da Gianluca Rampini
Gen 28, 2016
ll neurologo Richard Restak, autore della serie televisiva della PBS “The Brain” afferma che le prove a favore del modello “olistico” delle funzioni celebrali sono schiaccianti e continua aggiungendo che non solo il modello olografico funziona ma è il miglior strumento che abbiamo per comprendere il funzionamento del nostro cervello.(1) Alla base di questa affermazione, condivisa per altro da sempre più ricercatori, vi è il lavoro del neurochirurgo Karl Pribram. Karl H. Pribram (Vienna, 25 febbraio 1919) è un medico neurochirurgo austriaco, professore di psichiatria e psicologia in varie università americane, tra cui la Stanford University e la Georgetown University. I suoi studi più rilevanti riguardano il cervello umano ed il sistema nervoso. In particolare, ha contribuito a definire la natura del sistema limbico e la relazione tra esso e la corteccia frontale.
Il principale lavoro è lo sviluppo del cosiddetto “modello cerebrale olografico della funzione cognitiva“, da lui chiamato “modello olonomico del cervello“. L’utilizzo del termine olonomico venne scelto da Pribram per sottolineare la differenza con un’ipotesi semplicemente olografica e quindi col lo specifico intento di darne una connotazione olistica generale. (Letteralmente holos deriva dal greco “intero”, “tutto”; nomos da “norma”, “legge”). Con questo modello, Pribram teorizza che le informazioni, quindi anche i ricordi, immagazzinati nel nostro cervello non vengano “registrati” nei neuroni ma siano il risultato di figure (detti anche pattern) d’onda interferenti, spiegando in tal modo la capacità del cervello di immagazzinare un’enorme quantità di informazioni in uno spazio relativamente piccolo. Durante gli anni quaranta e cinquanta del Novecento, Pribram contribuì allo studio e alla comprensione del ruolo dei gangli della base (sono gruppi di nuclei sottocorticali localizzati alla base di entrambi gli emisferi del cervello, particolarmente interconnessi con la corteccia cerebrale ed altre zone) nell’organizzazione delle emozioni e delle motivazioni.
Egli ha inoltre scoperto i sistemi sensoriali dell’area cerebrale chiamata corteccia associativa sensoriale, ha indicato come questi sistemi funzionino e diano la possibilità di scelta all’individuo.(2)
Un chiarimento
Chiunque usi questi termini per descrivere alcuni aspetti della realtà che ci circonda non lo fa, e non lo può fare, in maniera pedissequa.
Quando si usa il termine “olografico” in questi ambiti lo si fa perché è il paragone più azzeccato che si possa individuare per descrivere i processi che stanno alla base di queste teorie.
Se pur dovrebbe essere ovvio va specificato che quando Pribram, vedremo nel corso della trattazione chi è, definisce il cervello “olografico” o “olonomico” non intende che esso sia letteralmente un ologramma. Il che non avrebbe senso. Prima di proseguire mi sembra corretto capire cosa sia un ologramma. Possiamo riassumere la costruzione di un ologramma in questo modo: un raggio laser viene separato in due raggi distinti attraverso una serie di specchi. Il primo fascio deve rimbalza sull’oggetto che si desidera fotografare. Il secondo invece si dovrà scontrare con la luce riflessa del primo. Questo crea il cosiddetto “schema d’interferenza” che va ad imprimersi su una superficie fotosensibile. L’immagine sottostante chiarisce ulteriormente quanto detto.
A differenza della pellicola fotografica tradizionale, ogni piccolo pezzo della pellicola olografica contiene l’informazione dell’intera immagine
E’ quindi ben chiaro che il cervello non può essere un ologramma ne può interagire con nulla che sia letteralmente olografico. Ma come vedremo il processo di impressione della pellicola olografica e il procedimento necessario e riprodurre l’immagine partendo da essa si adatta perfettamente alle ipotesi formulate da Pribram. Anche, ed è forse la caratteristica più sorprendente quanto rilevante, la peculiarità della pellicola olografica di mantenere il complesso delle informazioni necessarie in tutte le sua parti, a prescindere da quando piccolo sia il pezzo separato dal totale. (fonte: Enrico Travaini, Paradigma olografico pubblicato su associazioneaspis.net)
Le prove
Ci sono stati, nella storia delle neuro-fisiologia alcuni fondamentali esperimenti che poi condussero Pribram a formulare la teoria olonomica. Tutti avevano sostanzialmente a che fare con la memoria. Esperimenti che erano inizialmente volti a dimostrare che a specifiche zone del cervello corrispondano specifiche competenze e che in specifiche zone del cervello vengano conservati specifici ricordi. La memoria è tutt’ora uno dei grandi misteri che circondano le straordinarie potenzialità del nostro cervello. La teoria più diffusa riguardo il funzionamento della memoria dice che tutto dipende dalla modifica delle connessioni nelle reti neuronali in seguito agli stimoli esterni. Questi stimoli indurrebbero il rinforzo o la creazione di nuove sinapsi. Ogni informazione verrebbe memorizzata grazie alla formazione di una specifica rete neuronale, prima nell’ippocampo e poi nella corteccia dove verrebbe definitivamente conservata.
Per la precisione ci sarebbero due tipi di memoria: la memoria a breve termine, caratterizzata dalla formazione di schemi transitori di comunicazione neuronale e la memoria a lungo termine, in cui invece si formano schemi più stabili in tutto il cervello. Una delle scoperte che hanno sostenuto questa ipotesi è stata quella dello neuro-psichiatra russo Sergej Sergeevič Korsakov che scoprì come l’alcolismo cronico influenzasse i processi mnemonici. In sostanza egli scoprì che in individui soggetti a stati di alcoolismo cronico gli episodi precedenti all’alcoolismo erano normalmente immagazzinati e recuperabili mentre gli eventi che accadevano durante il periodo di alcoolismo non formavano alcun ricordo.
Tale sindrome prende da lui il nome è si chiama Sindrome di Korsakov. L’elemento di questa scoperta che sostiene le teoria che prima ho descritto era il fatto che approfondite analisi al cervello dei soggetti in questioni mostrarono danni al talamo, ai corpi mammillari e all’ippocampo. In sostanza confermando l’ipotesi della memoria topografica del cervello(3).
Ma allora perché possiamo a ragion veduta sostenere che la memoria sia ancora un mistero? Più avanti vedremo alcune peculiari caratteristiche che questa teoria non può spiegare. Prima però ci occuperemo di alcuni esperimenti che erano stati concepiti proprio a favore, a conferma di questa diffusa teoria, chiamiamola ufficiale, della memoria.
Il primo, non in ordine cronologico, di questi esperimenti fu effettuato dal biologo Paul Pietsch presso l’Indiana University negli anni sessanta. Egli stesso disse che l’obbiettivo era proprio quello di confermare la teoria corrente della memoria ma anche quello di confutare la nascente teoria olografica. L’esperimento è comunemente conosciuto come “l’esperimento delle salamandre”. In questo esperimento Pietsch realizzò tutta una serie di operazioni sui cervelli delle salamandre. Dapprima si limitò ad asportarli e poi a reinserirli oppure ad inserirli al contrario. In sostanza poiché Pribram sosteneva che la memoria non è localizzata in una specifica zona del cervello, se la salamandra con il cervello invertito non riusciva più a mantenere comportamenti elementari come l’alimentazione, allora sarebbe stato evidente che Pribram avesse torto. Con un misto di rammarico e sorpresa Pietsch si rese presto conto che le salamandre continuavano a comportarsi normalmente. Non soddisfatto quindi eseguì oltre settecento operazioni con le quali tagliò, asportò e sezionò parti del cervello delle sventurate salamandre che sempre tornavano a comportamenti normali. Nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì mai a confutare la teoria di Pribram ed anzi, in conseguenza alla mole di dati raccolti, ne divenne un importante sostenitore.(4)
Un’altra serie di importanti esperimenti venne effettuata nel 1920 da Wilder Peinfield. Egli ebbe l’opportunità di lavorare con pazienti epilettici. Egli scoprì che stimolando elettricamente alcune parti del cervello i pazienti accedevano a specifici ricordi confermando la sua ipotesi iniziale che, come per Pietsch, i ricordi fossero localizzati in determinate zone del cervello(5).Negli anni a venire però si dimostrò che i risultati di Peinfield sulla stimolazione erano replicabili solamente su soggetti epilettici oppure che i ricordi ottenuti con quel tipo di stimolazione assomigliavano molto ai sogni e che quindi forse non erano affatto ricordi.(6) Interessante è ricordare che Pribram fu studente delle stesso Peinfield. Vi è una terzo esperimento che merita di essere citato e che ha avuto svolgimento simile a quelli precedenti. Il biologo Karl Lashley nel 1950 condusse una serie di esperimenti sui ratti che dovevano memorizzare il percorso in un labirinto. L’idea alla base era quella di asportare la parte del cervello che si supponeva fosse responsabile della memoria. Ma ogni volta, nonostante l’asportazione il topo riusciva a ricordare la strada. Non contento del risultato Lashley asportò anche altre porzioni del cervello, ma a prescindere da quale parte del cervello il ratto perdesse la sua memoria rimaneva invariata.
Per la precisione la memoria di questi ratti dal cervello mutilato subiva solamente un leggero appannamento in qualche modo paragonabile, come vedremo nei capitoli successivi, alla perdita di definizione che subisce l’ologramma quando la pellicola su cui è impresso lo schema di interferenza viene rotta in pezzi sempre più piccoli. L’ologramma generale rimane invariato con, appunto, solo una leggera perdita di definizione(7). Anche Lashley, dopo centinaia di tentavi, si vide costretto ad ammettere che la sua ipotesi non funzionava e anzi che la mente riceve e immagazzina informazioni codificando e decodificando complessi schemi di interferenza. Da tutta questa serie di evidenze Pribram dedusse che la memoria era distribuita nell’intero cervello. Non era altrettanto chiaro quale fosse il meccanismo che permette di accedere ai ricordi.Tale meccanismo Pribram lo intuì leggendo un numero di Scientific America sugli ologrammi laser. Negli anni poi affinò la sua teoria, anche grazia all’apporto di David Bohm, che lavorava parallelamente ad una versione olografica dell’universo, per accedere al quale era necessario che il cervello avesse le proprietà olografiche intuite da Pribram.
Questi ipotizzò che i processi di memorizzazione, nel contesto olografico, coinvolgano oscillazioni elettriche della rete neuronale, processo differente da quello dato per buono nella teoria convenzionale e che si basa, come detto, sulla comunicazione tra le sinapsi. Queste oscillazioni sono onde e creano schemi di interferenza nei quali si codifica la memoria, sostanzialmente grazie alla capacità del cervello di convertire questi schemi di interferenza nel modo descritto dalle equazioni delle trasformate di Fourier. Le trasformate di Fourier, matematico del diciottesimo secolo, permisero anche a Gabor di realizzare gli schemi di interferenza sulle pellicole olografiche che stanno alla base dell’invenzione degli ologrammi. Fra l’altro queste equazioni sono usate anche nei software dei radiotelescopi del progetto SETI per la ricerca della vita extraterrestre. Gli scienziati Karen e Russel De Valois tra gli anni settanta e ottanta, con una serie di sperimentazioni presso l’università di Berkley in California, dimostrarono che anche la vista sostanzialmente si basa sulle trasformate di Fourier per decodificare le forme che giungono ad impressionare la retina e tramite questa sino al cervello.(8-9)
I De Valois partirono dall’opinione comune secondo la quale il cervello riceve le informazioni visive da una serie di cellule altamente specializzate, che rispondono cioè a determinate forme o colori, chiamate rivelatori di caratteristiche, e che le facesse combaciare in qualche modo per fornirci le nostre percezioni del mondo esterno. Partirono sopratutto dal fatto che non ritenevano questa spiegazione soddisfacente. Allora pensarono di convertire motivi a scacchi scozzesi, usando le trasformate di Fourier, in semplici forme d’onda. Poi verificarono la risposta delle cellule cerebrali nei pressi della corteccia visiva a queste forme d’onda. Ciò che scoprirono fu che tali cellule non rispondevano agli schemi originali ma alle conversioni di Fourier di quelli schemi. La conseguenza che ne trassero era che il cervello usa la stessa matematica usata per creare gli ologrammi per decodificare gli stimoli visivi e probabilmente, per estensione, per tutte le sue funzioni.
Nel 1970 Peter Van Heerden, fisico ottico, suggerì che la nostra capacità di riconoscere oggetti familiari sia simile ad un procedimento definito riconoscimento olografico. Una tecnica simile appunto all’interferenza olografica potrebbe spiegare anche una delle più strabilianti capacità della memoria di cui parleremo tra poco(10). Per quanto tutto questo possa risultare piuttosto “alternativo” oppure “eterodosso”, seppur nel campo della ricerca scientifica, può valere la pena citare anche una rappresentante eminente dell’ortodossia scientifica nel campo delle neuro-scienze. Susan Greenfield è appunto una scienziata britannica e membro del Casa del Lords, ha contribuito con centinaia di pubblicazioni specializzandosi nei meccanismi celebrali che causano l’Alzheimer ed il Parkinson.
“All’interno di ogni macro regione del cervello non ci sono funzioni completamente isolate. Sappiamo per esempio che la visione è suddivisa nell’elaborazione del colore, del movimento e delle forme e che la funzione della vista, per contrario, può assorbire ben trenta zone diverse del cervello(11).”
Il che non è certo di per sé una sottoscrizione delle teoria olografica, anzi, ma è un’affermazione importante che ci dice che proseguendo con la ricerca la localizzazione topografica delle funzioni celebrali è sempre più complessa da sostenere.
Altro che memoria
Tutti noi abbiamo diverse capacità mnemoniche, c’è chi va forte nel ricordarsi tutte le capitali del mondo, che non riesce a mandare a memoria le cose ma ne trattiene più il significato. Sappiamo che i bambini sono più pronti ad acquisire nuove informazioni, come ci è ben nota la capacità dei nostri nonni di ricordare bene gli eventi del passato ma aver grosse difficoltà con il quotidiano. C’è chi vince a Memory e che invariabilmente perde. E poi ci sono persone con cui sarebbe meglio non giocare affatto. Alcune persone infatti sono dotate di quella che viene comunemente detta memoria fotografica e che tecnicamente si definisce memoria eidetica.
Per dovere di completezza devo premettere che secondo la scienza ufficiale la memoria eidetica sostanzialmente non esiste. L’argomento viene trattato peraltro in maniera contraddittoria. Per un verso molti ricercatori si rifugiano nel sostenere che in molti casi si tratti di truffe più o meno consapevoli o nella migliore delle ipotesi di dati raccolti con scarsa attendibilità. Contemporaneamente però altri sostengono che essa sia maggiormente presente nei bambini o in persone affette da disturbi quali la Sindrome di Asperger o più in generale l’autismo.
Credo che la cosa più opportuna sarebbe ammettere che è ancora un argomento che deve essere affrontato con la giusta dose di rigore scientifico ed apertura mentale. Sta si fatto che ci sono alcuni eclatanti esempi che lascerebbero supporre che questa capacità alcuni di noi ce l’abbiano. Si potrebbe discutere sul quando una memoria sia effettivamente eidetica e non o magari, solo una memoria molto sviluppata. E’ un parametro molto difficile da definire con esattezza, direi che i casi che tra poco affronteremo ci chiariranno il concetto. Il più celebre, anche in termini di vera e propria popolarità, è Laurence Kim Peek più conosciuto come “the Rain Man” ovvero colui che sta alla base del personaggio interpretato da Dustin Hofmann nell’omonimo film. Laurence era definito, essendo recentemente scomparso, un “mega-savant” per la sue straordinarie capacità intellettive. Più che altro per la sua enciclopedica memoria. La sua abnorme banca dati spaziava in ben quindici diverse materie che svariano dalla storia alla geografia, dalla letteratura allo sport e molte altre. Questa sua unicità ha attratto, nonostante la scetticismo della comunità scientifica sull’argomento, persino l’attenzione della Nasa ( Center for Bioinformatics Space Life Sciences at the NASA-AMES Research Center )(12) che utilizzando la strumentazione normalmente riservata al monitoraggio degli astronauti ha provato a scoprire quali sono i meccanismi che si attivavano nel cervello di Laurence durante le sue “prestazioni”.
Quelllo che si sa è che Kim Peek è nato con una macrocefalia associata a danni al cervelletto e, ciò che forse più conta, un’agenesia del corpo calloso, condizione nella quale manca la rete di fibre nervose che connettono tra loro gli emisferi cerebrali. Nel caso di Peek, mancavano anche connessioni secondarie come la commessura anteriore. Si è quindi ipotizzato che i suoi neuroni, in assenza di un corpo calloso, abbiano creato nuove connessioni, comportando una maggiore capacità mnemonica(13). Un’altro esempio di persona dotata di memoria prodigiosa, non solo eidetica in questo caso, è quello di John Von Neumann, uno dei più grandi fisici della storia il cui lavoro ha influenzato una serie impressionante di ambiti scientifici. A lui si devono contributi fondamentali in numerosi campi come la teoria degli insiemi, analisi funzionale, topologia, fisica quantistica, economia, informatica, teoria dei giochi, fluidodinamica e in molti altri settori della matematica. Viene generalmente considerato come uno dei più grandi matematici della storia moderna oltre ad essere una delle personalità scientifiche preminenti del ventesimo secolo.
Ma per quello che ci interessa direttamente era capace di memorizzare un articolo o la pagina di un libro parola per parola e di recitarlo anche a molti anni di distanza(14). Lasciamo per ultimi i due casi che si sembrano più emblematici ed eccezionali e citiamo brevemente altri due personaggi che si dice avessero proprietà mnemoniche eccezionali. Uno è Nikola Telsa, genio serbo padre di svariate invenzioni tra cui quella della corrente alternata che, stando ai suoi racconti, visualizzava i suoi progetti nella sua mente completi in ogni minimo dettaglio, tanto che non aveva nessun bisogno di disegnarli su carta. Diceva che tali progetti era come se li “ricevesse”(15) da una fonte esterna e che lui fosse una sorta di antenna. Insomma un caso sufficientemente inspiegabile per rientrare appieno in questo gruppo di persone speciali. Ancora più celebre è certamente Mozart che si dicesse fosse stato in grado di trascrivere la partitura del Miserere di Allegri dopo averlo ascoltato solamente due volte. I prossimi due casi sono a dir poco straordinari e ci inducono a pensare che una qualche proprietà olografica le loro menti la posseggano. E quindi forse questa ipotesi la si può applicare a noi tutti. Entrambi manifestano questa loro capacità tramite il disegno e la pittura.
Il primo, in ordine di tempo, si chiama Franco Magnani, pittore americano di origini italiane che proprie di queste origini ha fatto il cuore della sua produzione e della sua speciale capacità. Egli infatti era nato in un piccolo paese toscano in collina chiamato Pontito per poi trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti. Ma Magnani non ha mai elaborato il distacco da Pontito, provocando un vuoto che non si è mai colmato. A tal punto che dopo un periodo di stress collegato ad alcuni problemi di salute si è innescata quella che è a tutti gli effetti un’ossessione che lo spinge a riprodurre centinaia di scorci del suo paese natale. Presto si è scoperto che questi dipinti erano perfette riproduzioni dei corrispondenti reali in Toscana. Una fotografa, Susan Schwartzenberg si è recata a Pontito proprio con lo scopo di verificare oltre ogni ragionevole dubbio la realtà di questa corrispondenza. La fotografa scoprì che la fedeltà delle riproduzioni di Magnani erano di qualità fotografica ed inspiegabile. C’erano persino angolature che Magnani non avrebbe mai potuto inquadrare realmente, essendo anche a altezze inarrivabili dal terreno. Le immagini che Magnani dipinge nascono prima in sogno e poi, con il passare del tempo, anche come visioni diurne, emotivamente schiaccianti e con una evidenza tridimensionale e una ricchezza di particolari tali che Franco le paragona a olografie. Questi flash non sembrano visioni statiche, fotografiche. Egli può analizzarle e “vederle” da diverse angolature. Per far questo, deve riorientare fisicamente il proprio corpo, girandosi a destra per immaginare quel che si trova sulla destra della scena di Pontito e a sinistra per “vedere” quanto si trova dall’altra parte mentre con gli occhi guarda lontano, come se potesse effettivamente vedere le case di pietra, gli archi, le scalinate e le strade(16).
Infine c’è il caso dell’artista autistico Stephen Wiltshire che ha dimostrato di essere in grado di riprodurre fin nel minimo dettaglio il panorama della città di New York dopo averla sorvolata in elicottero per 20 min. Egli ha infatti disegnato completamente a memoria quello che ricordava su di un pannello di 6 metri, pannello che si trova al Pratt Institute of Architecture and Desing. Chi lo ha assistito dice che ci ha messo tre giorni e, per quanto si possa vedere, senza dimenticare alcun particolare. Sulla scia di questo “successo” ha avuto l’opportunità di riprodurre anche i panorami di altre importanti città in tutto il mondo quali Roma, Londra e Tokyo(17).
Riassumendo, a differenza della versione comunemente accettata per la quale a specifiche cellule della corteccia visiva corrispondano specifiche forme (angoli, linee, ecc…), il modello olonomico del cervello proposto da Pribram ipotizza che le informazioni vengano processate secondo le trasformate di Fourier, e che le cellule della corteccia rispondano a tutti gli stimoli visivi, sostanzialmente alle frequenze spaziali dello stimolo visivo(19).
I principali punti della teoria sono questi:
L’apparente capacità delle cellule corticali di filtrare le frequenze dello spettro visivo.
La correlazione tra le trasformate di Fourier e gli ologrammi.
Il fatto che che danni selettivi del cervello non cancellino necessariamente specifici ricordi.
Il vantaggio computazionale di produrre correlazioni nell’ambito dello spettro visivo.
La sua idea che un’esperienza consapevole sia concomitante al cervello che opera le trasformate di Fourier (che simultaneamente collega una percezione a precezioni precedentemente immagazzinate ). Egli ritiene che la consapevolezza stessa sia l’atto stesso della correlazione e che tutto ciò avvenga nella struttura dendritica grazie al sommarsi di polarizzazioni (e depolarizzazioni) attraverso i processi nelle reti dendritiche.
Il cervello è una struttura dissipativa e auto organizzata attorno ad un principio di minimizzazione del rapporto tra certezza e incertezza.
Concludendo
Secondo Pribram tutti questi processi avvengono nella corteccia celebrale. In particolare ritiene vi siano due livelli di attività corticale: un primo più superficiale, nel quale ci sono circuiti neurali separati e e localizzati ed un secondo livello più profondo caratterizzato da una ramificazione dendritica che unisce l’intera superficie. La struttura profonda contiene la memoria distribuita mentre quella superficiale agisce come il meccanismo di recupero delle informazioni.(18) Combinando questa teoria con quella di David Bohm sull’Universo Olografico si arriva ad un’intrepetazione della realtà nella quale ben si inseriscono e ne vengono giustificati molti di quei fenomeni comunemente definiti paranormali. Troviamo sia la direzione giusta per cercare un modello che li comprenda e ci permetta di affrontarli come aspetti di diversi dello stesso fenomeno.
Gianluca Rampini per ASPIS
Note:
1.Richard Restak The brain Ed. Warner Books cit. in Tutto è uno di Micheal Talbot.
2.Enrico Travaini Paradigma Olografico pubblicato su associazioneaspis.net
3.Dr. Giuseppe Giunta, Psichiatra Neurofisologia della memoria.
4.Paul Pietsch Shufflebrain, The Quest of Hologramich mind.
5.David S. Walonick Phd, A holographic view of realiy.
6.James L. Oschman, Ph.d. and Nora H. Oschman, Somatic Recall, part 2. Soft Tissue Holography.
7.Dr. Peter T. Chopping, holographicbrain.com cap.2
8.Riccardo Viale, Mente umana, mente artificiale p.164.
9.Karen K. De Vaolis, Russel L. Devalois e W.W.Yund. Response of striate cortex cells to grating and checkboard patterns. Journal of fisiology vol.291 ( 1979 ) pp. 483-505.
10.David S. Walonick Phd, A holographic view of realiy.
11.Susan Greenfield, Mind, Brain and Consciousness.
12.space.com
13.wikipedia.org
14.Herman Goldstine, fisico collega di Von Neumann.
15.Gianluca Rampini, Voci aliene, Xtimes n.16 p.46
16.Oliver Sacks – Un Antropologo su Marte, Biblioteca Adelphi 305 – Anno 1995
17.Dailymail.co.uk, 29 ottobre 2009.
18.“Conscious Awerness: processing in the synaptodendritic web”, New Ideas in Psycolgy 17 (3) 205 – 214/
“Quantum Holography it is relevant to brain evolution”, Information Science 115 (1-4 ) 97 – 102
cit. in wikipedia.org
19.Jeff Prideaux, Virginia Commenwealth Univ. Comparison between Karl Pribram’s Holographic Brain Theory and more conventional model of neuronal computation.
20.Vedi prec.
da associazioneaspis.net
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