I tre rifugi buddhisti

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I tre rifugi

(del venerabile Ajahn Sumedho)

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “La mente e la via”
Traduzione di Elizabetta Valdrè

(Estratto del libro “La mente e la via”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini.)

Quasi tutte le tradizioni buddhiste prevedono il prendere rifugio nel
Buddha, nel dhamma e nel sangha. Questi tre elementi costituiscono un punto
focale per il nostro impegno e per le nostre riflessioni sulla pratica.

Il primo rifugio: il Buddha

Il primo rifugio è il Buddha, spesso raffigurato da un’immagine su un
tabernacolo. Qualcuno si chiederà perché i buddhisti possiedono immagini del
Buddha. Sono idoli che adoriamo? Hanno una sorta di potere divino? Niente
affatto; sono immagini su cui riflettere.

Quando contemplate un’immagine del Buddha, vi rendete conto che è l’immagine
di un essere umano composto, vigile e sereno. Sta di fronte al mondo e
osserva le cose. È consapevole del mondo, ma non se ne lascia ingannare né
intrappolare. Non è estatico e neppure depresso. Rappresenta la capacità
dell’essere umano di trovarsi in una calma assoluta e di vedere le cose per
come sono davvero, e dà alla mente un’ispirazione di grande esperienza.
Quando contemplate un’immagine del Buddha, provate un senso di calma.
Perciò, vivere con le immagini del Buddha è una cosa piacevole; sono oggetti
assai piacevoli da tenere con sé.

È ovvio che, se ci contorniamo di sculture che raffigurano forti passioni di
rabbia e di estasi, o che attirano ed eccitano le passioni dentro di noi,
diverremo passionali ed eccitati. Diventiamo quello che osserviamo. Ciò che
ci circonda esercita un influsso sulla nostra mente. A mano a mano che
intensificate la meditazione, scegliete di porre intorno a voi oggetti che
portano alla tranquillità, non all’agitazione.

Nei monasteri, i monaci e le monache, per tradizione, fanno ogni mattina
un’offerta di candele, incenso e fiori al tabernacolo del Buddha. Anche
quelle offerte sono fatte per riflettere. I fiori sono alcuni tra i doni più
leggiadri che si possano fare, perché sono tra i prodotti più belli della
terra. I fiori freschi abbelliscono qualunque luogo in cui si trovano; non
sminuiscono né danneggiano mai alcunché. Nel buddhismo sono un simbolo di
purezza mentale.

Di solito, le immagini del Buddha lo mostrano seduto su un fiore di loto.
Nel sudest asiatico, il fiore di loto cresce nelle paludi e negli stagni,
sbocciando tra il fango e la melma. Si innalza al di sopra di tutto ciò e
diventa un fiore magnifico. Quel fiore è come un essere umano morale. Un
essere umano responsabile di ciò che fa è sempre una creatura magnifica da
avere vicino a sé. Ovunque vada è il benvenuto; abbellisce, adorna. Al
contrario, il mondo è ingombro di esseri umani egoisti, immorali e
noncuranti, simili a erbe infestanti. Ecco perché il Buddha è seduto
simbolicamente su un trono di loto: la saggezza del Buddha può provenire
solo dalla purezza morale.

Gli esseri umani possono raggiungere qualunque livello. Possiamo vivere,
come fanno molti, a livello istintivo del corpo, seguendo gli impulsi
animali al cibo, al sonno e alla procreazione. Possiamo anche abbassarci al
di sotto di quel livello ed essere ossessionati da desideri di bassa natura.
Molti esseri umani vivono in questo modo. Non sono veramente umani; sono
come spettri che vivono in un mondo crepuscolare di appetiti ossessivi e
desideri insaziabili, come tossicodipendenti e alcolizzati. Oppure possono
essere demoni, con un’energia malvagia che cerca di distruggere e ferire gli
altri. Il solo fatto di possedere un corpo umano non significa che siate
pienamente umani. Non è così facile. Il regno umano è totalmente intriso di
mortalità, perciò essere umani implica anche l’aspetto mentale.

Solo quando decidiamo di assumerci la responsabilità della nostra vita
diventiamo esseri umani a tutti gli effetti. Dobbiamo compiere lo sforzo di
elevarci. Essere responsabili richiede fatica; non è qualcosa che avviene
senza sforzo. Dobbiamo sceglierlo. Dobbiamo decidere di essere in quel modo
e assumerci l’impegno e la fatica necessari. Viceversa, ci limiteremo a
seguire gli impulsi istintivi che spesso sono autoindulgenti e di basso
livello. Quando compiamo lo sforzo necessario, ci innalziamo a un livello
superiore. Ecco cosa rappresentano i fiori e il loto.

Quando prendiamo rifugio nel Buddha, stiamo prendendo rifugio in ciò che è
saggio. La parola “Buddha” è in realtà un termine indicativo dell’umana
saggezza; significa “colui che conosce la verità” o “quello che conosce”. Se
dite di essere un buddhista, potete pensare di esservi convertiti a una
religione, oppure potete pensare di essere qualcuno che sta prendendo
rifugio nella saggezza. Per essere saggi, si riflette e si contemplano le
cose. La saggezza c’è già. Non è qualcosa che si ottiene, ma qualcosa che
viene usato. È sbagliato pensare che diventerete saggi meditando. La
meditazione è un modo per imparare la saggezza che c’è già. Nella
meditazione, contemplate e riflettete sul dhamma, o sulla verità del così
com’è. Così facendo, state già usando la saggezza. La saggezza non è
qualcosa che non possedete, ma qualcosa che forse non sempre usate, o di cui
non siete sempre consapevoli.

Nei canti quotidiani nei monasteri, il Buddha è detto l’arahant, il
sammasambuddha. Sono termini pali che stanno per ciò che è veramente puro e
illuminato. Sammasambuddha significa colui che è illuminato perché conosce
la sua vera natura. Arahant è una parola che sta per essere umano perfetto,
essere umano che vede con chiarezza e non si lascia ingannare dalle
apparenze e dai condizionamenti mentali.

Il Buddha è detto anche vijjacaranasampanno, che significa perfetto nella
conoscenza e nella condotta; non quindi sapere ciò che è giusto e
comportarsi altrimenti.

Di questi tempi, un gran numero di maestri agisce proprio in questo modo. Da
una parte scrivono libri, insegnano e capiscono; le loro azioni, però, non
si accordano alle loro conoscenze. Ma un Buddha è ciò che un Buddha conosce;
vive in quel modo: vijjacaranasampanno, perfetto nella conoscenza e nella
condotta.

Un altro attributo del Buddha è lokavidu, che significa colui che vede il
mondo, che conosce il mondo come è. Dov’è il mondo conosciuto dal Buddha?
Quando contemplate la domanda: “Dov’è il mondo?”, scoprirete che la risposta
è la vostra mente. Di solito, però, non pensiamo al mondo in quel modo; lo
identifichiamo con il pianeta. Guardate una carta geografica e vedrete che
la Svizzera è azzurra e l’Inghilterra è rosa. Pensate che l’Asia,
l’Australia e l’America siano il mondo, qualcosa che conoscete perché
guardate una carta geografica o perché avete studiato storia e geografia. Ma
il mondo reale è la vostra mente, e voi conoscete il mondo perché conoscete
la mente. Osservando la mente, riflettendo su di essa, conoscete il mondo
così com’è, come si presenta alla coscienza: le paure, i desideri, i punti
di vista e le opinioni, le percezioni che vanno e vengono nella mente.
Questo è il significato di lokavidu.

Il Buddha è sarathi, che significa auriga, colui che sta al posto di guida.
Significa che quando prendiamo rifugio nel Buddha, ci lasciamo guidare da
ciò che è saggio, non da ciò che è stupido e ignorante. Ci rivolgiamo alla
nostra saggezza di Buddha che ci addestra. Aprendoci alla saggezza, ci
alleniamo a vivere con rettitudine. Impariamo a essere di utilità e a non
rappresentare un fastidio o una maledizione per il mondo. Nei regni celesti,
il Buddha è il maestro (sattha) di tutti gli dèi, ed è anche il maestro di
tutti gli esseri umani. Ciò significa che il Buddha addestra tutte le
creature virtuose a vedere le cose nel modo giusto, a conoscere la verità.

Il secondo rifugio: il dhamma

Il Buddha può essere personificato e potete fabbricare immagini umane del
Buddha, ma il rifugio successivo, il dhamma, non possiede alcuna qualità
personale. Il simbolo che si usa per il dhamma è generalmente quello della
ruota (dhammacakka). Dhamma significa verità, la verità del così com’è.
Perciò il dhamma comprende ogni cosa, esseri umani, animali, demoni, angeli,
tutti gli dèi, tutte le cose che si possono concepire o percepire, e anche
la verità immortale. Il dhamma comprende ogni cosa: il conoscere, la verità,
le condizioni, tutte le esperienze sensoriali, il vuoto e tutte le forme.
Tutto è dhamma.

La meditazione è un modo per aprirsi al dhamma. Vi aprite alla verità. Nei
nostri canti dedicati al dhamma, diciamo che esso è “visibile qui e ora”
(sanditthiko), “senza tempo” (akaliko), “promotore dell’investigazione
(ehipassiko), “guida alla liberazione” (opanayiko), “ciò che va sperimentato
personalmente” (paccatam) e “realizzabile dal saggio” (veditabbo viññuhi).

Sono parole che mettono in luce il qui e ora. Quando vi aprite alla verità,
non cercate qualcosa in particolare, non vi concentrate su un oggetto, né vi
chiedete: “È questa la verità?”. Aprirsi alla verità significa aprire la
mente, non concentrarsi su una cosa. Il prendere rifugio nel Buddha e nel
dhamma ci riporta allo stato di attenzione vigile. Non cerchiamo di
concentrarci su questo e sbarazzarci di quello; non ci facciamo intrappolare
dall’abitudine alla condiscendenza e alla repressione. Quando ci apriamo,
quando impariamo ad aprirci qui e ora, sperimentiamo la tranquillità, perché
non stiamo cercando alcunché in particolare a cui attaccarci. Non corriamo
più di qua e di là; stiamo interrompendo la nostra corsa frenetica.
L’apertura al dhamma è la via che conduce alla tranquillità, e dobbiamo
realizzarla di persona. Dobbiamo realizzare la verità per conto nostro; non
aspettare che qualcun altro la realizzi per noi o ci dica cos’è.

Il Buddha e il dhamma non sono solo piccoli concetti graziosi su cui
intonare canti; su di essi bisogna riflettere. Sono insegnamenti che
esaminiamo e applichiamo alla nostra vera esperienza. Invece di pensare al
Buddha come a un profeta morto duemilacinquecento anni fa, pensiamo che egli
rappresenta la saggezza che esiste in ciascuno di noi e che ci colloca nel
momento presente. Non è necessario andare a cercare il Buddha sull’Himalaya.
Aprirsi al così com’è, ora, qui, in questo momento e in questo luogo,
significa prendere rifugio nel Buddha e nel dhamma. Prendere rifugio non
significa cercare qualcosa da qualche parte, ma aprirsi al così com’è, qui e
ora. Prendere rifugio significa guardare le cose come sono realmente e non
come desideriamo, romanticamente, che siano.

Il terzo rifugio: il sangha

Il sangha è la società, o la comunità dei virtuosi, di coloro che praticano,
che usano la saggezza, che contemplano la verità. Quando prendete rifugio
nel sangha, non vi rifugiate più nella personalità o nelle capacità
individuali, ma in qualcosa di più vasto. Il sangha è di tutti e in esso la
personalità non è più così importante. Che siate un uomo o una donna, che
siate giovane o vecchio, colto o incolto, o qualsiasi altra cosa, nel sangha
non ha più alcuna importanza. Il sangha è formato da chi pratica, da chi
vive in modo retto, da chi contempla la verità e usa la saggezza.

Quando prendete rifugio nel sangha, siete disposti ad abbandonare le qualità
personali, le esigenze e le aspettative che avete come individui.
Abbandonate tutto ciò a beneficio del sangha, la comunità dei praticanti,
avanzando verso la verità, realizzando la verità.

Rendere omaggio ai tre gioielli

Sono questi i tre rifugi, spesso designati come i tre gioielli. Sono
gioielli inestimabili a cui rendiamo omaggio, e a cui, rendendo omaggio, ci
apriamo. Il senso di devozione e di riguardo è un aspetto assai positivo
dell’essere umano. Una persona che non prova rispetto per alcunché, che non
prova né amore né gratitudine, è una persona la cui compagnia è assai
sgradevole. Le persone che si lamentano, che criticano e che pretendono, le
persone testarde e orgogliose, sono persone con cui non è piacevole stare.

L’atteggiamento “Sono troppo in gamba, non mi inchinerò davanti a nessuno”
è pura arroganza ed è un aspetto disdicevole degli uomini.

La pratica della devozione consiste nell’aprirsi, nel fare offerta di noi
stessi inchinandoci. E’ un movimento del corpo nel quale realmente offriamo
alla verità noi stessi, questo corpo, questa forma umana. Abbassiamo il
corpo a terra, mettendo ai piedi del Buddha ciò con cui ci identifichiamo,
offrendoci alla verità.

Questo è il modo in cui interpretiamo la tradizione. Se volete, potete farne
lo stesso uso. Se vi sembra un mucchio di roba inutile, non ve ne curate.
Non siete costretti a farlo, potete servirvene o non servirvene. Dipende da
voi. Imparare a usare quelle tradizioni richiede un certo sforzo, e farne un
buon uso abbellisce la nostra vita. Ci dà grazia, stile e il senso della
comunità come sangha. Diventiamo una cosa sola, non siamo più un gruppo di
esseri singoli che fanno ciò che sentono o vogliono. Impariamo ad agire in
conformità, in un atto di devozione, amore, gratitudine e rispetto.

Aprirsi alle convenzioni religiose

A volte, le persone appartenenti ad altre religioni si sentono a disagio con
i simboli buddhisti. Non è necessariamente questione di orgoglio o di
caparbietà, quanto di scarsa dimestichezza. In certi casi, le persone hanno
la sensazione, usando i simboli buddhisti, di tradire i propri,
probabilmente cristiani. Spero che il modo in cui ho presentato i tre rifugi
sia un modo di guardare a ogni tradizione religiosa. Grazie a una
comprensione siffatta, sappiamo come usare la tradizione buddhista o
cristiana. Io vedo l’unità, l’integrità di tutto ciò. Non considero il
buddhismo, come forma esteriore, l’unica via. Penso che ciò di cui si
occupa, o dovrebbe occuparsi, la religione, è la verità o l’apertura nei
confronti della verità. Tutto si confonde perché la gente se ne dimentica e
rimane invischiata nella tradizione come se fosse fine a se stessa. Invece
di usare la tradizione e le cerimonie per aprirsi, le utilizzano per
aggrapparvisi.

Quando iniziate ad attaccarvi al buddhismo, non siete più aperti. Diventate
buddhisti settari. Nel buddhismo ci sono diverse scuole, perciò potete
diventare un buddhista mahayana, in contrapposizione a un buddhista
hinayana, oppure un buddhista vajrayana, o un buddhista Zen. C’è un’infinità
di varianti nel buddhismo. In Gran Bretagna abbiamo di tutto: cristiani
buddhisti, buddhisti cristiani, ebrei buddhisti, buddhisti ebrei, moderni
buddhisti scientifici, buddhisti britannici, e così via. Poi, ci sono
buddhisti che non sono buddhisti perché hanno rifiutato il Buddha e il
sangha e accettano solo il dhamma: sono i dhammaisti.

L’attaccamento nutre tali separazioni; è divisivo. Qualsiasi cosa a cui vi
attaccate diventa una setta o un culto. La tendenza settaria è uno dei
grandi problemi dell’umanità, che sia religiosa, politica o d’altra natura.
Quando la gente dice: “Il mio percorso è quello giusto e gli altri sono
sbagliati”, oppure “Il mio è il migliore, gli altri sono inferiori”, quello
è attaccamento. Anche se avete il meglio, l’attaccamento al meglio vi rende
una persona ignorante, non illuminata. Potete avere il meglio di tutto e
continuare a non essere illuminati.

Non intendo dare l’impressione che il buddhismo theravada sia la via
migliore o l’unica via. Perché “migliore” e “unica” sono qualità a cui
attaccarsi. Il buddhismo theravada è una convenzione, qualcosa a cui
aprirsi, contemplare, imparare a utilizzare. Che vi piaccia o no, che vi
offenda, vi irriti, ne siate entusiasti o indifferenti, prendete nota della
condizione della mente, invece di prendere posizione a favore o contro.
Allora potete pensarci su. Vi offre qualcosa da osservare in voi stessi. E
vi offre l’opportunità di rivolgere l’attenzione alla verità.

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