Il Buddismo Mahayana – le vie di perfezionamento e le meditazioni

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Il Buddismo Mahayana

le vie di perfezionamento e le meditazioni

Premessa

Si riporta il testo di una conversazione del Lama Ghesce Tenzin e dello psicologo dott. Vincenzo
Tallarico, tenutasi durante un incontro del 2 marzo2001 a Pisa e per la quale abbiamo avuto
l’autorizzazione di pubblicazione dal Rotary Pisa Galilei.

La conversazione

Nella pratica buddhista è essenziale riferirsi ai “Tre gioielli”. Così come intraprendendo un
qualsiasi tipo di addestramento la sua qualità dipenderà da un buon insegnante, dall’insegnamento
stesso e dai compagni che ci affiancano, allo stesso modo il percorso di crescita spirituale di un
buddhista trae il suo valore e la sua forza dall’affidarsi agli Esseri illuminati, i Buddha, dal
seguirne gli insegnamenti, il Dharma, e dall’aiuto degli altri praticanti, la comunità del Sangha.
Di questi tre, comunque, il Dharma è il più importante, poichè sono i suoi contenuti che, una volta
divenuti parte della nostra mente, possono effettivamente operare una trasformazione nella stessa e
orientare in modo positivo ogni nostra azione. Lo stesso Buddha Sakyamuni ha detto che non è lui in
quanto tale soggetto principale cui riferirsi, bensì ciò che egli può insegnarci avendone già
sperimentata l’efficacia. Se noi saremo in grado, a nostra volta, di interiorizzare il significato
della pratica, verificandone personalmente la bontà, sarà quello il vero risultato, che potrà
appartenere a ciascuno di noi attraverso il giusto impegno.

Ma qual è l’essenza dell’insegnamento del Buddha?
Lo si può sintetizzare in due brevi frasi: «Se ne sei capace, opera per il beneficio degli altri; se
non lo sei, cerca almeno di non danneggiarli!». Ora, tutti desiderano la felicità e non desiderano
la sofferenza, che invece affligge in vari modi ogni essere senza eccezione.
L’argomento della sofferenza è perciò cruciale, e io cercherò di esporre in breve il relativo punto
di vista buddhista, riassunto, in un insegnamento che è conosciuto come le “Quattro nobili verità”.
Questo è stato il primo esposto da Buddha Saklamuni, circa 9500 anni fa, ed è fondamentale perché,
partendo dalla constatazione della condizione di sofferenza di ognuno di noi, fornisce la chiave per
il suo superamento.
La prima nobile verità è la sofferenza.
La seconda nobile verità è la causa della sofferenza
La terza nobile verità è la cessazione della sofferenza.
La quarta nobile verità è il metodo che conduce a ciò.
La prima nobile verità riconosce che la sofferenza esiste per ogni essere, in modo più o meno
intenso e con molteplici caratteristiche.

La sofferenza si riferisce a tutti i livelli di esperienza spiacevole fisica e psicologica. Essere
consapevoli della sua ampiezza, di come permea la nostra esistenza e quella di tutti gli altri, non
ha lo scopo di accrescerla bensì di sviluppare una visione più realistica della vita, rendendoci
conto che gli altri soffrono come noi con il risultato di sviluppare più gentilezza e compassione
nei loro confronti. Ma l’obiettivo principale è generare una forte intenzione di fare ciò che è
necessa-rio per esserne finalmente liberi. Secondo la filosofia buddhista le nostre esperienze,
piacevoli o spiacevoli, si producono per effetto di azioni precedenti, virtuose e non virtuose. La
relazione tra le azioni e i rispettivi risultati è nota come “legge di causa ed effetto” o “legge
del karma”.

Le azioni valide conducono senz’altro a un risultato di felicità e non portano mai alla sofferenza,
parimenti le azioni scorrette portano senz’altro a un risultato di sofferenza e mai alla felicità.
Attraverso questa comprensione, vediamo quanto sia importante sforzarci continuamente per sviluppare
una buona motivazione e impegnarci in azioni meritorie.
La sofferenza, qualsiasi ne sperimentiamo, ha quindi sempre una causa che va ricercata
necessariamente in azioni negative da noi commesse con il corpo, la parola o la mente in passato,
anche in vite precedenti.
Ma la sofferenza può avere fine, perché abbiamo tutti indistintamente il potenziale per raggiungere
uno stato di perfetta chiarezza, libero da ogni oscurazione e completo di ogni qualità, in cui non
si sperimenta più alcun problema, né si creano le cause di sofferenze future.

Tale potenziale maturerà nel momento in cui adotteremo un metodo appropriato, ossia abbandoneremo da
una parte gradualmente stati mentali negativi come odio, attaccamento, egoismo e ignoranza, e
coltiveremo, dall’altra, attitudini positive come la pazienza, l’amore, la compassione, la
generosità e la saggezza ultima.
Ed è lo sviluppo di questa che, infine, attraverso la percezione dell’autentica natura di tutti i
fenomeni, la loro vacuità, permette di tagliare la sofferenza alla radice.
Il dott. Vincenzo Tallarico, che sinora ha tradotto il Lama Ghesce dall’inglese, prende poi la
parola per esplicitare la differenza tra i due pensieri buddhisti, Hinavana, o Piccolo veicolo, e il
Mahayana, o Grande veicolo.

Come accennato dal Ghesce, i principi dell’etica hinayana sono propri ad entrambi i veicoli, ed è in
seguito alla loro applicazione che i due tipi di praticanti raggiungono il Nirvana, lo stato al di
là del dolore. Ciò che distingue l’uno dall’altro, invece, è la motivazione, ossia la particolare
attitudine mentale che si sviluppa prima di intraprendere qualsiasi azione meritoria e che ha quindi
il potere di indirizzare l’energia positiva creata verso l’obiettivo prescelto. Ebbene, il
praticante hinavana desidera ottenere la liberazione dall’esistenza condizionata, il Samsara, per
estinguere definitivamente la propria sofferenza, laddove il praticante mahavana (il bodhisattva)
estende invece questa aspirazione a tutti gli infiniti esseri dell’universo, assumendosi
personalmente la responsabilità di operare per il loro beneficio; riconoscendo quindi che
l’efficacia di tali azioni necessita di mezzi estesi ed abili, egli si impegna a raggiungere lo
stato perfettamente illuminato di un buddha, per essere così in grado di aiutare gli altri a fare
altrettanto.

Si usano tre metafore per illustrare l’atteggiamento dei bodhisattva, il cui percorso spirituale,
può essere come quello di un «re», che grazie alla sua posizione suprema riesce a guidare
saggiamente i propri sudditi perché ottengano il benessere; un ‘comandante’ di una nave, che conduce
al sicuro il suo equipaggio entrando insieme ad esso nel porto; un pastore che apre il recinto, vi
mette al riparo il suo gregge, e solo dopo entra lui stesso.
Si domanda se i beni materiali, in quanto oggetti che fanno sviluppare l’attaccamento, non ne
impediscano poi l’eliminazione.
Bisogna comprendere che l’attaccamento, uno dei principali difetti mentali. sta nella mente, non nei
vari oggetti dei sensi. Se essa ne è libera, non c’è mai alcun errore in relazione ai vari tipi di
beni. Ciò significa che se non li si possiede non li si desidera, se se ne gode non si prova
attaccamento, né paura che qualcuno possa sottrarceli. se non lì si ha più non si soffre per la loro
perdita.

Similmente nei confronti del sesso, e il tipo di attitudine mentale che determina un approccio
corretto o no con esso; anche in questo contesto ciò che va assolutamente evitato è provocare
sofferenza in qualcuno, per esempio creando la rottura in una coppia già costituita per cercare il
nostro personale piacere. D’altra parte, se la propria mente ne è in grado (ma si parla di stati
molto avanzati di pratica), ci sono meditazioni in cui l’unione fisica con una consorte (karma
mudra) costituisce un mezzo per il riconoscimento e la gestione degli aspetti più sottili della
mente. Tali meditazioni del Tantra buddhista, però, in generale sono fatte visualizzando una
consorte immaginaria (jinana mudra) in aspetto divino, e ciò allo scopo di integrare~rare e
armonizzare dentro di se’ entrambe le sfere femminile e maschile della persona, e di familiarizzarsi
con la totalità dei fattori psicofisici presenti in noi. In ogni caso, le pratiche del Tantra hanno
senso e valore solo se individuate come ulteriori mezzi abili per progredire il più velocemente
possibile verso lo stato della perfetta illuminazione e realizzare così il beneficio degli altri.

Una precisazione utile, per evitare possibili fraintendimenti, va fatta rispetto a che tipo di
effetti la religione buddhista può avere sulla nostra società occidentale, e che cosa essa “si
propone” in tal senso con il suo “proselitismo”. Ora, rispetto a tale ultimo termine non si può dire
altro se non che è del tutto estraneo all’approccio buddhista. Lo stesso Dalai Lama in più occasioni
ha spiegato come la visione filosofica trasmessa dal Buddha non si sia mai posta come antitetica
rispetto a quella delle altre religioni, ma piuttosto come una possibile alternativa di pensiero e
di vita per quanti ancora non abbiano dei validi riferimenti spirituali. Per chi trae già
soddisfazione e significato dalla propria pratica religiosa, quale che sia, non ha alcun senso che
si rivolga ad un’altra, anzi ciò potrebbe condurre a maggior confusione e problemi; al contrario, se
per le proprie esperienze e caratteristiche psicologiche si riscontrano assonanze con ciò che il
buddhismo propone e si rilevano risultati positivi dal praticarlo, ecco che il suo unico e vero
scopo sarà stato raggiunto: aver contribuito allo sviluppo della felicità degli esseri.

www.cigv.it/ilviaggio/budda.html

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