Il Buddha non era un “grassone”!

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Il Buddha non era un “grassone”!

di Flavatar da risveglio.net

Il Buddha non era grasso. Gli artisti buddisti lo rappresentarono
snello e flessuoso fin dai tempi più antichi. Ma, allora, chi è il
ciccione che s’è imposto all’immaginario collettivo dell’Occidente,
che erroneamente lo confonde collo Shakyamuni?

Il Buddha non era affatto grasso, come i piú credono, ma era anzi
snello, molto ben proporzionato e aveva un portamento regale. Durante
la strenua lotta che ingaggiò per raggiungere il risveglio, durata sei
anni, si sottopose a tremendi digiuni. Leggiamo nel Canone, la piú
antica scrittura buddista, come lui stesso descrive il devastante
effetto dell’austerità sul suo fisico:

<
divennero come canne vecchie e appassite a causa del troppo poco cibo;
il mio sedere divenne come il piede di un cammello; la mia spina
dorsale divenne come le perle di un rosario, con le vertebre sporgenti
e rientranti; le costole sporgevano come le vecchie travi di una casa
scoperchiata; le pupille, infossate e piccolissime, rilucevano nelle
mie orbite come in un pozzo i sottostanti specchi d’acqua rilucono in
modo evanescente; la pelle del mio capo divenne vuota e grinzosa come
una zucca selvatica tagliata fresca lasciata al sole; e quando volevo
toccare il ventre giungevo alla spina dorsale, e quando volevo toccare
la spina dorsale, giungevo di nuovo al ventre; cosí vicino mi era
venuto il ventre alla spina dorsale per questa nutrizione estremamente
scarsa; se volevo evacuare sterco e urina cadevo in avanti. Per
rinforzare questo corpo, allora io strofinavo le membra con la mano, e
mentre io cosí strofinavo le membra, cadevano i peli, putridi alle
radici>> (M. XXXVI).

Questa descrizione ispirò gli artisti ellenistici del Gandhara
(un’antica regione corrispondente grosso modo alll’odierno
Afghanistan) a raffigurarlo seduto in meditazione magro come uno
scheletro. Inoltre, si può facilmente immaginare come sia arduo
accumulare anche un solo filo di grasso facendo soltanto un pasto
frugale al giorno, come richiesto ancor oggi dalla regola dei bhikkhu
(monaci buddisti) dettata e osservata prima di tutti dal Buddha in
persona. Infatti, gli artisti buddisti piú antichi lo rappresentarono
snello e flessuoso, secondo i dettami dell’ideale ascetico che lo
stesso Shakyamuni incarnava.

Nemmeno l’iconografia piú tarda lo ha mai raffigurato grasso, ma solo
un po’ atticciato, come, del resto, vengono rappresentati anche gli
dei indú, come Rama, Krishna, Shiva ecc. in ossequio all’ideale di
bellezza del popolo indiano, che aborre la magrezza, in quanto
status-symbol di povertà. Infatti in India, i benestanti, che mangiano
due o piú volte al giorno, sono bene in carne, ma chi non può
permettersi che un pasto solo — ossia la stragrande maggioranza del
popolo — è giocoforza magro, magrissimo. E perciò la magrezza,
nell’immaginario popolare, non è per nulla desiderabile né attraente.
Ebbene, ciononostante, il Buddha non viene mai raffigurato obeso. E
allora, chi è il ciccione che ha colpito l’immaginario collettivo
dell’Occidente, che erroneamente lo confonde col Buddha?

Per la maggiore consuetudine che ho col buddismo theravada, un buon
candidato mi sembrò all’inizio Anathapindika, uno dei mecenati del
buddismo delle origini. Anathapindika era un ricco banchiere che
incontrò il Buddha in casa del cognato. Anathapindika, in
quell’occasione, ricevette gli insegnamenti dal Buddha in persona.
Riconoscente, invitò a sua volta il Buddha e i monaci ad andarlo a
trovare a casa sua, a Savatthi.

Tornato a Savatthi, girò tutta la città in cerca d’un posto adatto per
ospitarvi il maestro e il suo seguito. Quando vide il bosco (vana) del
principe Jeta, ovvero Jetavana, che gli sembrò il luogo ideale per il
suo scopo, andò dal principe e tra loro si svolse il seguente dialogo:
<>. <
lo ricopriste con la somma di centomila pezzi d’oro>>. <
preso, signore>>. <>.

Per stabilire se il parco fosse venduto oppure no si rivolsero ai
giudici. E questi dissero che < il parco doveva considerarsi venduto>>. Anathapindika, allora, fece
arrivare l’oro sui carri e ricoprí il bosco di Jeta con centomila
pezzi d’oro. Ma l’oro non era sufficiente per completare la
ricopertura, cosí un piccolo lembo di terreno vicino al cancello
rimase scoperto. Anathapindika ordinò di andare a prendere altro oro,
ma il principe lo fermò: < Lasciatemelo: sarà il mio dono al Buddha>>. Cosí Anathapindika acquistò
il terreno dove fu costruito il primo monastero, a Savatthi. (Vin. Cv.
Kh. 6; S.X. 8)

Per questo motivo per molto tempo ho creduto che il grassone felice
col sacco, raffigurato nelle statuette cinesi che si trovano un po’
dappertutto (anch’io ne ho da molti anni una sulla scrivania che mi
serve da fermacarte, vedi foto) fosse proprio Anathapindika, che
sorride sornione per il tiro giocato al principe, bello grasso e
prospero come s’addice a un antico riccastro, appoggiato al sacco
d’oro risparmiato quando il principe Jeta volle donare l’ingresso del
parco per riscattarsi dalla magra figura.

Invece, dopo aver fatto qualche ricerca e, soprattutto, grazie
all’amico Enrico Federici che mi ha fornito una corposa (!)
documentazione, mi sono dovuto ricredere: il buddha grasso che ride è
P’i-pu-tai Ho-shang (che significa Piccolo-monaco Sacco-di-cuoio),
abbreviato, per comodità, in Pu-tai. Si tratterebbe d’un lontano
seguace cinese del Buddha, vissuto — pare — nel 900 dopo Cristo. Si
dice che abbia condotto una vita da gaudente e poi, sazio delle gioie
della vita, si sia dedicato con tale impegno alle discipline ascetiche
da raggiungere l’illuminazione, meritandosi cosí l’appellativo di
Buddha.

È raffigurato come un monaco col capo rasato, ridente ed obeso, che
impugna o s’appoggia a un sacco di cuoio — da cui il nome — contenente
tutte le gioie terrene. Spesso leva in alto un braccio, o tutt’e due,
tenendo nelle mani un fiore e un frutto. È spesso circondato da
fanciulli che, a volte, cercano di imprigionarlo in una rete, e che
rappresentano i vizi capitali ai quali è riuscito a sfuggire. È
simbolo e augurio di appagamento dei sensi e di tutte le gioie
materiali. Poiché ha goduto tutti i piaceri dell’esistenza ed ha per
giunta conseguito il risveglio, è molto popolare e viene invocato dal
popolo perché aiuti a conseguire le gioie materiali e l’appagamento
dei sensi unitamente alla realizzazione spirituale.

Pu-tai in giapponese è divenuto Hotei. Leggiamo nelle <<101 storie zen>>:

<
desiderio di definirsi maestro di Zen né di radunare molti discepoli
intorno a sé. Invece girava per le strade con un grosso sacco di tela
pieno di canditi, frutta e frittelle dolci da dare in regalo. E li
distribuiva ai bambini che si raccoglievano intorno a lui per giocare.
Aveva istituito un giardino d’infanzia della strada. Ogni volta che
incontrava un devoto di Zen gli tendeva la mano, dicendo: “Dammi un
centesimo, uno solo”. E se qualcuno lo pregava di tornare in un tempio
e di insegnare lui ripeteva: “Dammi un centesimo”. Una volta, mentre
era intento al suo lavoro-gioco, passò un altro maestro di Zen e gli
domandò: “Qual è il significato dello Zen?”. Per tutta risposta, Hotei
posò immediatamente il sacco a terra. “Allora” domandò l’altro “qual è
l’attuazione dello Zen?”. Subito il cinese felice si rimise il sacco
in spalla e continuò per la sua strada>>.

In Tibet, Putai è noto come Hva-sang ed è anche colà raffigurato
grasso e felice, con in mano un rosario e una conchiglia, spesso
circondato da bambini. Anche se lo si include nella lista dei 18
Arahant, a rigore non lo è e non veste come tale, ma indossa uno
scialle drappeggiato sulle spalle lasciando scoperto il grosso ventre.
Contrariamente a quanto pensano i piú, non si tratta del Buddha
Shakyamuni che, come abbiamo visto, a differenza di Pu-tai era snello
come un giunco.

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