Il cervello dei mistici

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Il cervello dei mistici

Articolo tratto da la Repubblica, 2003

Fin dal caso Galileo scienza e religione si sono opposte, e spesso scontrate, a causa delle contrastanti direzioni dei loro sguardi: verso questo mondo l’una, e verso l’altro mondo l’altra. A causa dei suoi interessi, la religione è però costretta a convivere con un vero e proprio paradosso: il fatto, cioè, che alla trascendenza l’uomo non può che guardare per mezzo della sua immanenza, filtrando e adattando ogni idea e immagine di Dio mediante la sua mente e il suo cervello. E infatti i mistici di ogni tempo e luogo hanno sempre sottolineato l’ineffabilità della divinità, l’inadeguatezza di ogni sua descrizione e la falsità di ogni sua rappresentazione.

Non appena la scienza ha cominciato a interessarsi di mente e cervello dunque, si è ritrovata a fare i conti con gli aspetti psicologici dapprima, e neurofisiologici poi, della religione. II primo fronte l’ha aperto la psicanalisi, i cui padri fondatori hanno dedicato all’argomento studi approfonditi e, per molti versi, sorprendenti: da L’avvenire di un’illusione e L’uomo Mosè e la religione monoteistica, di Freud, ai numerosi saggi raccolti in Psicologia e Religione di Jung.

Tra religione e psicanalisi esiste infatti un vero e proprio conflitto d’interessi, che diventa plausibile non appena si nota che quest’ultima costituisce una versione secolarizzata del cristianesimo, in cui il paradiso terrestre è lo stato prenevrotico, la caduta il trauma dell’infanzia, il peccato la nevrosi, il messia lo psicanalista, e la grazia l’analisi. E dalla plausibilità si passa alla necessità quando si ricorda che la religione, sfrondata delle sue convenzioni e circonvenzioni, si può appunto ridurre all’identificaztone di Dio con l’inconscio, e della salvezza con la sua scoperta.

Questa identificazione è ben nota in tutti coloro che hanno occhi per vedere e orecchie per intendere. Ad esempio, in Occidente, a William James che nel classico Le varie formè dell’esperienza religiosa ipotizzava: “Ciò con cui ci sentiamo connessi nell’esperienza religiosa è il prolungamento inconscio della nostra vita conscia”. E, in Oriente, a Daisetz Suzuki, chi nell’altrettanto classico L’esercizio koan come mezzo per realizzare il satori definiva: “L’illuminazione zen è la realizzazione dell’Inconscio”. Per ottenere questa realizzazione la psicanalisi e lo zen propongono di seguire la stessa via, già anticipata dal taoismo agire senza agire, cioè adattarsi al naturale fluire delle cose senza interferirvi artificialmente.

A seconda dei casi si parla di “associazioni libere”, o di “vuoto mentale” ma, benche i nomi cambino, la sostanza rimane comunque la stessa: svincolare il pensiero dalle corazze dell’attenzione e permettergli di seguire la sua vera vocazione. Con la psicanalisi siamo, però ancora al livello della pseudoscienza di un insieme di credenze, cioè, internamente coerente ma esternamente inverificabile. O, se si preferisce, di una storia di cui si può constatare la verosimiglianza ma non dimostrare la verità (nè soprattutto, la falsità). Con le neuroscienze si sale invece al livello della scienza dura e pura e si può studiare da un punto di vista oggettivo il sorprendente fatto che le esperienze religiose di tipo mistico possono essere indotte e riprodotte con i mezzi elettrochimici tipici dell’attività cerebrale. Il che fa pensare, ovviamente, che esse siano più immanenti che trascendenti, o come dicono coloro che se ne intendono, che il regno di Dio sia dentro di noi; più precisamente, dentro la nostra testa.

La tradizione chimica del misticismo si perde nella notte dei tempi. E la connessione fra droghe e religioni è troppo diffusa per essere casuale, come dimostrano i vari “cibi e nettari degli dèi” della storia: il soma vedico, la manna ebraica, il loto omerico, il vino bacchico, la canapa indiana, il peyote messicano, la coca incaica, l’ayahuasca amazzonica, la ganja giamaicana, la kava fijiana… Non c’è comunque bisogno di andare troppo lontano, per vedere chimicamente Dio. Basta il gas, come racconta William James in Volontà di credere. 0, ancora più semplicemente, bastano la vasca di deprivazione sensoriale, descitta da Richard Feynman in Sta scherzando Mr. Feynman!. O il deserto come per Sant’Antonio. O la cella (del carcere o del convento), come per San Giovanni della Croce. O i digiuni e le veglie. O le trans indotte da danze, canti, o mantra ossessivi. O gli esercizi, di respirazione guidata o forzata che accomunano le tecniche meditative, più disparate dallo yoga allo za-zen.

Anche se, ovviamente, più i mezzi sono blandi, e maggiore diventa la difficoltà di raggiungere l’illuminazione: in un recente studio condotto da Newberg e D’Aquili su monaci tibetani e suore cattoliche e descritto in Dio nel cervello (Mondadori), ha permesso di stabilire quale zona cerebrale venga attivata dalle meditazioni o dalle preghiere, e quale sia il meccanismo dell’illuminazione mistica.

Sostanzialmente, ci sono due tecniche classiche di concentrazione, che consistono nel distogliere completamente l’attenzione da tutto, o nel concentrarla invece completamente su qualcosa. Nel primo caso si provoca un blocco, e nel secondo un sovraccarico, degli stimoli sensoriali che arrivano al lobo parietale superiore posteriore, preposto alla formazione del senso del se personale interno (a sinistra) e dello spazio oggettuale esterno (a destra). Entrambe le tecniche producono una dissoluzione del senso del sè nella zona di sinistra, ma differiscono per gli effetti nella zona di destra.

Il blocco sensoriale provoca infatti anche una dissoluzione del senso dello spazio, che viene sperimentata come una interconnessione olistica del se con l’infinito o con il vuoto. Un sovraccarico sensoriale assegna invece una valenza inusuale all’oggetto sul quale ci si concentra, che viene percepita come una in unione con esso: come dicono i mistici che meditano su immagini divine. “Deus factus sum, “sono diventato Dio”. In vari studi condotti su soggetti malati, descritti da Ramachandran e Blakeslee nel capitolo “Dio e il sistema limbico” di Fantasmi nel cervello, assurdamente tradotto in italiano come La donna che mori dal ridere (Mondadori, 1999), hanno permesso invece di inaugurare una tradizione elettrica del misticismo. Si tratta sostanzialmente di stimolare artificialmente i “lobi temporali” nei quali si situano le connessioni fra i centri sensoriali e l’amigdala che è la parte del cervello preposta a dare significati emozionali agli avvenimenti esterni. Stimoli inusuali ai lobi temporali possono provocare disfunzioni dell’amigdala, con conseguente assegnazione di valenze cosmiche a oggetti e fatti anche banali.

La stimolazione dei lobi temporali può avvenire anche spontanamente, ad esempio in crisi epilettiche. E, ancora una volta, la connessione fra epilessia e religione è troppo diffusa per essere casuale. Lo dimostrano. simmetricamente, sia le intense esperienze spirituali provate da molti epilettici durante gli attacchi, che l’epilessia di molti profeti e santi, da Paolo di Tarso a Maometto. Naturalmente il paradosso fisiologico della religione sta proprio nella possibilità di interpretare questi fatti in maniere contrapposte. Da un lato, il credente rifiuterà di ridurre le proprie esperienze religiose a fattori elettrochimici, così come rifiutano una tale riduzione l’ansioso, il depresso e lo schizofrenico. Dall’altro lato, il non credente si stupirà che il religioso, così come l’ansioso, il depresso e lo schizofrenico, ipostatizzino le proprie turbe fisiche attribuendole a cause metafisiche.

Comunque sia, si conoscono da tempo farmaci psicodislettici, stimolanti dell’esperienza religiosa: ad esempio,la mescalina e i funghi allucinogeni, descritti da Huxley in Le porte della percezione e da Castaneda nel ciclo di Don Juan. Farmaci inibitori, analoghi ad ansiolttici, antidepressivl e neurolettici, per ora invece non ci si sono. Ma c’è da scommettere che tra qualche tempo il medico arriverà a prescrivere una pillola al paziente che mostri sintomi religiosi. E magari, pillole diverse per religioni diverse.

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