Il Buddha non era un ciccione!
di Flavio Pelliconi
(articolo pubblicato su Dharma n. 20 dell’aprile 2005)
Il Buddha non era grasso. Gli artisti buddisti lo rappresentarono snello e
flessuoso fin dai tempi più antichi. Ma, allora, chi è il ciccione che s’è
imposto all’immaginario collettivo dell’Occidente, che erroneamente lo
confonde collo Shakyamuni?
Il Buddha non era affatto grasso, come i piú credono, ma era anzi snello,
molto ben proporzionato e aveva un portamento regale. Durante la strenua
lotta che ingaggiò per raggiungere il risveglio, durata sei anni, si
sottopose a tremendi digiuni. Leggiamo nel Canone, la piú antica scrittura
buddista, come lui stesso descrive il devastante effetto dell’austerità sul
suo fisico:
«Il mio corpo raggiunse uno stato di estrema magrezza; gambe e braccia
divennero come canne vecchie e appassite a causa del troppo poco cibo; il
mio sedere divenne come il piede di un cammello; la mia spina dorsale
divenne come le perle di un rosario, con le vertebre sporgenti e rientranti;
le costole sporgevano come le vecchie travi di una casa scoperchiata; le
pupille, infossate e piccolissime, rilucevano nelle mie orbite come in un
pozzo i sottostanti specchi d’acqua rilucono in modo evanescente; la pelle
del mio capo divenne vuota e grinzosa come una zucca selvatica tagliata
fresca lasciata al sole; e quando volevo toccare il ventre giungevo alla
spina dorsale, e quando volevo toccare la spina dorsale, giungevo di nuovo
al ventre; cosí vicino mi era venuto il ventre alla spina dorsale per questa
nutrizione estremamente scarsa; se volevo evacuare sterco e urina cadevo in
avanti. Per rinforzare questo corpo, allora io strofinavo le membra con la
mano, e mentre io cosí strofinavo le membra, cadevano i peli, putridi alle
radici» (M. XXXVI).
Questa descrizione ispirò gli artisti ellenistici del Gandhara (un’antica
regione corrispondente grosso modo alll’odierno Afghanistan) a raffigurarlo
seduto in meditazione magro come uno scheletro. Inoltre, si può facilmente
immaginare come sia arduo accumulare anche un solo filo di grasso facendo
soltanto un pasto frugale al giorno, come richiesto ancor oggi dalla regola
dei bhikkhu (monaci buddisti) dettata e osservata prima di tutti dal Buddha
in persona. Infatti, gli artisti buddisti piú antichi lo rappresentarono
snello e flessuoso, secondo i dettami dell’ideale ascetico che lo stesso
Shakyamuni incarnava.
Nemmeno l’iconografia piú tarda lo ha mai raffigurato grasso, ma solo un po’
atticciato, come, del resto, vengono rappresentati anche gli dei indú, come
Rama, Krishna, Shiva ecc. in ossequio all’ideale di bellezza del popolo
indiano, che aborre la magrezza, in quanto status-symbol di povertà. Infatti
in India, i benestanti, che mangiano due o piú volte al giorno, sono bene in
carne, ma chi non può permettersi che un pasto solo – ossia la stragrande
maggioranza del popolo – è giocoforza magro, magrissimo. E perciò la
magrezza, nell’immaginario popolare, non è per nulla desiderabile né
attraente. Ebbene, ciononostante, il Buddha non viene mai raffigurato obeso.
E allora, chi è il ciccione che ha colpito l’immaginario collettivo
dell’Occidente, che erroneamente lo confonde col Buddha?
Per la maggiore consuetudine che ho col buddismo theravada, un buon
candidato mi sembrò all’inizio Anathapindika, uno dei mecenati del buddismo
delle origini. Anathapindika era un ricco banchiere che incontrò il Buddha
in casa del cognato. Anathapindika, in quell’occasione, ricevette gli
insegnamenti dal Buddha in persona. Riconoscente, invitò a sua volta il
Buddha e i monaci ad andarlo a trovare a casa sua, a Savatthi.
Tornato a Savatthi, girò tutta la città in cerca d’un posto adatto per
ospitarvi il maestro e il suo seguito. Quando vide il bosco (vana) del
principe Jeta, ovvero Jetavana, che gli sembrò il luogo ideale per il suo
scopo, andò dal principe e tra loro si svolse il seguente dialogo: «Signore,
datemi il vostro parco». «Non vi darei il parco nemmeno se lo ricopriste con
la somma di centomila pezzi d’oro».
«Il parco è preso, signore». «Il parco non è preso, uomo di casta
inferiore».
Per stabilire se il parco fosse venduto oppure no si rivolsero ai giudici. E
questi dissero che «poiché era stato dichiarato un valore, il parco doveva
considerarsi venduto». Anathapindika, allora, fece arrivare l’oro sui carri
e ricoprí il bosco di Jeta con centomila pezzi d’oro. Ma l’oro non era
sufficiente per completare la ricopertura, cosí un piccolo lembo di terreno
vicino al cancello rimase scoperto. Anathapindika ordinò di andare a
prendere altro oro, ma il principe lo fermò: «Basta, signore. Non coprite
quel pezzo. Lasciatemelo: sarà il mio dono al Buddha». Cosí Anathapindika
acquistò il terreno dove fu costruito il primo monastero, a Savatthi. (Vin.
Cv. Kh. 6; S.X. 8)
Per questo motivo per molto tempo ho creduto che il grassone felice col
sacco, raffigurato nelle statuette cinesi che si trovano un po’ dappertutto
(anch’io ne ho da molti anni una sulla scrivania che mi serve da
fermacarte), fosse proprio Anathapindika, che sorride sornione per il tiro
giocato al principe, bello grasso e prospero come s’addice a un antico
riccastro, appoggiato al sacco d’oro risparmiato quando il principe Jeta
volle donare l’ingresso del parco per riscattarsi dalla magra figura.
Invece, dopo aver fatto qualche ricerca e, soprattutto, grazie all’amico
Enrico Federici che mi ha fornito una corposa (!) documentazione, mi sono
dovuto ricredere: il buddha grasso che ride è P’i-pu-tai Ho-shang (che
significa Piccolo-monaco Sacco-di-cuoio), abbreviato, per comodità, in
Pu-tai. Si tratterebbe d’un lontano seguace cinese del Buddha, vissuto –
pare – nel 900 dopo Cristo. Si dice che abbia condotto una vita da gaudente
e poi, sazio delle gioie della vita, si sia dedicato con tale impegno alle
discipline ascetiche da raggiungere l’illuminazione, meritandosi cosí
l’appellativo di Buddha.
È raffigurato come un monaco col capo rasato, ridente ed obeso, che impugna
o s’appoggia a un sacco di cuoio – da cui il nome – contenente tutte le
gioie terrene. Spesso leva in alto un braccio, o tutt’e due, tenendo nelle
mani un fiore e un frutto. È spesso circondato da fanciulli che, a volte,
cercano di imprigionarlo in una rete, e che rappresentano i vizi capitali ai
quali è riuscito a sfuggire. È simbolo e augurio di appagamento dei sensi e
di tutte le gioie materiali. Poiché ha goduto tutti i piaceri dell’esistenza
ed ha per giunta conseguito il risveglio, è molto popolare e viene invocato
dal popolo perché aiuti a conseguire le gioie materiali e l’appagamento dei
sensi unitamente alla realizzazione spirituale.
Pu-tai in giapponese è divenuto Hotei. Leggiamo nelle «101 storie zen»:
«Questo Hotei visse al tempo della dinastia T’ang. Non aveva alcun desiderio
di definirsi maestro di Zen né di radunare molti discepoli intorno a sé.
Invece girava per le strade con un grosso sacco di tela pieno di canditi,
frutta e frittelle dolci da dare in regalo. E li distribuiva ai bambini che
si raccoglievano intorno a lui per giocare. Aveva istituito un giardino
d’infanzia della strada. Ogni volta che incontrava un devoto di Zen gli
tendeva la mano, dicendo: “Dammi un centesimo, uno solo”. E se qualcuno lo
pregava di tornare in un tempio e di insegnare lui ripeteva: “Dammi un
centesimo”. Una volta, mentre era intento al suo lavoro-gioco, passò un
altro maestro di Zen e gli domandò: “Qual è il significato dello Zen?”. Per
tutta risposta, Hotei posò immediatamente il sacco a terra. “Allora” domandò
l’altro “qual è l’attuazione dello Zen?”. Subito il cinese felice si rimise
il sacco in spalla e continuò per la sua strada».
In Tibet, Putai è noto come Hva-sang ed è anche colà raffigurato grasso e
felice, con in mano un rosario e una conchiglia, spesso circondato da
bambini. Anche se lo si include nella lista dei 18 Arahant, a rigore non lo
è e non veste come tale, ma indossa uno scialle drappeggiato sulle spalle
lasciando scoperto il grosso ventre. Contrariamente a quanto pensano i piú,
non si tratta del Buddha Shakyamuni che, come abbiamo visto, a differenza di
Pu-tai era snello come un giunco.
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