I neuroni umani potrebbero essere dei supercomputer

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I neuroni umani potrebbero essere dei supercomputer

29 ottobre 2018

Nuove scoperte hanno rivelato peculiari proprietà delle cellule cerebrali umane che potrebbero
spingere al massimo la capacità di calcolo del nostro cervello. Ad aprire nuove prospettive di
conoscenza sono le proprietà di conduzione dei segnali elettrici nelle strutture dei neuroni note
come dendriti

di Diana Kwon/Scientific American

Quando per la prima volta osservò i neuroni, il neuroscienziato spagnolo Santiago Ramón y Cajal
rivoluzionò lo studio del cervello. Le sue indagini, oggi vecchie di oltre cent’anni, rivelarono
dettagli intricati di cellule nervose in molti animali diversi, inclusi gli esseri umani: dendriti
simili a radici attaccati a bulbosi corpi cellulari, dai quali emergono lunghi e sottili assoni.

Le analisi di Cajal hanno anche rivelato che negli esseri umani i dendriti (attraverso cui le
cellule nervose ricevono segnali da altri neuroni) erano molto più lunghi rispetto ai roditori e
altri animali, addirittura ad altri primati non umani. Un nuovo studio, pubblicato nelle scorse
settimane su “Cell”, mostra che nelle persone queste proiezioni simili ad antenne hanno anche
proprietà elettriche peculiari che potrebbero aiutare a spiegare come il cervello elabora le
informazioni in arrivo.

Nei decenni trascorsi dalle prime osservazioni di Cajal, gli scienziati hanno studiato
meticolosamente i dendriti. Tuttavia, “l’unica cosa che conoscevamo veramente dei dendriti umani era
la loro anatomia”, afferma Mark Harnett, neuroscienziato del Massachusetts Institute of Technology.
“I dendriti umani potenzialmente potevano fare qualcosa di diverso a causa della loro lunghezza, ma
non c’erano lavori pubblicati, per quanto ne so, sulle loro effettive proprietà elettriche.”

Così Harnett e colleghi hanno cercato di capire se la lunghezza dei dendriti influenzasse i segnali
elettrici trasmessi attraverso di essi. Con l’aiuto del neurologo Sydney Cash, del Massachusetts
General Hospital, sono riusciti a ottenere tessuto cerebrale che era stato rimosso da pazienti con
epilessia sottoposti a un intervento chirurgico di routine per alleviare gli attacchi: è una
procedura in cui i medici di solito rimuovono parte della corteccia temporale per arrivare
all’ippocampo, una struttura profonda del cervello da dove di solito provengono le convulsioni. Una
volta ottenuto il tessuto, il gruppo di ricerca lo ha poi trasportato in fretta in laboratorio, dove
i campioni sono stati ridotti a sezioni sottilissime per essere analizzati. Poiché il tessuto umano
poteva essere mantenuto vivo solo per alcuni giorni, gli esperimenti di solito continuavano senza
sosta per le successive 48 ore. “Lavoravamo a turni: andavamo a casa a dormire, poi tornavamo e
continuavamo a registrare”, dice Harnett.

In totale, il gruppo di Harnett ha esaminato le sezioni del cervello di nove pazienti e 30 ratti.
Per studiare le proprietà elettriche dei neuroni di questi campioni, i ricercatori hanno usato la
cosiddetta registrazione patch-clamp, che prevede il collegamento di piccoli aghi di vetro alle
cellule nervose per misurarne l’attività. Queste sonde hanno rivelato che sebbene i dendriti di
esseri umani e di roditori condividevano caratteristiche di base, come la capacità di produrre un
potenziale d’azione, c’erano differenze cruciali tra le due specie. Quando i ricercatori hanno
inviato una corrente elettrica nei dendriti dei neuroni, hanno scoperto che nelle cellule umane
arrivava ai somi (o corpi cellulari) molta meno attività rispetto ai somi dei roditori. “Questo
suggerisce subito che nei dendriti umani la segnalazione è molto più compartimentata”, dice Harnett.
“Ciò significa che qualsiasi elaborazione locale avvenga nei dendriti può avvenire indipendentemente
da quello che accade nel soma.”

Harnett paragona questi compartimenti dendritici con i cilindri in una serratura: via via che la
serratura diventa più complicata, il numero di cilindri aumenta e occorre una chiave più sofisticata
per aprirla. In modo simile, i dendriti umani possono richiedere segnali molto specifici per
influenzare fortemente il soma. In definitiva, le proprietà dei dendriti umani potrebbero conferire
ai neuroni più potenza di calcolo rispetto a quelli dei roditori. Poiché nei ratti i segnali sono
trasmessi più facilmente da un’estremità della cellula all’altra, s’ipotizza che l’elaborazione dei
segnali elettrici nei dendriti di questi animali sia meno compartimentata, osserva Harnett.

Microfotografia in luce fluorescente di neurone: sono visibili i numerosi dendriti che emergono dal
soma come rami. (Science Photo Library / AGF)
Michael Hausser, neuroscienziato dello University College di Londra che non è stato coinvolto in
questo lavoro, afferma che questo nuovo studio supporta decenni di ricerche sugli animali, per lo
più roditori, che hanno dimostrato che i dendriti possono segregare i segnali in questo modo. In
base a queste osservazioni, afferma, gli scienziati si aspettavano un grado maggiore di
compartimentazione nei dendriti dei neuroni umani rispetto a quelli di molti altri animali, perché
sono molto più lunghi. E il lavoro successivo con i modelli computazionali ha suggerito che avere
più compartimenti di elaborazione indipendenti all’interno dei dendriti può fornire una maggiore
potenza di calcolo all’interno di una singola cellula.

Tuttavia, i calcoli effettuati realmente dai dendriti e i comportamenti legati all’attività in
questi rami neuronali non sono ancora chiari. Ma gli scienziati hanno alcune idee: una possibilità,
dice Hausser, è che l’attività elettrica nei dendriti possa rilevare il verificarsi simultaneo di
segnali separati, per esempio informazioni in arrivo sull’odore e sulla forma di una rosa. Oltre a
identificare diversi input per il neurone, i dendriti potrebbero anche essere coinvolti nel
collegare tra loro queste informazioni e nella loro memorizzazione.

Naturalmente, queste idee devono ancora essere testate sperimentalmente. Ma lo studio di Harnett
“rappresenta un primo passo in una nuova era di esplorazione dei nostri dendriti”, dice Hausser. “E
questo è incredibilmente importante per capire come funziona il cervello umano.”

Javier DeFelipe, neuroscienziato dell’Istituto Cajal di Madrid che non è stato coinvolto nel lavoro,
afferma che questa ricerca sottolinea l’importanza di studiare il tessuto umano. Molti studi di
neuroscienze sono basati sui roditori, ma il cervello degli animali differisce da quello degli umani
per diversi aspetti. Questo lavoro mostra che oltre alle diversità dimensionali, ci sono anche
differenze nel modo in cui funziona l’organo umano. “Il nostro cervello non è un cervello di topo
più grande”, dice DeFelipe.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 18 ottobre 2018.
Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
www.scientificamerican.com/article/what-makes-human-brain-cells-unique/

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