Il buddhismo è una religione? (parte prima)

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Il buddhismo è una religione (parte prima)

(del venerabile Ajahn Sumedho)

– Parte prima –

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “La mente e la via”
Traduzione di Elizabetta Valdrè

Estratto del libro “La mente e la via”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini.

Ci piace pensare che comprendiamo la religione perché è profondamente
radicata nella nostra prospettiva culturale. Nondimeno, ci è utile
contemplare e riflettere sui veri scopi, propositi o intenti della
religione.

A volte, le persone ritengono che religione significhi credere in un Dio o
negli dèi, e la identificano con la posizione teistica di una particolare
forma o convenzione religiosa. Spesso, le confessioni teistiche considerano
il buddhismo una religione atea, oppure non lo ritengono affatto una
religione. Lo considerano una filosofia o una psicologia, perchè il
buddhismo non parte da una posizione teistica. Non trae le proprie radici da
una posizione metafisica o dottrinale, ma dall’esperienza comune a tutta
l’umanità: l’esperienza della sofferenza. Il buddhismo presuppone che
riflettendo, contemplando e comprendendo quella comune esperienza umana, si
possano trascendere tutte le illusioni mentali che la creano.

Il termine “religione” deriva dalla parola latina religio, che significa
legame. Si riferisce a un vincolo col divino che avvolge interamente
l’essere. Religiosità vera significa legame col divino, o realtà suprema, e
impegno di tutto il proprio essere in quel legame, fino al raggiungimento
della realizzazione suprema. Tutte le religioni hanno parole come
“liberazione” e “salvezza”. Termini di tale natura comunicano libertà
dall’illusione, libertà completa e assoluta, e comprensione totale della
realtà suprema. Nel buddhismo, la chiamiamo illuminazione.

– Comprendere la natura della sofferenza –

L’approccio buddhista consiste nel riflettere sull’esperienza della
sofferenza, perché è ciò che tutti gli esseri umani condividono. Sofferenza
non vuol dire necessariamente una grande tragedia o una terribile disgrazia.
Allude semplicemente a quel genere di scontentezza, infelicità e delusione
che tutti gli esseri umani provano in vari momenti della loro vita. La
sofferenza è comune agli uomini e alle donne, ai ricchi e ai poveri.
Qualunque sia la nostra razza o nazionalità, la sofferenza è il legame
comune.

Perciò, nel buddhismo, la sofferenza è considerata una nobile verità. Non è
una verità suprema. Quando il Buddha insegnò che la sofferenza è una nobile
verità, non era sua intenzione legarci alla sofferenza e farci credere
ciecamente in essa come se fosse una verità suprema. Al contrario, ci
insegnò a usare la sofferenza come nobile verità su cui riflettere.
Contempliamo: che cos’è la sofferenza, qual è la sua natura, perché soffro,
qual è l’oggetto della sofferenza?

La comprensione della natura della sofferenza è un’intuizione importante.
Ora, contemplatela nell’esperienza della vostra vita. Quanta parte
dell’esistenza investite nel tentativo di evitare o di sfuggire quelle
stesse situazioni spiacevoli o non volute? Possiamo avere la felicità
immediata, l’assorbimento immediato, le realtà che chiamiamo non-sofferenza,
quali l’eccitazione, una storia d’amore, l’avventura, i piaceri dei sensi,
il buon cibo, l’ascolto della musica o qualunque altra cosa. Ma non sono
altro che tentativi di sfuggire alle paure, alle insoddisfazioni, all’ansia
e alla preoccupazione: stati mentali che tormentano la mente umana non
illuminata.

L’umanità sarà sempre tormentata e spaventata dalla vita fintanto che rimane
ignorante e non coltiva lo sforzo di guardare e capire la natura della
sofferenza.

Capire la sofferenza significa accettarla e non semplicemente sbarazzarsene
o negarla, o incolparne qualcun altro. Possiamo accorgerci che la sofferenza
è provocata, che dipende da certe condizioni, le condizioni mentali che
abbiamo creato, o che la cultura e la famiglia hanno instillato in noi. La
nostra esperienza della vita e il processo di condizionamento iniziano il
giorno in cui nasciamo. La famiglia, l’ambiente in cui viviamo, la scuola
instillano nella nostra mente prevenzioni, opinioni, pregiudizi, alcuni
buoni, alcuni no.

Ora, se non facciamo veramente attenzione a queste condizioni mentali e non
le esaminiamo per quello che sono effettivamente, esse ci faranno
interpretare l’esperienza della vita secondo certi pregiudizi. Ma se
scaviamo a fondo nella natura stessa della sofferenza, iniziamo a esaminare
stati mentali quali la paura e il desiderio e scopriamo che la nostra vera
natura non è il desiderio, non è la paura. La nostra vera natura non è
condizionata da alcunché.

– Il condizionamento, l’incondizionamento e la coscienza –

Le religioni mettono sempre in luce il rapporto del mortale, o del
condizionato, coll’incondizionato. O meglio, se di ogni religione ne mettete
a nudo l’essenza, scoprirete che tutto ruota intorno al punto in cui il
mortale, ciò che è condizionato e legato al tempo, cessa. In quella
cessazione sta la realizzazione e la comprensione dell’incondizionato. Nella
terminologia buddhista si afferma che: “c’è l’incondizionato; se non ci
fosse l’incondizionato, non potrebbe esserci il condizionato”.

Dunque, il condizionato sorge e svanisce nell’incondizionato; ciò che deve
attirare la nostra attenzione è, quindi, il rapporto tra condizionato e
incondizionato.

Siccome siamo nati in un corpo umano, dobbiamo vivere un’intera vita con le
limitazioni e le condizioni del mondo sensoriale. La nascita implica
l’emergere dall’incondizionato e il manifestarsi in una forma separata,
condizionata. Tale forma umana implica la coscienza.

La coscienza definisce sempre un rapporto tra il soggetto e l’oggetto, e nel
buddhismo la coscienza è considerata una funzione discriminatrice della
mente. Contemplatela in questo stesso momento. Siete seduti e state
prestando attenzione a ciò che dico. Questa è l’esperienza della coscienza.
Sentite il calore della stanza, vedete l’ambiente che vi circonda, udite i
suoni. Tutto ciò significa che siete nati in un corpo umano, e per tutto il
resto della vita, finché il corpo vive, proverete sensazioni e si
manifesterà la coscienza. La coscienza crea sempre l’impressione
dell’esistenza di un soggetto e di un oggetto, perciò quando non
investighiamo, quando non indaghiamo la vera natura delle cose, ci
vincoliamo alla visione dualistica: “Io sono il mio corpo, io sono le mie
sensazioni, io sono la mia coscienza”.

L’atteggiamento dualistico nasce dalla coscienza. Con la capacità di
immaginare, ricordare e percepire con la mente, costruiamo una personalità.
A volte ci piace, in altri momenti ci procura paure irrazionali, opinioni
sbagliate, ansie.

– L’aspirazione della mente umana –

Attualmente, gran parte dell’angoscia e della disperazione presenti in
qualsiasi società di questo mondo materialistico deriva dal fatta che, di
solito, i nostri punti di riferimento non sono nulla di più elevato del
pianeta in cui viviamo e del nostro corpo. L’aspirazione della mente umana
alla realizzazione suprema, all’illuminazione, non è concretamente promossa
né incoraggiata nella società moderna. Di fatto, sembra che spesso venga
impedita.

Senza un rapporto con la verità suprema, la vita è priva di significato. Se
non possiamo riferirci a nulla che trascenda le esperienze di un corpo umano
su un pianeta che ruota in un universo misterioso, tutta la vita si riduce a
occupare il tempo tra la nascita e la morte. Ma allora, che scopo ha, che
cosa significa? Perché ce ne preoccupiamo? Che bisogno abbiamo di uno scopo?
Perché mai la vita dovrebbe avere un significato? Perché vogliamo che
significhi qualcosa? Perché abbiamo parole, concetti e religioni? Perché
nella nostra mente c’è quel desiderio intenso, quell’aspirazione, se tutto
ciò che c’è mai stato, o che può esserci, è l’esperienza che deriva
dall’idea del sé? È possibile che questo corpo umano, con i suoi processi
condizionanti, ci capiti addosso accidentalmente, in un sistema universale
che sfugge al nostro controllo?

Viviamo in un universo che è incomprensibile. Possiamo solo fare congetture
a riguardo. Possiamo intuire e scrutare l’universo, ma non incapsularlo. Non
possiamo farlo diventare qualcosa nella nostra mente. Le tendenze
materialistiche che coltiviamo nella mente ci spingono a non porci neppure
domande simili. Al contrario, ci fanno interpretare le esperienze
esistenziali con la logica e la razionalità, basandoci sui valori del
materialismo e della scienza empirica.

– L’esperienza del risveglio –

Il buddhismo si rivolge a quell’esperienza universale, comune a tutti gli
esseri senzienti che è la sofferenza. Propone anche come uscirne. La
sofferenza è l’esperienza del risveglio. Quando soffriamo, cominciamo a
porci domande. Tendiamo a guardare, investigare, fare congetture, cercare di
scoprire.

La storia del principe Siddharta (il nome del Buddha prima
dell’illuminazione) ci racconta che egli visse in un ambiente colmo di
piacere, bellezza, comodità, vantaggi sociali: tutto il meglio che la vita
potesse offrire. Poi, racconta la leggenda, all’età di ventinove anni,
Siddharta lasciò il palazzo per scoprire il mondo esterno, dove conobbe i
messaggeri della vecchiaia, della malattia e della morte.

Potremmo obiettare che all’età di ventinove anni avrebbe già dovuto
conoscere la vecchiaia, la malattia e la morte. Nel nostro sistema di
pensiero, ci è del tutto chiaro sin dalla primissima infanzia che tutti
invecchiano, si ammalano e muoiono. Nonostante ciò, il principe fu tenuto al
riparo da queste esperienze, e nella sua mente non si risvegliò alcuna
coscienza della loro presenza finché non le sperimentò direttamente.

Anche noi possiamo vivere un’intera vita nella convinzione che tutto vada
per il meglio. Persino l’infelicità e le delusioni che fanno normalmente
parte della nostra esperienza non sono necessariamente occasione di
risveglio. Magari per un po’ ci poniamo qualche domanda a riguardo, ma ci
sono tante opportunità per non tenerne conto, per non accorgersene.

È facile incolpare gli altri della nostra infelicità, non è così?

Possiamo dare la colpa al governo, a nostra madre e a nostra padre, agli
amici e ai nemici, alle forze esterne. La mente si risveglia alla vecchiaia,
alla malattia e alla morte quando si rende conto che anche noi vivremo
quelle esperienze. Cose del genere non si comprendono in astratto, ma con
una sensazione che ci prende alle viscere, quando intuiamo che questa è la
sorte di tutti gli esseri umani.

Ciò che nasce, invecchia, degenera e muore.

Il quarto messaggero che si presentò al Buddha era un samana. Un samana è un
monaco, un cercatore spirituale, un uomo che si è dedicato unicamente alla
ricerca della realtà suprema, la verità.

Il samana, così come lo ritrae la leggenda, era un monaco dal capo rasato
con indosso una tunica.

Nel simbolismo buddhista i quattro messaggeri sono: la vecchiaia, la
malattia, la morte e il samana. Significano il risveglio della mente umana a
una meta religiosa, a quell’aspirazione del cuore umano alla comprensione
della realtà suprema che è libertà da tutta l’illusione e la sofferenza.

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