda su una piccola veranda fuori
della stanza di soggiorno dove il Maestro dettava i suoi scritti. Dopo parecchi minuti di silenzio, mi fu rivolta una domanda inaspettata.

“Cosa impedisce che la terra esca dalla sua orbita attorno al sole e sia scagliata nello spazio?”.

Sorpreso, non essendomi ancora familiarizzato con il modo ermetico che spesso usava per impartirci i
suoi insegnamenti, ritenni che volesse semplicemente un’informazione. “Per l’attrazione gravitazionale del sole, signore”, spiegai.

“Ma allora, come mai la terra non viene riassorbita dal sole”?

“Per la forza centrifuga che le deriva dal suo moto e che si esercita costantemente in direzione
opposta al sole. Se l’attrazione gravitazionale del sole non fosse tanto forte, saremmo sbalestrati nello spazio, fuori dal sistema solare”.

Il Maestro sorrise in modo significativo. Aveva forse inteso dire più di quanto avevo capito? Alcuni
mesi più tardi ricordai quello scambio di domande e risposte e capii soltanto allora che il maestro
aveva parlato per metafore. Il sole era Dio, che attrae ogni cosa di nuovo a Sé, e la terra era
l’uomo, che resiste alla forza d’attrazione dell’amore divino con le sue passioni e i suoi meschini interessi personali.

A mezzogiorno di una giornata caldissima Norman e io ci sollevammo dalla buca che stavamo scavando e
ci stirammo, grati che fosse giunta finalmente l’ora del pasto. Il lavoro ci piaceva, ma non
potevamo negare di essere esausti, e inoltre, stavamo letteralmente morendo di fame. Rimanemmo per un attimo in contemplazione della fossa che si spalancava ai nostri piedi.

“Dio che buco!”, esclamò Norman. Volgemmo lo sguardo ai cumuli di sabbia che avevamo depositato qua
e là con la carriuola. La vista di quella muta testimonianza dei nostri sforzi bastò a farci sentire ancora più stanchi.

In quel momento il Maestro uscì dalla casa.

“Tutti quei mucchi di sabbia non stanno molto bene”, ci fece osservare. Mi stavo chiedendo se non si
potessero livellare. Non vi dispiacerebbe andare a prendere una trave cinque per dieci?”.

Armati della longarina ritornammo da lui in attesa, un po’ ansiosa in verità, di ulteriori istruzioni.

“Prendete ognuno un capo della trave”, ci disse. “Andate e spingete quel mucchio di sabbia verso di voi premendo forte e muovendola piano avanti e indietro.”
Penso che anche una descrizione così scarna sia sufficiente a dare un’idea della difficoltà della
faccenda. Avevamo livellato appena uno dei mucchi di sabbia e già Norman e io stavamo ansando
affannosamente. Bene, pensammo, almeno eravamo riusciti a dimostrare che il lavoro era fattibile. Il
Maestro, ora che la sua curiosità era stata soddisfatta, ci avrebbe detto senza dubbio di andare a mangiare.

“Benissimo”, commentò invece lui, in tono d’approvazione. “Penso che il metodo funzioni. Perché non proviamo ancora una volta su quel mucchio laggiù?
Scendendo a un compromesso con le nostre aspettative, cominciammo una seconda volta.

“Benissimo!” commentò ancora il Maestro. Visto che ormai ci avevamo preso la mano non ci volle evidentemente ostacolare, perché disse: “Ancora una volta, quello laggiù!”.

E dopo quello: “Un altro”.

E di nuovo: “Un altro ancora”.

Non so quanti mucchi livellammo, ma Norman, pur forte com’era, cominciò a gemere piano a ogni respiro. “Ancora uno soltanto”, disse il maestro.

D’un tratto, compreso finalmente che si trattava di uno scherzo, mi rizzai con una risata. Il maestro mi rispose con un sorriso.

“Mi stavo divertendo un po’ con voi! Andate pure a mangiare, adesso”.

Spesso, nel corso della nostra istruzione, Yogananda avrebbe spinto al limite la nostra equanimità,
per vedere quali sarebbero state le nostre reazioni. Se ci fossimo ribellati, o se per la tensione
cui eravamo sottoposti avessimo mostrato turbamento, voleva dire che avevamo fallito la prova. Se
invece reagivamo facendo appello a una riserva straordinaria di energia e affermando in noi un
atteggiamento sereno e fiducioso, tali prove si rivelavano per noi fonte di incommensurabile rinvigorimento.
Il fine del Maestro, nel caso testé citato, fu di aiutare Norman e me a resistere al pensiero della
stanchezza. E’ curioso ma dopo avere spianato tutti quei mucchi di sabbia mi sentii realmente meno
stanco di quanto non fossi prima. “Più intensa è la volontà”, diceva spesso il Maestro, “più ricco è l’afflusso di energia”.

In un’altra occasione, Norman e io ci sedemmo a tavola per il pasto, voraci come al solito. quando
però posammo lo sguardo sul vassoio che ci era stato posto davanti, restammo senza fiato. Era
praticamente vuoto! Due tazze di acqua tiepida debolmente insaporita di cioccolato, un paio di
tramezzini che qualcuno doveva aver agitato più o meno in prossimità di un vaso di pasta d’arachidi e nient’altro.

“Che banchetto!” fu l’esclamazione costernata di Norma. Ma dopo un attimo di pausa scoppiammo
entrambi in una risata. “Ciò che ti giunge senza che tu lo cerci” era un’altra delle battute
favorite del Maestro, “accettalo”. Una delle chiavi per una imperturbabile pace interiore – era la
sostanza dell’insegnamento – consisteva nell’accettare la vita com’è. Anche se del tutto inadeguato
alle nostre esigenze fisiche, il nostro magro pasto di quel giorno era adattissimo alla meditazione.

Non molto tempo dopo lo scherzetto della trave, il maestro cominciò a invitarci in casa dopo
l’orario di lavoro ad ascoltarlo mentre dettava le sue opere. Le verità che appresi durante quelle
sedute ebbero per me un valore incalcolabile, non inferiore a quello di altre lezioni che mi furono
impartite, in modo meno grave, durante i periodi di rilassamento che il Maestro intercalava alla dettatura.

Come ho già indicato in precedenza, durante gli anni dell’università mi ero formato un concetto del
saggio come di chi prende tutto estremamente sul serio. Per quanto mi riguarda, avevo riso
frequentemente – è vero – ma sempre per irridere a delle presunte sciocchezze più che per gioia
innocente. Come molti intellettuali di estrazione universitaria, la mia nozione di saggezza tendeva
a essere alquanto arida. L’intelletto, però, finché non è addolcito dagli effetti, è come la terra
senza l’acqua: greve ma improduttiva. Il Maestro era altrettanto ansioso di togliermi questo mio vezzo a una dieta mentale tanto arida quanto io lo ero di essere svezzato.

Una sera Norman e io eravamo seduti con lui in cucina. Il Maestro mandò a chiamare a un certo punto
una delle sorelle e le chiese di andare a prendere in camera sua un sacchetto di carta marrone in
cui teneva delle cose. Al suo ritorno, spese la luce. Lo sentimmo armeggiare col sacchetto per
toglierne qualcosa, poi ridacchiò divertito. D’improvviso vi fu un ronzio metallico e uno sciame di
scintille sgorgò da una pistola giocattolo. Con uno scoppio di ilarità infantile il Maestro riaccese
la luce. Estrasse quindi un’altra pistola giocattolo e da essa sparò nell’aria un minuscolo
paracadute. Restammo tutti a guardarlo con gravità volteggiare fino al suolo. Ero completamente esterrefatto.

Il Maestro mi rivolse uno sguardo gaio, che celava però un’espressione di calma comprensione. “Ti è piaciuto, Walter?”.

Risi, mentre mi sforzavo di entrare nello spirito della cosa. “Bellissimo, signore!”. Il mio commento fu quasi una affermazione.

Lo sguardo che ebbi in risposta fu grave, anche se amoroso. Poi il Maestro mi citò le parole di
Gesù: “Lasciate che i fanciulli vengano a me, perché loro è il regno dei cieli” * Luca, 18:16. *

Una delle qualità più stupefacenti del Maestro era l’assoluta libertà del suo spirito. Anche di
fronte agli argomenti più profondi egli manteneva la semplicità e l’allegra innocenza del fanciullo.
Nelle prove più severe riusciva a trovare un’occasione di gioia. Eppure, anche quando rideva,
conservava la visione calma e devota di chi non contempla che Dio dovunque guardi. Spesso le piccolezze più insignificanti illustravano per lui verità profondissime.

C’era un cane a Twenty-Nine Palms, Bojo, di proprietà di un vicino. Dal momento che l’eremo di
Yogananda rimaneva per la maggior parte del tempo disabitato, Bojo aveva deciso che la proprietà
apparteneva al suo territorio. Nei primi giorni dopo il nostro arrivo, egli trovò quindi da
obiettare fieramente contro la presenza di Norman e me, ringhiando e abbaiando mentre lavoravamo
alla piscina. Fu Norman che riuscì finalmente ad aver ragione della sua ostilità con una
combinazione di aggressività e amore. Ogni volta che Bojo abbaiava, il mio compagno lo faceva
ruzzolare sulla schiena, lo carezzava e gli lanciava bastoncelli che quello correva a raccogliere. Ben presto il nostro vicino canino prese a farci visita da amico.

Un giorno il maestro si unì a noi per il pranzo all’esterno della casa. Bojo annusò il cibo e si avvicinò fiutando speranzoso.

“Guardate quel cane”, osservò con un risolino Yogananda. “Vedete come è aggrottata la sua fronte?
Anche se il suo unico pensiero è per il cibo, la sua mente è esclusivamente concentrata sull’occhio spirituale!”.

Una sera, durante la dettatura, il Maestro toccò l’argomento della reincarnazione.

“Signore”, gli chiesi, “sono già stato uno yogi prima d’ora?”.

“Certo e per più di una vita”, rispose. “Altrimenti non saresti qui”.

In quel periodo egli iniziò anche la revisione delle lezioni già pubblicate. Purtroppo non riuscì
mai a progredire molto in questo lavoro, perché il compito si rivelò semplicemente eccessivo, visto
il numero di nuovi scritti che continuamente progettava. La prima sera in cui se ne occupò, Dorothy
Taylor, la sua segretaria, gli stava leggendo la vecchia versione della prima lezione, quando giunse
al passaggio in cui egli aveva affermato che non è possibile ottenere risposte a problemi
scientifici con la sola preghiera, ma che questa deve essere accompagnata dall’esecuzione di
appropriati esperimenti. Le verità spirituali, affermava la lezione, richiedono un’analoga verifica
di “laboratorio” tramite la pratica dello yoga e la diretta, intima presa di contatto con Dio.

“Mmmmm”, la interruppe il Maestro scuotendo il capo. “Non è completamente vero. Se si prega con
sufficiente intensità, si otterranno senz’altro le risposte cercate, anche a questioni scientifiche intricatissime”. Ponderò per un istante il problema.

“No”, concluse. “Il punto in questione è la necessità di una verifica con metodi appropriati, e in
questo senso quanto è stato scritto è valido. In problemi di questo tipo la preghiera è efficace
soltanto per chi è già poco o tanto in contatto con Dio. Penso che non cambierò il testo.”

Questo era il modo nel quale egli analizzava, paragrafo dopo paragrafo, quanto anni prima aveva
scritto, chiarendo alcuni passaggi e approfondendone altri. Le intuizioni che ebbi assistendo a
questo suo lavoro furono impagabili. Fui molto colpito, anche, dal suo stile di insegnamento. Con il
suo modo universale di considerare le cose, la sua assoluta mancanza di autoritarismo, la sua
coscienza dei rapporti di ogni argomento particolare con le realtà più ampie, egli era, come ebbi
modo di constatare in più di una occasione, con sempre maggiore certezza, una vera guida sicura verso l’Infinito.

Un’altra cosa che mi impressionò fu il coraggio dinamico e senza compromessi con cui insegnava.
Certuni, sapevo, erano tentati di attenuare la forza delle sue parole, di rendere più blande le sue
affermazioni, per presentarle più accettabili alle masse. Il marchio della grandezza, però, è la
straordinaria energia che, essendo tale, accetta sempre le sfide. Alcuni mesi più tardi, trovai
divertente un esempio della tendenza di attutire una tale energia. Ho ricordato più volte come il
Maestro, nei suoi primi anni in America, salisse letteralmente di corsa sul podio del conferenziere,
sfidando l’uditorio affinché si elevasse al suo stesso livello di entusiasmo divino. Ancora adesso,
ad anni di distanza da quei giorni di “campagna”, iniziava ogni servizio domenicale con la stesa
domanda gioiosa: “Com’è ognuno di voi?”, unendosi alla congregazione nella vibrante risposta: “Desto
e pronto!”. Il dottor Lloyd Kennell, che officiava a domeniche alterne nella nostra chiesa di San
Diego, uomo del resto probo e sincero, non poteva rivaleggiare con l’energia del maestro. “Mi è più
congeniale tenere le cose su un livello più moderato”, mi spiegò una domenica mattina prima di
iniziare. Uscì poi sulla pedana. “Buongiorno”, esordì. “Voglio credere che tutti i presenti questa mattina si sentano desti e pronti, non è così?”.

Il Maestro invece, più di ogni altro che io abbia mai incontrato, aveva l’abilità di suscitare
l’entusiasmo dell’uditorio, di scuoterlo con l’inaspettato, di incantarlo con un’improvvisa
storiellina comica, di richiamarne l’attenzione subito dopo con qualche nuovo insegnamento. Come
quelle di Gesù, le sue parole avevano il crisma della verità. Perfino gli uomini arrivati trovavano irresistibile il suo potere di persuasione.

Nessun altro avrebbe osato farlo, ma egli, fin dalla primissima lezione, dettò un passaggio che
andava a confermare la sua asserzione dell’esistenza di uno stretto legame karmico fra la nostra diretta linea di guru e il grande maestro Gesù Cristo.

“Babaji, Lahiri Mahasaya e Sri Yukteswar”, affermò, “erano i tre saggi che vennero a far visita a
Cristo bambino nella mangiatoia. Quando Gesù fu cresciuto restituì loro quella visita. La narrazione
del suo viaggio in India fu poi rimossa dal Nuovo Testamento secoli dopo da seguaci settari timorosi
che la sua inclusione potesse sminuirne la statura agli occhi del mondo. Nota: La prova più valida
di questa soppressione di una parte del racconto ci viene offerta proprio dal fatto che la Bibbia
non riporta assolutamente nulla di diciotto anni della vita di Gesù. E’ semplicemente incredibile,
infatti, che tutti e quattro gli apostoli abbiano omesso qualsiasi menzione di un periodo tanto
lungo della breve vita terrena del loro Maestro. anche ammettendo la possibilità, pure alquanto
dubbia, che questi diciotto anni siano trascorsi senza alcun evento degno di essere ricordato,
nessun biografo coscienzioso – e tanto meno un discepolo – li avrebbe, ad ogni buon conto,
tralasciati completamente. Avrebbe come minimo detto qualcosa del tipo “E Gesù crebbe, lavorando
nella bottega del padre”. Il fatto che non ne sia fatta assolutamente menzione suggerisce
l’intervento successivo della classe sacerdotale, che le convinzioni religiose ispirarono a operare
tale censura, senza pur tuttavia far loro raggiungere l’impudenza di aggiungere delle frasi di loro pugno.

Il Maestro ci parlò spesso della nostra linea di guru e della missione di cui essi erano stati
investiti in quest’epoca. Egli infatti era l’ultimo in linea diretta di successione spirituale. Il
suo insegnamento non rappresentava affatto una teoria radicalmente nuova, né era la controparte
orientale dell’interminabile “penetrazione scientifica” dell’Occidente; si riallacciava piuttosto alla più pura, elevata e antica tradizione del mondo.

Babaji è il capostipite di questa linea diretta di successione di guru. Maestro di età veneranda,
vive ancor oggi nella regione Badrinarayan dell’Himalaya, dove pochi spiriti estremamente evoluti
possono ancora incontrarlo. Nell’ultima metà del diciannovesimo secolo, Babaji, sentendo che
nell’attuale era scientifica l’umanità era meglio preparata per accogliere una conoscenza superiore,
ordinò al suo discepolo, Shyama Charan Lahiri, di diffondere nuovamente nel mondo la scienza suprema
dello yoga, che per lungo tempo era stata tenuta celata. Lahiri Mahasaya, come lo conobbero i suoi
discepoli, impose a questa scienza elevata il nome di Kriya Yoga che significa semplicemente “unione
col divino ottenuta per mezzo di una certa tecnica, o azione spirituale”. Altre tecniche portano lo
stesso nome ma, secondo la nostra linea di guru, il Kriya Yoga di Lahiri Mahasaya è la più antica e
sta alla base di tutte le tecniche yoga. Babaji spiegò che a questa tecnica si riferì Krishna, il
più grande profeta dell’India antica, nella Bhagavad Gita con le parole: “Ho trasmesso questo yoga
imperituro a Bibaswat, Bibaswat lo insegnò a Manu (l’antico legislatore dell’India), Manu lo conferì
a Ikshvasku (il famoso fondatore della dinastia solare). Così esso fu tramandato in ordinata
successione di grande saggio in grande saggio finché, dopo ere ed ere, la sua conoscenza andò
deteriorandosi nel mondo” (poiché l’umanità perse, nella sua grande maggioranza, il contatto con le realtà spirituali).

Lahiri Mahasaya fu, come Babaji, un grande maestro yoga – “yogavatar” lo chiamava Yogananda, che
significa “incarnazione dello yoga” – nonostante fosse anche un capo famiglia con responsabilità
sociali. Il principale suo discepolo, dei molti che egli iniziò, fu Swami Sri Yukteswar, vale a dire
“incarnazione di saggezza”. Nota: Gyna (saggezza) è riportata spesso nei libri con la grafia Jnana.
Il Maestro commentò una volta in mia presenza i problemi posti dalla traslitterazione dai caratteri
sanscriti ai latini. Stava esaminando con me alcuni dei suoi scritti a Twenty-Nine Palms, quand’ero
ormai con lui da circa un anno e capitò ad un tratto questa parola, gyana. “Agli studiosi piace di
scriverla e jnana”, disse in tono di derisione. “Ma non la si pronuncia affatto j-nana. D’altronde
come potresti pronunciarla diversamente finché la trovi sanscrita in questo modo? Ecco un esempio
della pedanteria degli studiosi. Gyana è la pronuncia corretta. G-y in inglese non la esprime
esattamente, ma per lo meno è molto più simile alla maniera corretta. “Un’altra trascrizione
preferita dagli studiosi”, continuò il Maestro, “è quella che pone la v al posto della b. Invece di
Bibaswat scrivono Vivaswat. Perché mai? Il modo in cui si pronuncia la v in inglese non rende
affatto la pronuncia sanscrita. Come prima b non è esatto, ma per lo meno assomiglia di più”. Fu Sri
Yukteswar, che mandò in America Paramahansa Yogananda a diffondere la tecnica del Kriya Yoga che, a
detta del nostro guru, avrebbe saputo conferire una direzione improntata alla saggezza allo sviluppo
fino a quel momento completamente incoerente e potenzialmente pericoloso della moderna civiltà occidentale.
“Nel progetto divino”, afferma Yogananda in un’altra occasione, “Gesù Cristo era responsabile
dell’evoluzione dell’Occidente; Krishna, in seguito a Babaji, di quella dell’Oriente. L’intento era
che l’Occidente realizzasse il proprio sviluppo, in senso oggettivo, mediante la logica e la
ragione, e che l’Oriente si specializzasse invece nello sviluppo interiore e intuitivo. Sul piano
cosmico è venuto però il momento che queste due tendenze si fondano in una. Oriente e Occidente devono unirsi”.
Durante una di queste sedute serali di dettatura, il Maestro rivide anche le lezioni sul Kriya Yoga,
operando alcune varianti alla loro forma primitiva; “non per modificare la tecnica”, spiegò, “ma soltanto per renderla più facilmente comprensibile”.

Stavo assorbendo avidamente ogni sua parola. Si capisce: non ero ancora iniziato al Kriya Yoga! A un certo punto però Yogananda si interruppe bruscamente.
“Dì un po’, Walter!” esclamò. “Tu non sei stato iniziato al Kriya Yoga!”.

“No signore”. Sorridevo soddisfatto. Aveva già dettato abbastanza perché capissi la tecnica.

“Beh in tal caso dovrò iniziarti subito”. Interrotta la dettatura, il Maestro ci disse di sederci
con la schiena eretta, nella posizione in cui meditavamo. “Ecco io invio la luce divina attraverso
il tuo cervello, battezzandoti”, disse, rimanendo seduto dov’era all’altro capo della stanza. Mi
sentii immediatamente benedetto: una corrente divina si irradiò dal Centro Cristico per tutto il mio
cervello. Il Maestro continuò a parlare, impartendomi istruzioni per la pratica di quella tecnica.

“Non praticarla comunque per ora”, concluse. “A Natale ti sarà conferita l’iniziazione formale. Attendi fino ad allora”.

Gradualmente, a mano a mano che passavano le settimane, sentivo il mio cuore sbocciare come un fiore
ai raggi solari dell’amore del Maestro. Mi scoprivo sempre più in grado di apprezzare quale fortuna
fosse stare con lui. Una sera, durante la consueta dettatura, egli spiegò un metodo per sintonizzare il proprio essere alle vibrazioni spirituali del proprio guru.

<“Visualizzate il guru”, disse “nel punto in mezzo alle sopracciglia, il Centro Cristico. Questa è
la “stazione trasmittente” del corpo umano. Invocatelo intensamente in quel punto. Poi cercate di
sentirne la risposta nel vostro cuore, la “stazione ricevente” del corpo, dove la percepirete
intuitivamente. Durante tutto il processo pregate, pregate con ardore: “Conducimi a Dio”>.

Altre volte visualizzavo l’immagine rimpicciolita del maestro seduta sulla sommità del mio capo.
Nell’uno come nell’altro caso, quando meditavo su di lui, provavo sovente la sensazione che
un’ondata di pace e d’amore scendesse su di me inondando l’intero mio essere, accompagnata a volte
dalla risposta alle domande che avevo posto, o da una comprensione più chiara delle qualità che
stavo cercando di sviluppare o di superare dentro di me. Bastava talvolta una sola seduta di
meditazione sul Maestro perché mi trovassi liberato da un’illusione che mi aveva angustiato per mesi
o, forse, per anni. In una di tali occasioni, quando dopo la meditazione mi avvicinai al Maestro
inginocchiandomi ai suoi piedi per riceverne la benedizione, egli commentò con voce dolcissima: “Bene, bene!”.

Di tanto in tanto Yogananda veniva nell’eremo di Twenty-Nine Palms destinato ai monaci e là
passeggiava con noi per la proprietà o sedeva a discorrere. Talvolta meditava con noi. Ricordo le sue parole dopo una di tali sedute.

“Questo è il regno dell’Aum. Ascoltate! Non è sufficiente limitarsi a udirlo; dovete immergervi in
questo suono. Aum è la Madre divina”. Rimase in silenzio per alcuni minuti. “Om Kali, Om Kali, Om
Kali. Ascoltate!…” Tacque ancora come in attesa. “Oh, meraviglia! Om Kali, Om Kali, Om Kali!”.
Nota: Om è la trascrizione comune di Aum. Lo ha scritto in questa forma per renderne meglio il suono
quando viene salmodiato. Da un punto di vista tecnico Aum è la trascrizione più corretta, dove le
tre lettere indicano le tre distinti vibrazioni della manifestazione cosmica: creazione,
conservazione, distruzione. Per quanto riguarda la pronuncia la trascrizione è invece fuorviante,
perché la a non si pronuncia lunga come in car (automobile, in inglese), ma breve. Il dittongo che
ne risulta assume quindi un suono simile a quello della lettera o nella lingua inglese. Nella
mitologia indù le tre vibrazioni della manifestazione cosmica sono raffigurate con Brahma, Vishnu e
Shiva. Aum è la vibrazione mediante la quale lo Spirito supremo porta tutte le cose a manifestarsi. E’ lo Spirito santo della Trinità cristiana. Fine nota.
In un’altra occasione – stavo dormendo nell’eremo dei monaci ed era notte fonda – fui svegliato di soprassalto dalla s
ensazione che nella stanza aleggiasse una presenza divina. La percezione era vivissima, quasi come
Dio stesso mi si fosse manifestato, benedicendomi. Mi misi a sedere per immergermi in meditazione.
Così facendo colsi la visione fugace del Maestro che passeggiava fuori alla casa alla luce della
luna. Pieno di inesprimibile gratitudine, corsi fuori e mi chinai ai suoi piedi senza parlare.

Yogananda possedeva il dono stupefacente dell’universalità nei suoi affetti. Ciascuno di noi sentiva
di essere, in certo qual modo, l’unico oggetto del suo amore. Si trattava però al tempo stesso di
una relazione completamente impersonale, nella quale i favori esteriori contavano ben poco. Tale è
sempre, come sarei infine giunto a comprendere, l’amore divino. Ero già stato in ashram dove
l’attenzione era tanto polarizzata verso le personalità umane che, a pochi minuti dal proprio
arrivo, uno già sapeva chi erano i più importanti discepoli, cosa facevano, che cosa ne diceva il
guru. Nei miei primi mesi come monaco SRF, invece, dubito che avrei riconosciuto più di uno o due
nomi nel “Chi è?” dei discepoli più prossimi al Maestro; non ricevevamo semplicemente alcun incoraggiamento a incuriosirci sul loro conto.
Accadde così che quando quell’autunno cominciò a circolare la voce che Faye Wright (ora Daya Mata,
terzo presidente della SRF) era caduta gravemente ammalata, il suo nome, per quanto fosse fra i
primi nella lista dei discepoli più vicini al Maestro, non venne a significare nulla per me. Seppi
anzi della sua malattia soltanto come spiegazione dell’improvvisa partenza del Maestro da Twenty-Nine Palms per Los Angeles.

“La sua morte sarebbe una gravissima perdita per tutti noi”, mi disse Bernard con voce grave.

“Era già spacciata”, annunciò Yogananda al suo ritorno da Los Angeles. “Guardate un po’ come opera
il karma. Il dottore era stato chiamato in tempo, ma sbagliò la diagnosi. quando si accorse del suo
errore era ormai troppo tardi. Ella sarebbe certamente morta se Dio non avesse voluto risparmiare la sua vita per la prosecuzione dell’opera.”

Il Maestro ci consigliava di non preoccuparci di faccende che non ci riguardassero direttamente.
“Rimani costantemente nel Sé”, mi esortò. “Scendi soltanto per mangiare qualcosa o scambiare qualche
parola, se è necessario. Poi ritirati nuovamente nel Sé”. Non conobbi, né tanto meno vidi Daya Mata se non quando ero ormai da quasi un anno con il Maestro.

Il mio interesse immediato a Twenty-Nine Palms era il lavoro che avevamo iniziato. Quando avemmo
completato lo scavo per la piscina, vennero altri monaci ad aiutarci alla costruzione delle armature
in legno. Bernard ci informò che la gettata del cemento non poteva subire interruzioni per evitare
le giunture. Facemmo a mano tutto il lavoro, miscelando e gettando con l’aiuto di una piccola
bettoniera. Io spalavo la sabbia, un altro aggiungeva la ghiaia, altri ancora portavano il cemento
con le carriuole fino ai punti di gettata. Lavorammo per ventitré ore fermandoci soltanto
occasionalmente per ristorarci con panini e bevande calde. Non smettemmo però un momento, durante
tutto il lavoro, di innalzare canti a Dio e le ore trascorsero in letizia. Quando tutto fu finito la
nostra energia era maggiore che all’inizio di quella lunga giornata e tutti sorridevamo felici.

Tutti, cioè, tranne uno. Questi, dopo un’ora o due passate a lavorare di malavoglia, aveva
brontolato: “Non sono venuto qui per spalare cemento!”, e sedutosi, era restato a guardarci per
tutto il rimanente del giorno, ricordandoci di tanto in tanto che tutto ciò non aveva nulla a che
fare con il cammino verso la perfezione spirituale. Fu lui l’unico a sentirsi esausto alla fine di quella lunga giornata. Interessante, no?

Mesi dopo, in una conversazione con il maestro, trovandoci in argomento, si parlò della malavoglia
di quel discepolo. “Mi disse”, osservai, “di non poter obbedirvi senza riserve, perché sente di dovere sviluppare liberamente la sua volontà”.

“Ma la sua volontà non è libera”, replicò meravigliato il Maestro. “Come potrebbe esserlo finché è
vincolata da capricci e desideri? Io non chiedo a nessuno di seguirmi, ma chi l’ha fatto ha trovato la vera libertà”.

“Sorella”, continuò, usando il nome con il quale si riferiva sempre a sorella Gyanamata, l’anziana
discepola che avevo incontrato durante la mia prima visita a Encinitas, “era solita correre qua e là
tutto il santo giorno per eseguire i miei ordini. Una volta alcuni degli altri discepoli gli
dissero: “Ma perché fai sempre quello che lui ti dice di fare? Tu hai la tua volontà!”. E lei
rispose: “Certo. Ma non pensate che ormai sia troppo tardi per cambiare? E poi devo dire che non sono mai stata così felice in vita mia come lo sono da quando sono qui”.

Il maestro se ne uscì in un risolino. “Non la importunarono più!”.

Anch’io, nel mio piccolo, potevo già sottoscrivere la risposta di sorella Gyanamata, a quei
discepoli recalcitranti. Più infatti armonizzavo la mia volontà con quella del mio guru e più mi sentivo felice.

“La mia volontà”, egli diceva spesso, “non è altro che la volontà di Dio”. E la prova della verità
di questa affermazione era nel fatto che, tanto più perfettamente seguivamo la sua volontà, tanto più ci sentivamo liberi in Dio.

Con l’avvicinarsi del Natale, il mio cuore cominciò a cantare per una felicità che mai prima
d’allora avrei sognato possibile. Natale era una festa importante a Mount Washington, la più sacra
in tutto l’arco dell’anno. Il Maestro l’aveva divisa in due aspetti fondamentali: il “Natale
spirituale” che celebravamo alla vigilia e il “Natale sociale” che si festeggiava il giorno seguente
con il tradizionale scambio di doni e un banchetto. (In seguito Yogananda avrebbe acconsentito ad
anticipare la celebrazione del “Natale spirituale” nel giorno ventitré, per evitare che i discepoli
che preparavano le portate per il festoso pranzo del giorno di Natale dovessero restare alzati tutta la notte).
Il 24 dicembre ci radunammo nella cappella alle dieci del mattino per una seduta di meditazione che
sarebbe durata tutto il giorno al fine di invitare il Cristo infinito a nascere di nuovo nelle
“mangiatoie” dei nostri cuori. Non so quanti di noi si accostarono a quella prima esperienza di una
meditazione tanto prolungata senza una certa trepidazione. Pochi, suppongo, e fra di loro non certo io.

Prendemmo posto nella cappella, il Maestro seduto contro la parete di fondo in modo da vederci tutti
in viso. Le porte furono chiuse. Da quel momento in avanti, salvo che per una breve pausa
intermedia, nessuno avrebbe potuto entrare o uscire dal locale se non in casi di emergenza.

Cominciammo con l’innalzare una preghiera a Gesù Cristo e agli altri maestri per ottenere la loro
benedizione in quella santa occasione; poi, per quindici o venti minuti, cantammo in coro.

I “canti cosmici” di Paramahansa Yogananda consistono semplicemente in brevi frasi che vengono
ripetute ininterrottamente più volte con concentrazione e devozione sempre più intense. Mi ci era
voluto del tempo, abituato com’ero dall’infanzia alle finezze della musica classica occidentale, per
adattare completamente il mio orecchio a questa forma, piuttosto dura e rudimentale, di espressione
musicale, ma ero giunto ormai ad amare quei canti che trovavo bellissimi nella loro estrema
semplicità e dotati di una forza ben di rado raggiunta dalla musica da me udita fino ad allora.
Erano infatti canti “spiritualizzati”, nei quali il Maestro aveva infuso misteriosi poteri di
benedizione cantandoli uno per uno fino a suscitare una risposta divina. Come gli edifici e i luoghi
emanavano vibrazioni in sintonia con lo stato di coscienza di chi li frequenta, così anche la musica
comunica vibrazioni che vanno oltre quella del suono in sé e per sé. Quando i canti sono stati
spiritualizzati, particolarmente dai grandi santi, possiedono il potere di ispirare chiunque li intoni.

Uno degli inni che cantammo quel giorno era ad esempio: “O Cristo del colore delle nubi, vieni! O
Cristo, mio Cristo, Gesù Cristo, vieni!”. Lo trovavo provvisto di una meravigliosa efficacia
nell’aiutarmi a immergermi sempre più profondamente nella meditazione. Periodi di canti venivano
alternati a periodi sempre più lunghi di meditazione. Di tanto in tanto il Maestro ci invitava ad
alzarci durante i cori per alleviare l’eventuale tensione fisica e ci invitava ad accompagnare
alcuni dei canti più ritmati con il battito delle mani. Un paio di volte chiese a Jane Brush di suonare all’organo brani devozionali.

A un certo punto del pomeriggio Yogananda ebbe una visione della Madre divina e, senza uscire
dall’estasi, ne trasmise i desideri a molti dei presenti. Ad alcuni disse di donarsi a Dio senza
riserve, ad altri comunicò che la Madre divina li aveva fatti oggetto di una particolare
benedizione. Parlò poi direttamente con Lei, a voce tanto alta che tutti potemmo udire una parte di quella unione beatifica.

“Oh, sei tanto splendida!” ripeté più e più volte. “Non andartene!” gridò alla fine. “Dici che i
desideri terreni di costoro ti stanno schiacciando? Torna, ti prego! Non andare via!”.

La meditazione fu tanto profonda quel giorno che si omise anche l’abituale intervallo intermedio di
dieci minuti. L’apprensione che avevo provato all’inizio si rivelò illusoria. “All’anima piace
meditare”, ci disse il maestro. “E’ l’ego, con il suo attaccamento alla coscienza corporale, che oppone resistenza all’ingresso nell’immensità interiore”.
Il giorno di Natale ci scambiammo regali secondo la tradizione. Assieme a un regalo molto più serio
donai al Maestro anche un giocattolo con un meccanismo a sorpresa, per ricordargli l’esibizione con
le pistole giocattolo che aveva inscenato per me a Twenty-Nine Palms. Ricevetti in cambio da lui una
penna a quattro colori. “Scrivici tanti split infinitives, mi raccomando!” mi augurò sorridendo.

L’evento principale della giornata fu il banchetto pomeridiano, al quale presenziò il Maestro.
Aiutai a servire in tavola il riso al curry con le verdure. Dopo il pasto il Maestro ci indirizzò un
discorso. Parlava con voce tanto dolce e incantevole che mi sembrava di essere in paradiso. Non
avevo mai pensato che qui, in questa nostra terra prosaica, fosse possibile un’ispirazione tanto divina.

Il giorno seguente il Maestro impartì l’iniziazione al Kriya Yoga, in primo luogo, ma non
esclusivamente, ai monaci che avevano pronunciato i voti. Mentre mi avvicinavo a lui per riceverne
la benedizione, innalzai mentalmente una preghiera perché mi concedesse il suo aiuto ad accrescere
il mio amore divino. Dopo che egli mi ebbe sfiorato sul Centro Cristico, aprii gli occhi per scoprire che mi stava sorridendo con beatitudine.

Verso la fine della cerimonia dell’iniziazione il Maestro pronunciò queste parole: “Legioni di
angeli sono passate oggi per questa stanza”. E continuò con l’inebriante promessa: “Alcuni dei
presenti diverranno siddhas, molti jivan muktas” Nota: Si dice jivan mukta chi ha superato ogni
illusione, ma ancora deve purgarsi del karma passato. Un siddha, invece, si è mondato anche di ogni traccia del suo karma passato. Fine nota.

Alla vigilia del nuovo anno ci raccogliemmo, ancora sotto la guida del Maestro, nella cappella per
una meditazione di mezzanotte. A un certo punto della nottata egli percosse dolcemente un grande
gong, aumentando e diminuendo poi gradualmente il volume del suono fino a creare un effetto come di
onde. “Immaginate che questo suono sia quello dell’Aum”, ci disse, “che si propaga sempre più nell’infinito”.

Nello stesso istante, a Encinitas, a centosessanta chilometri di distanza, un altro gruppo di
discepoli era immerso in meditazione nella sala principale dell’eremo e anch’essi udirono il suono
del gong che il Maestro stava percuotendo. Uno di quei monaci mi confessò più tardi: “Era come se qualcuno stesse percuotendolo appena fuori dalla stanza, nel corridoio”.

La meditazione che seguì, a Mount Washington, fu avvincente.

Giunse la mezzanotte e d’improvviso ondate di rumore provennero dalla città sottostante e,
tutt’intorno, dal vicinato: sirene di fabbriche, clacson di automobili, grida. Innumerevoli persone
in festa stavano dando il benvenuto al nuovo anno. Una porta del vicinato si aperse e una voce strillò disperatamente nella notte. “Buon Anno!”.
Come ci parvero patetici questi rumori festivi, paragonati alla gioia che le nostre anime stavano sperimentando nella piccola cappella! Che fortuna, pensai, che ineffabile

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