Il Cammino Biblico-Vaishnava dell’anima

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Il Cammino Biblico-Vaishnava dell’anima

di Eugenia Romano

Nella tradizione biblica si riscontrano due filoni nel presentare il destino ultraterreno dell’uomo.
Il primo, rappresentato dal Libro della Sapienza, ricorre alla categoria dell’immortalità
dell’anima. Vi leggiamo: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, e nessun tormento le
toccherà… Anche se agli occhi degli uomini sono dei castigati, la loro speranza è piena di
mmortalità” (1). Il secondo filone parla di resurrezione dei morti. Ne abbiamo tracce in Daniele (2)
e nel secondo libro dei Maccabei (3). Le due concezioni hanno suscitato tra molti teologi il
problema se si dovesse parlare dei defunti in termini di immortalità dell’anima o di resurrezione
dei corpi.

La posizione della Chiesa è, tuttavia, chiara: la morte è la separazione dell’anima dal corpo. Il
corpo, morendo, perisce; l’anima di coloro che decedono in stato di grazia viene accolta nell’eterna
comunione con Dio (4).

Nella tradizione vaishnava si nota la stessa concezione di corpo fungente da mezzo per l’anima nella
realtà materiale. La sola ragione della sua esistenza va ricercata nella necessità di fornire
all’anima la possibilità di godere di esso e, soprattutto, di riscattarsene per fare ritorno a Dio
(5).

In una lettera della Congregazione per la dottrina della fede risalente all’anno 1979 leggiamo: “La
Chiesa crede ad una risurrezione dei morti. La Chiesa intende tale risurrezione come riferentesi
all’uomo tutto intero; per gli eletti questa non è altro che l‘estensione agli uomini della
resurrezione stessa di Cristo.

La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di un elemento spirituale, il
quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l’”io umano” sussista, pur mancando nel
frattempo del complemento del suo corpo. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola
“anima”, consacrata dall’uso della Sacra Scrittura e della tradizione…“.

Oltre al corpo grossolano, la tradizione vaishnava parla chiaramente di un corpo sottile: il primo
e’ mera materia, destinato ad essere riassorbito nella prakriti nel momento in cui l’anima lo
abbandona alla fine di un’esistenza, il secondo è energia spirituale, costituente il supporto
trasmigrante e il principio di continuità attraverso le rinascite. La suddetta energia, venuta a
contatto con la materia si contamina ed assume peculiarità che non le sono proprie. Tale meccanismo
è messo in moto da un’ignoranza primordiale concernente una frapposizione tra ciò che appartiene al
jiva e ciò che invece è pertinente a maya.

Dunque, l’anima, libera dalle maculazioni materiali è provvista di un corpo sottile, anch’esso non
contaminato, che non abbandona mai.
Tale corpo spirituale è costituito di quattro sensi interni: coscienza, intelligenza, senso dell’io
e mente. La monade biblica, tuttavia, porta con se’, già quando nasce, il retaggio del peccato
originale. E’ figlia della colpa dei propri avi, colpa che sconta venendo in un luogo che le
“produrrà triboli e spine”.

L’arrivo della monade vaishnava nell’universo materiale è, invece, da attribuirsi esclusivamente ad
un atto di volontà personale. In virtù dell’innata libertà di cui gode e del desiderio altrettanto
innato di gioire come Dio, può decidere di provare l’esperienza dei mondi materiali: in quelli
spirituali mai potrebbe recitare un ruolo che compete esclusivamente a Dio. Nei mondi di maya, al
contrario, l’anima ha la possibilità di imitarlo perché, essendo la sua coscienza originale coperta
dall’energia illusoria, può facilmente dimenticare l’esistenza del Supremo. Quando scende nei mondi
materiali, il jiva approda in situazioni molto evolute in cui prova intensi piaceri; intossicato dal
senso di potere e dalla capacità creativa che scopre di possedere, si illude di essere ormai
onnipotente. Ma per l’inesorabile legge del karma, le sue azioni in spirito egoistico, tese cioè a
soddisfare i propri sensi, provocano reazioni che lo costringono ad assumere in nuove reincarnazioni
altri corpi, nella maggior parte dei casi sempre più degradati.

La tradizione biblica non dà informazioni riguardo all’esistenza di altre vite in mondi all’infuori
della Terra; pertanto le anime, al termine del cammino esistenziale terreno raggiungono, a seconda
del proprio operato, le tre dimensioni ultraterrene di paradiso–purgatorio–inferno.

Per la tradizione vedica il discorso diviene più complesso. Nell’universo materiale 8.400.000 specie
viventi (6) coabitano nello Svarga-loka (i mondi qualitativamente superiori), nel Bhuvar-loka (i
mondi qualitativamente mediani) e nel Bhur-loka (gli inferiori per qualità). Le anime si reincarnano
in un numero variabile di queste forme, sottoponendosi a varie esperienze: ciascuna in un corpo
diverso, ciascuna con una differente identificazione. Svarga sono i luoghi che le anime raggiungono
all’inizio del loro approccio col materiale o dove si reincarnano in seguito a innumerevoli
austerità e attività pie. Leggere le descrizioni di tali luoghi riconduce la mente alle
illustrazioni del paradiso cristiano, meta ultima di chi ha vissuto nel pieno rispetto dei crismi
della propria dottrina. Ma, per quanto la vita che si conduce su Svarga sia lunga e colma di gioia,
si tratta pur sempre di gioie materiali; e i tentacoli di kala (il tempo) avviluppano anche questo
sistema per cui, appena i meriti acquisiti nelle esistenze passate si esauriscono, le anime sono
obbligate a rinascere nei mondi mediani.

In virtù dell’elevato godimento sensuale che si raggiunge, riesce difficile praticare a Svarga le
discipline necessarie allo sviluppo di una coscienza superiore. La quantità e la qualità delle gioie
che si provano nel Bhuvar-loka – cui appartengono la Terra e Marte (7) – sono invece di molto
inferiori, accompagnate da altrettante frustrazioni, durante il corso di una esistenza di media
durata. Tutti questi elementi contribuiscono a facilitare il riconoscimento della natura illusoria e
temporanea della realtà empirica e spronano verso una vita trascendente. L’intero universo materiale
della tradizione vaishnava rimanda all’immagine del Purgatorio biblico. In entrambi i casi la monade
sconta il fio dell’errore originale mediante un cammino che, seppur diverso nei modi, è di
espiazione e purificazione.

Ma e’ da sottolineare che la monade, nell’ambito della tradizione biblica, rischia durante una sola
esistenza la propria felicità eterna; la monade del vaishnavismo non ha via di scampo: il ritorno a
casa, “back to godhead”, è obbligatoria. Potrà impiegarvi innumerevoli esistenze, catapultata nei
vortici del samsara, correndo il rischio di “cadere” nei mondi infernali (naraka-loka) che, in
quanto a descrizione delle pene e delle scene raccapriccianti a cui è sottoposto il dannato non ha
nulla da invidiare a quella degli inferi cristiani.

Il significato intrinseco della dimensione infernale è però diametralmente opposta nelle due
tradizioni: in opposizione alla connotazione di eternità che contraddistingue l’inferno biblico si
staglia quella di caducità peculiare, come ad ogni altro aspetto del materiale, all’inferno
vaishnava. La monade vaishnava ha la possibilità, avendo scontato gli atti peccaminosi, di
purificare gradualmente la coscienza ed iniziare un cammino di ritorno alla dimora celeste.

Note:
1) Libro della Sapienza III 1-4 e 15, 16; XV 3,4
2) Daniele XII 2
3) Libro dei Maccabei VII 9-14; XII 43
4) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 997, 1005, 1021-1023, 1035
5) Srimad-Bhagavatam II 10, com. al v.26
6) Bhagavad-gita II 31, nota 1
7) Bhagavad-gita Intr. p. 22

da www.isvara.org

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