I Veda, secondo Aurobindo

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I VEDA

I Veda sono la creazione di una antica struttura mentale intuitiva e simbolica alla quale la mente
successiva dell’uomo, fortemente intellettualizzata e governata da un lato dall’idea razionale e da
concezioni astratte, dall’altro dai fatti della vita e della materia accettati per come essi si
presentano ai sensi ed all’intelligenza, senza ricercare in essi alcun significato divino o mistico,
abbandonandosi all’immaginazione come gioco della creativita’ estetica, piuttosto che come
possibilita’ di apertura delle porte della verita’ e confidando nei suoi suggerimenti solo quando
essi sono confermati dalla ragione o dall’esperienza fisica, esclusivamente consapevole di
intuizioni prudentemente intellettualizzate e recalcitrante verso la maggior parte delle altre, e’
cresciuta totalmente estranea.

Non e’ percio’ sorprendente che i Veda siano diventati incomprensibili alle nostre menti, tranne che
nel loro aspetto linguistico piu’esteriore, e conosciuti inoltre molto imperfettamente per
l’ostacolo costituito da una lingua antica e non pienamente compresa, e che si siano fatte le piu’
inadeguate interpretazioni per ridurre questa grande creazione di una mente umana giovane e
splendida a uno scarabocchio pasticciato e mutilato, a un pot-pourri incoerente di assurdita’, di
un’immaginazione primitiva tesa a complicare cio’ che altrimenti sarebbe l’assai semplice, uniforme
e comune testimonianza di una religione naturalistica ,che rispecchiava solo e solo poteva servire i
rozzi e materialistici desideri di una barbara mentalita’ di vita.

I Veda divennero poi, per l’idea scolastica e ritualistica di preti indu’ e dei Pandit, niente di
piu’ che un libro di mitologia e di cerimonie sacrificali; gli studiosi europei, ricercando in essi
solo cio’ che era di un qualche interesse razionale – la storia, i miti e le nozioni religiose
popolari di una razza primitiva – hanno tuttavia fatto il torto peggiore ai Veda e insistendo su una
interpretazione totalmente esteriore li hanno spogliati ancor di piu’ del loro interesse spirituale
e della loro bellezza e grandezza poetica.

Ma cosi’ non era per i Rishi vedici o per i grandi veggenti e pensatori che li seguirono e
svilupparono dalle loro intuizioni luminose e pregnanti una propria, meravigliosa struttura di
pensiero e parola, costruita su una rivelazione spirituale e un’esperienza senza precedenti. I Veda
furono per questi antichi veggenti il Mondo che scopriva la Verita’, rivestendo di immagini e di
simboli i significati mistici della vita.

Fu una scoperta e uno svelarsi divini della potenza della parola, della sua misteriosa capacita’ di
rivelazione e di creazione, non la parola dell’intelligenza logica, razionale o estetica, ma quella
di una ritmica espressione intuitiva e ispirata: il mantra.

Immagine e mito vennero liberamente usati, non come un indulgere all’immaginazione, ma come simboli
e parabole viventi di cose estremamente reali per chi le pronunciava e che non potevano trovare
altrimenti la loro forma espressiva piu’ intima e originale, e l’immaginazione stesa diventava
l’officiante sacro di realta’ piu’ grandi di quelle che incontrano e trattengono l’occhio e la mente
limitati dalle suggestioni esterne della vita e dell’esistenza materiale.

Questa era la loro concezione del poeta sacro, una mente visitata da qualche piu’ alta luce e dalle
sue forme in idea e parola, un veggente e un uditore della Verita’: kavayah satyastrutayah.

I poeti dei versi vedici non contemplavano la propria funzione come e’ immaginata dagli studiosi
moderni, essi non si consideravano una sorta di stregoni compositori di inni e di formule magiche al
vertice di una rozza e barbara tribu’, ma veggenti e pensatori: rsi dhira.

Questi cantori furono convinti di possedere una alta verita’ mistica ed occulta, pretesero di essere
i latori di un linguaggio idoneo a una conoscenza divina, e parlarono esplicitamente delle loro
forme espressive come di parole segrete che dichiarano il proprio significato pieno solo al
veggente: kavaye nivaanani vacamsi.

E per quelli che vennero dopo di loro i Veda furono libri di conoscenza, e proprio della conoscenza
suprema, una rivelazione, una grande espressione di eterna e impersonale verita’, quale vista ed
udita nell’esperienza interiore di pensatori ispirati e semidivini.

Le piu’ insignificanti circostanze delle cerimonie sacrificali per le quali gli inni furono scritti
sostenevano un potere significante simbolico e psicologico, come era ben noto agli autori degli
antichi Brahmana.

I versi sacri, ciascuno in se stesso tenuto ad essere pieno di un significato divino, furono intesi
dai pensatori delle Upanishad come le profonde e pregnanti parole originarie delle verita’ che essi
cercavano, e la piu’ alta legittimazione che poterono dare alle loro espressioni sublimi fu una
citazione dei loro predecessori con la formula pronunciata nel Rig Veda>..)

Ma il semplice buonsenso dovrebbe dirci che coloro che furono cosi’ vicini, in tutti i sensi, ai
poeti originali, dovevano possedere una migliore possibilita’ di fare propria almeno la verita’
essenziale sulla questione e ci suggerisce la forte probabilita’ che i Veda furono realmente cio’
che pretendono di essere, la ricerca verso una conoscenza mistica, la prima forma del costante
tentativo della mente indiana, al quale essa e’ sempre stata fedele, di guardare aldila’ delle
apparenze del mondo fisico e, attraverso la propria esperienza interiore, alla divinita’, ai poteri,
all’immanenza dell’uno del quale i saggi parlano in molti modi – la famosa frase nella quale i Veda
esprimono il loro piu’centrale segreto: ekam sad vipra bahudha vadanti.

Il carattere piu’ vero dei Veda puo’ essere meglio compreso esaminandoli in qualsiasi punto e
interpretandoli chiaramente in relazione alle loro frasi ed immagini… Se li leggiamo per quello
che sono senza nessuna falsa traduzione in cio’ che pensiamo dovrebbero avere detto dei barbari
primitivi, troveremo invece una poesia sacra suprema e potente nelle sue parole e nelle sue
immagini, sebbene in altro genere di linguaggio e di fantasia creativa rispetto a quelli che noi
oggi predilegiamo e apprezziamo, profonda e sottile nell’esperienza psicologica e stimolata da
un’anima di visione ed espressione profondamente partecipe.

I poeti dei Veda possedevano una mentalita’ diversa dalla nostra, il loro uso delle immagini e’ di
un genere peculiare e una antica tendenza della loro capacita’ visiva dona un profilo strano alle
loro espressioni.

Il fisico ed i mondi fisici furono ai loro occhi una manifestazione, una duplice e varia, e tuttavia
connessa e omogenea rappresentazione di divinita’ cosmiche; la vita interiore ed esteriore dell’uomo
una divina relazione con gli dei, e dietro ogni realta’ esisteva il solo Spirito od Essere del quale
gli dei erano nomi e personalita’, e poteri

Queste divinita’ furono ad un tempo signori della Natura fisica e delle sue forme e dei suoi
principi; i loro dei, i loro corpi e gli intimi poteri divini con le loro corrispondenti condizioni
ed energia sono innati nel nostro essere psichico perche’ essi sono i poteri spirituali
dell’universo, i guardiani della verita’ e dell’immortalita’, i figli dell’infinito e ciascuno di
essi e’ anche nella sua origine e nella sua realta’ ultima lo Spirito supremo che evidenzia uno dei
suoi aspetti.

La vita dell’uomo fu per questi veggenti una realta’ combinata di verita’ e menzogna, un movimento
dal mortale all’immortale, da una commistione di luce e di oscurita’, allo splendore di una verita’
divina la cui dimora e’al di sopra, nell’infinito ma che puo’ essere costruita nell’anima e nella
vita dell’uomo; una battaglia tra i figli della luce e quelli della notte, l’ottenimento di un
tesoro, della vera ricchezza, la ricompensa garantita dagli dei all’uomo guerriero, un’avventura ed
un sacrificio; e di questa realta’ essi parlarono all’interno di un sistema stabilito di immagini
prese dalla Natura e dalla circostante vita guerriera, pastorale e agricola della gente ariana,
centrato intorno al culto del fuoco, all’adorazione dei poteri viventi della natura e alla cerimonia
del sacrificio.

Ogni dettaglio dell’esistenza profana e del sacrificio erano simboli nella loro vita e nelle loro
attivita’, nella loro poesia; non simboli morti o metafore artificiali, ma viventi e potenti
suggestioni, controparti di realta’ interiore.

Ed essi usarono inoltre nella loro espressione un corpo stabilito e tuttavia variato di altre
immagini e uno splendido tessuto di mito e parabola, immagini che diventavano parabole, parabole che
diventavano miti, miti che restavano comunque immagini, e tuttavia tutte queste cose costituivano
per essi, in un modo che puo’ essere compreso di un certo genere di esperienze psichiche, realta’
effettive.

Il fisico scioglieva le sue ombre negli splendori dello psichico, lo psichico cresceva nella luce
dello spirituale e non esisteva alcuna linea netta di divisione in questi passaggi, ma una fusione
naturale e una compenetrazione delle loro suggestioni e dei loro colori.

E’ evidente che una poesia di questo genere, composta da uomini con questo genere di visione o
immaginazione, non puo’ essere ne’ interpretata , ne’ giudicata dai modelli di una ragione e di un
gusto fedeli ai soli canoni dell’esistenza fisica.

L’invocazione “Appari o lampo di luce e vieni a noi!” evoca ad un tempo il fenomeno dell’ascendere e
del bagliore del potente fuoco sacrificale sull’altare fisico e un corrispondente fenomeno psichico,
la manifestazione di una fiamma redentrice di un potere e una luce divina dentro di noi.

Il… critico schernisce la sfrontata e audace e per lui mostruosa immagine nella quale Indra
figlio della terra e del cielo crea il proprio padre e la propria madre; ma se ricordiamo che Indra
e’ lo spirito supremo in uno dei suoi aspetti eterni e immortali, creatore del cielo e della terra,
divinita’ cosmica generata tra il mondo fisico e quello mentale per ricostruire i loro poteri
nell’uomo, vedremo come l’immagine non sia solo efficace, ma una vera e rivelatrice
rappresentazione, e per la tecnica vedica poco importa se fa violenza alla nostra immaginazione, dal
momento che esprime una piu’ grande realta’, come nessuna altra avrebbe potuto con la stessa
consapevole attitudine e la stessa vivida forza poetica.

Il toro e la Vacca dei Veda, gli splendenti pastori del Sole, celati nella grotta, sono creature
abbastanza strane per la mente fisica, ma non appartengono alla terra e nella loro sfera sono ad un
tempo immagini e realta’ effettive piene di vita e di significati. E’ in questo modo che,
dall’inizio alla fine, dobbiamo comprendere e riconoscere la poesia vedica secondo il proprio
spirito, la propria visione e la verita’ psichicamente naturale, anche se per noi estranea e
sovrannaturale,delle sue idee e delle sue immagini.

I poeti vedici sono maestri dalla tecnica consumata, i loro ritmi sono scolpiti come carri degli
dei e portati da grandi e divine ali di suono, ad un tempo concentrati e dilatati, ampi nel
movimento e sottili nella modulazione; il loro discorso e’ lirico per intensita’ ed epico per
elevazione, un’espressione di grande potere, pura e intrepida e dallo splendido profilo,
dall’effetto diretto e incisivo, pienamente profusa di senso e di suggestione cosi’ che ogni singolo
verso esiste allo stesso tempo come cosa definita ed autonoma e come ampia connessione tra cio’ che
e’venuto prima e quanto lo segue.

Una sacra tradizione sacerdotale fedelmente osservata diede loro sia forma che significato, ma
questo significato consisteva nelle piu’ profonde esperienze psichiche e spirituali delle quali
l’anima dell’uomo e’ capace; e raramente, o mai, le forme degeneravano in convenzione, poiche’ cio’
che dovevano trasmettere era vissuto interiormente da ogni poeta e rinnovato in espressione nella
propria mente attraverso le sottigliezze e le maestrie della visione individuale.

Le voci dei piu’ grandi veggenti, Vishwamitra, Vamadeva, Dirghtamas, e molti altri, toccano le piu’
alte vette e latitudini di una poesia mistica e sublime ed esistono poemi come creazione>, che si innalzano in tremenda chiarezza alle sommita’ di pensiero sulle quali si muovono
costantemente, con una maggiore ampiezza di respiro: le Upanishad.

La mente dell’antica India non sbaglio’ nel riallacciare tutta la sua filosofia, la religione e le
realta’ essenziali della sua cultura a questi poeti-veggenti, poiche’ la futura spiritualita’ del
suo popolo e’ ivi contenuta in nuce o nell’espressione originaria.

E’ una grande cura e un corretto comprendere gli inni vedici come forma di letteratura sacra che ci
aiuta a vedere il primo sviluppo non solo delle idee-guida che hanno governato la mente dell’India,
ma dei suoi tipi caratteristici di esperienza spirituale, della sua forma mentale immaginativa, del
suo temperamento creativo e del genere di forme significanti con le quali essa ha costantemente
rappresentato il suo sguardo verso se stessa, la realta’, la vita e l’universo.

Esiste in gran parte della letteratura lo stesso genere di ispirazione e di espressione che vediamo
nell’architettura, nella pittura e nella scultura.

Il suo primo aspetto e’ un senso costante dell’infinito, del cosmico, di realta’, viste come parte
della visione cosmica o da questa influenzate, dirette a favore o contro l’ampiezza dell’uno e
dell’infinito; la sua seconda peculiarita’ e’ una tendenza a vedere e interpretare la propria
esperienza spirituale con una grande ricchezza di immagini, mutuate dal piano psichico interiore,
oppure in immagini fisiche, accese dall’azione di un significato, un’impronta, una volonta’ di
immagine psichici; e la sua terza inclinazione e’ ad immaginare la vita
terrestre spesso amplificata, come nel Mahabharata e nel Ramayana, o altrimenti raffinata nelle
trasparenze di una piu’ vasta atmosfera, accompagnata da un significato piu’ grande di quello
terrestre, o comunque presentata sullo sfondo dei mondi spirituali e psichici, e non solo nella
propria separata immagine.

Lo spirituale, l’infinito e’ vicino e reale e gli dei sono reali e i mondi ulteriori non tanto al
di la’, quanto immanenti alla nostra esistenza.

(Aurobindo)

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