Il cibo-rifugio
di Francesco Pandolfi
Leggo su una rivista che mangiare zuccheri e carboidrati innalza nel cervello il livello di
serotonina, un ormone che svolge innumerevoli funzioni fra le quali quella antidepressiva.
Secondo la biochimica, quindi, mangiare un dolce produce inevitabilmente una sensazione di
benessere. Di diverso avviso sono gli psicanalisti: a loro dire, mangiamo ripetendo inconsciamente
il comportamento di quando eravamo bebè, allorché nostra madre ricorreva al cibo ogni volta che
davamo segnali di disagio. In un certo senso, quindi, siamo ancora tutti dei “mammoni” patentati.
Di questo non c’è da stupirsi… la natura umana è estremamente complessa e, certamente, ognuno di
noi conosce ben pochi dei meccanismi esistenti all’origine delle mille esigenze ed azioni che, in
ogni momento, compongono il “puzzle” dei propri giorni. Mi viene da pensare (non sono uno
specialista e quindi, come sempre, mi limito a lanciare una riflessione) che entrambe le spiegazioni
– quella biochimica e quella psicanalitica – siano vere, ma mi domando anche se non ci sia una causa
comune e antecedente ad entrambe queste realtà.
Vediamo un po’: non potrebbe essere che l’uomo ricordi ancora (geneticamente, s’intende, e quindi
solo al livello istintivo) le difficoltà ed i comportamenti degli albori della sua storia, quando
trovare un cespuglio che offrisse un po’ di mirtilli era già una festa? Non potremmo, noi, essere
ancora un po’ come certi altri animali che, ancora numerosissimi, fanno incetta di cibo nella
stagione propizia per poter sopravvivere in quelle “magre”?
Come credete che si senta un orso con la pancia piena? Certamente tranquillo, certamente in pace con
il mondo… proprio come ci sentiamo noi quando ci buttiamo sul letto dopo un pranzo luculliano. Non
è, allora, cosa strana il fatto che le persone obese siano fra le più insicure, ma anche molto di
frequente le più allegre. Mi chiedo se le spiegazioni dei nostri scienziati non si limitino che
all’oggi, quando invece il passato e – perché no – anche il futuro, influiscono sempre e
pesantemente sul presente.
Il nastro del tempo è eternamente lungo; siamo noi che, oltre a non comprenderne più di tanto la
natura, ci spostiamo su di esso, mentre invece nella nostra scarsa consapevolezza ci illudiamo che
sia come il nastro di un’audiocassetta che si limita a strofinarsi, centimetro dopo centimetro,
sulla testina della nostra piccola realtà. Non guardiamo indietro, non ci protendiamo in avanti; ci
limitiamo a vivere quel singolo centimetro d’esistenza.
Ma per sapere chi siamo è prima necessario capire chi eravamo. Per sapere dove stiamo andando
dovremo prima capire chi siamo. Questa ricerca può essere un gioco meraviglioso, un gioco che
dipende da noi molto più di quanto immaginiamo. Mangiamo la nostra torta, allora; lanciamoci,
prudentemente ma senza timore, nella più bella avventura di tutti i tempi.
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