Il Dhamma è proprio qui
del venerabile Luang Por Sumedho
© Ass. Santacittarama, 2012. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Gabriella De Franchis.
Adattamento di un discorso dato nel 2010 al Monastero di Amaravati, in Inghilterra.
Luang Por Sumedho è nato a Seattle, USA, nel 1934. Nel 1967 fu ordinato monaco a Nongkai, nel nord-est della Thailandia. Ha praticato con Ajahn Chah per dieci anni, poi si è trasferito in Gran Bretagna, dove, nel 1979, fondò il monastero di Cittaviveka. Nel 1984 ha poi fondato il monastero di Amaravati, dove ha risieduto per 26 anni. Attualmente vive in Thailandia.
“Quando sviluppiamo la pratica della presenza mentale, iniziamo ad agire mossi dalla spontaneità e dalla saggezza, piuttosto che da punti di vista personali.”
TUTTI ABBIAMO LA CAPACITÀ DI RIFLETTERE, di osservare e guardare la mente: di essere spettatori degli stati mentali piuttosto che smarrirci in essi. Tutti questi stati mentali di cui facciamo esperienza possono insegnarci qualcosa. E’ un insegnamento importante. Noi non conviviamo soltanto con i risultati del nostro kamma, ma anche con le tendenze caratteriali delle persone che ci circondano. Se non impariamo a osservare la mente nel modo giusto, soffriremo inutili paure e ansie dovute alle condizioni che cambiano in continuazione dentro e fuori di noi.
Subito dopo essermi unito al Sangha, Ajahn Chah mi portò a conoscere un monaco molto anziano, Luang Por Khao. Ajahn Chah aveva ricevuto in regalo un registratore Philips. Siamo nei lontani anni ’60, quando c’erano solo bobine, niente cassette. Ajahn Chah amava questi aggeggi e, con i nastri a sua disposizione, registrava gli incontri con tutti gli Ajahn anziani nel nord-est, che andava a trovare. A quel tempo non conoscevo ancora molto bene la lingua thai e, in quell’occasione, non capii molto di quello che dicevano, stavo seduto lì, aspettando di andare via. Alla fine, Ajahn Chah e Ajahn Maha Amorn che era con lui, si alzarono per andare, ma Luang Por Khao, che era sulla sedia a rotelle, mi fece cenno di avvicinarmi. Non parlava inglese, ma mi dette un insegnamento profondo. Disse in thai: “La verità del Dhamma è qui”. e si indicò il cuore. Fu un insegnamento splendido. Non capivo bene la lingua, ma questo lo capii. Da allora è rimasto sempre con me. Quel messaggio è la via all’osservazione riflessiva della sofferenza, delle sue cause e dell’assenza della sofferenza. Il Dhamma si vede e si conosce nel proprio cuore, non da quello che ci dice la gente o leggendolo sui libri.
Buddho
Nel corso degli anni, tutti noi siamo stati, a volte, presi e trasportati in vari modi dalle nostre sensazioni e dalle nostre reazioni. Fermatevi un momento per osservare l’influenza che queste hanno su di noi; sia che si tratti di reazioni verso le persone con le quali viviamo o verso la società nella quale viviamo, verso il modo in cui le persone ci appaiono, o quello che dicono, o il tono della loro voce e così via. Tutto questo ha la sua influenza su di voi – sentite che da loro proviene qualcosa. La consapevolezza delle sensazioni è Buddho, il Buddha che conosce il Dhamma. Se non osserviamo rimaniamo intrappolati nella nostra reazione alle sensazioni. Siamo vittime impotenti delle nostre sensazioni. Quando le cose vanno bene, sono piacevoli e gradevoli, ci sentiamo in un modo; quando la gente ci insulta o ci offende, ci sentiamo in un altro modo.
Ajahn Chah ha sempre dato importanza alla riflessione sugli otto dhamma mondani, che sono elogio/biasimo, guadagno/perdita,
felicità/infelicità, successo/fallimento. Se analizziamo questi otto dhamma mondani, vediamo che ognuno di essi va in coppia e la coppia ha un aspetto positivo e uno negativo. Prendete il successo e il fallimento, vogliamo avere successo e abbiamo il terrore del fallimento. Tuttavia Ajahn Chah diceva che sia il successo che il fallimento hanno lo stesso valore se la contemplazione viene dal Buddho, piuttosto che da preferenze personali. Pensate all’elogio e al biasimo; quando le persone dicono che sei un maestro magnifico e farebbero qualsiasi cosa per te, ci si sente in un modo. Quando dicono che sei senza speranza e non riescono a capire niente di quello che dici, ci si sente in un altro modo. Si tratta di Tathātā (il modo in cui è). Le cose sono come sono. Le due forme di giudizio hanno uguale valore. Ma l’attenzione che gli diamo a partire da un livello personale, fa desiderare le lodi delle persone, il loro rispetto, il loro apprezzamento, la gratitudine e l’amore e non il loro biasimo, il disappunto, l’avversione o il risentimento. Questo è l’io che si manifesta con la sua inclinazione verso il piacere e con la sua avversione verso ciò che è spiacevole. In termini di Buddho, Dhammo, Sangho, la consapevolezza abbraccia tutto. Buddho, la consapevolezza, osserva il piacere che si ha nell’essere lodato e il dispiacere che si prova nell’essere biasimato.
La Via di Mezzo – Majjhimā Patipadā
Per alcune persone la Via di Mezzo sembra un ennesimo invito alla mediocrità, uno scendere a compromessi proprio con tutto, un rifiuto degli estremi, per vivere in modo pusillanime. Mi piace la parola “pusillanime’. Significa gretto, o codardo, una persona senza una forte personalità, che cerca giusto di tirare avanti. E’ davvero questa la Via di Mezzo? Parlando in termini di estremi dualistici, come lode e biasimo o successo e fallimento, si implica che nella Via di Mezzo non si dovrebbe gioire del successo e della lode e che bisognerebbe ignorare il biasimo e il fallimento? A questo livello uno e l’opposto dell’altro. Ma, nella Via di Mezzo, è Buddho – un modo per analizzare gli estremi attraverso la coltivazione della
consapevolezza, piuttosto che comportarsi come una persona che cerca di avere successo nel mondo, o che lo evita, lo teme e si perde nella pusillanimità.
Armonia
Di recente, Ajahn Amaro mi ha parlato di una interpretazione di Bhikkhu Thanissaro della parola pali “sammā”, come in sammā-ditthi, sammā-sankappo. La parola sammā, così come emerge in questa
interpretazione, significa “intonato”. E’ come quando si parla di armonia o di un suono che è “intonato”, mentre visammā è “stonato”. Bhikkhu Thanissaro fa presente che, nelle culture antiche, veniva usata la terminologia della musica per descrivere le qualità morali delle persone e delle azioni. La musica disarmonica o gli strumenti musicali scordati erano metafore del male, la musica armoniosa e gli strumenti bene accordati erano metafore del bene. Sammā significa anche “uniforme”. C’è un passo in cui il Buddha ricorda a Sona Kolibisa, il quale si era sforzato troppo nella pratica, che il suono del liuto è gradevole solo se le corde non sono né troppo tese né troppo lente, ma uniformemente accordate. Questa similitudine aggiunge significato anche alla parola samana, che viene generalmente tradotta come monaco, o monastico, o meditante. Così il meditante vero è sempre in accordo con ciò che è appropriato e buono.
Retta comprensione
Penso che usare le parole giusto e sbagliato, per quanto riguarda la retta comprensione e la comprensione errata, sia troppo forte. Sono parole troppo categoriche, che portano a “questo è giusto e quello è sbagliato”. Quando si dice che una cosa è giusta e un’altra è sbagliata, e si vuole trovare il punto che sta in mezzo, si ottiene una miscela insignificante – la mediocrità. Consammā-ditthi, giusto e sbagliato, non vengono considerati cercando di fonderli insieme, ma da una posizione di consapevolezza; così si è in armonia. Ci si può relazionare alle azioni, alle parole, alla vita e alle reazioni alla vita con saggezza e con la consapevolezza di essere adeguati al momento e al luogo. Questo viene dalla saggia intuizione,
dall’armonia, dal vedere le cose con senso di equilibrio e
trascendenza, con la consapevolezza incondizionata del condizionato.
Realtà trascendente
La parola “trascendenza” dà la sensazione di essere al disopra di tutto, ma questo non è quello che voglio dire. Uso questa parola, trascendenza, più che altro quando entrambi, sia l’incondizionato che il condizionato, vengono considerati insieme e non opposti tra loro. In questo momento, qui ed ora, poiché siamo entità coscienti, dobbiamo gestire le condizioni della forma fisica, i nostri sensi, le emozioni, i ricordi, il nostro kamma e le nostre abitudini. Se si dice che non dobbiamo restare attaccati al condizionato sembra che di questo condizionato ce ne dobbiamo liberare e, quindi, quello che ci rimane è solo l’incondizionato. E allora questo significa che se lascio andare l’attaccamento al corpo, questo sparisce? o che vado direttamente in trance e non sento più niente? Oppure, invece, significa che la consapevolezza incondizionata include il corpo, le sensazioni, le reazioni che provo a causa della lode o del biasimo, del successo o del fallimento?
Il condizionato e l’incondizionato non sono opposti – questo tipo di dualismo non ha valore. La nostra pratica offre un esempio
d’integrità, di completezza. Si tratta di sviluppare un equilibrio armonioso con il quale possiamo rispondere agli imprevisti in modi diversi, appropriati alla particolare situazione del momento. Non è definibile in senso stretto in termini di condotta morale come: retto sostentamento, retta comprensione, retta azione, retta parola, che è quello che leggiamo sui libri. Si tratta di avere la capacità di rispondere alle condizioni presenti al momento, con discernimento: questa è la retta comprensione, o sammā-ditthi.
E’ molto importante vedere come si abbia la tendenza a rendere assoluti gli estremi delle nostre esperienze. Prendete il paradiso e l’inferno: il paradiso diventa un estremo e l’inferno diventa un estremo. Lo stesso è per vero e falso, giusto e sbagliato, buono e cattivo. Anche il linguaggio religioso può seguire tale tendenza: “la mia religione è giusta e se tu non sei d’accordo, allora la tua religione è sbagliata”. Questo è uno dei problemi che il mondo si trova ad affrontare: ogni individuo determina e rende assoluti estremi e condizioni.
Praticare la Via di Mezzo
La Via di Mezzo è importante, ma quello che conta veramente è la pratica,patipadā. Majjhimā patipadā, essere presente qui ed ora, con le condizioni di cui si fa esperienza; cioè osservare qui, essere consapevoli qui. Può sembrare che si diventi dei freddi osservatori. Così che quando le persone dicono: “sei meraviglioso” o “sei terribile”, si rimane in uno stato d’indifferenza superiore nei confronti della lode e del biasimo. Praticare la presenza mentale, però, non significa che possiamo pensare di essere subito oltre i dhamma mondani e di non averci più niente a che fare.
Mentre sviluppiamo la pratica della presenza mentale, scopriamo che cominciamo ad agire con spontaneità e saggezza piuttosto che dal nostro punto di vista personale su quello che è giusto e sbagliato, o su quello che dicono gli altri, o quello che vuole la società. Ad esempio, potremmo cominciare a osservare come diventiamo coscienti di quello che pensano gli altri: se ci apprezzano o se ci biasimano. E’ per paura che cerchiamo di agire in modo da essere apprezzati dalla società e non per comprensione o saggezza. Ci preoccupiamo di non offendere nessuno o di non dire cose sbagliate, o di non creare problemi. Preoccuparci sempre di quello che pensano le altre persone significa esperire continuamente disagio, e questo si può vedere quando s’impara a osservare la propria mente.
Quando diventiamo veramente consapevoli della nostra preoccupazione per quello che pensano le altre persone, possiamo percepire che ciò che è consapevole di questo non è un dhamma mondano. La consapevolezza conosce i dhamma mondani, ego e senso del sé, giusto e sbagliato, bene e male. Questa intuizione sulle Nobili Verità, infine, ci dà sammā-ditthi. La presenza mentale ci porta ad una relazione armoniosa con i fenomeni condizionati e questo significa che qualsiasi cosa esperiamo con consapevolezza può essere visto per quello che è. La nostra risposta, quindi, è appropriata al tempo, al luogo e alle persone con le quali ci troviamo.
La via di fuga
Evadere dal nato, dal creato, dal formato, dal condizionato, quindi, è presenza mentale. E’ la via di fuga che porta al non nato, al non creato, al senza forma, all’incondizionato. Non ha qualità – non è qualcosa che si può provare scientificamente – dobbiamo conoscere da noi stessi. E’ una consapevolezza intuitiva. La terza delle Quattro Nobili Verità è il riconoscimento della cessazione dei fenomeni condizionati. In altre parole, per far in modo che le condizioni cessino, le dobbiamo lasciare andare, poiché tutte le condizioni nascono o sono create, sorgono e se le lasciamo stare, fanno quello che devono fare, e poi si estinguono. In altre parole ciò che sorge, cessa. Noi siamo gli osservatori della loro presenza o della loro assenza. Questo è un livello di consapevolezza che non è bloccato o ostacolato da attaccamento o ignoranza.
La consapevolezza è un’abilità intuitiva; essa vede qual è il modo per non creare sofferenza dalle condizioni che esperiamo nel corpo o nella mente condizionata. Il non nato, il non creato, il senza forma, l’incondizionato e il nato, il creato, il formato e il condizionato non sono opposti tra loro – ognuno di essi contiene in sé il suo contrario. Senza questo fondamento, saremo vittime senza speranza del condizionamento e non potremo fare assolutamente niente. Saremo programmati all’inizio della nostra vita e continueremo ad agire come un computer finché qualcuno non cambierà il programma o finché le batterie non si scaricheranno.
Il desiderio
Con la presenza mentale si può vedere il desiderio. Il mondo in cui viviamo è un reame di desideri; è una forma di desiderio – la sua natura è desiderio. E’tanhā, e cerca sempre la rinascita. E’ qui che, studiando il paticca-samuppāda (l’originazione dipendente), cominciamo a vedere come, finché c’è avijjā(ignoranza), la nostra tendenza rispetto ai desideri sia quella di lasciarci prendere da questi e di cercare sempre la rinascita. Quando siamo annoiati o delusi vogliamo qualcosa che sia piacevole; desideriamo rinascere in una sensazione che sia piacevole o entusiasmante, sia essa mentale o emotiva. Questa è una forma di rinascita; il desiderio di andare verso un grembo, qualcosa in cui rinascere.
L’insegnamento buddhista porta a conoscere il desiderio, non a rifiutarlo o scacciarlo. Non si tratta di condannare il desiderio perché è un male, o di conquistarlo né di sbarazzarcene. Poiché siamo esseri umani, abbiamo forme di desiderio e il nostro è un reame del desiderio. Le cose stanno così. Il desiderio, per esempio, è il condizionamento che dà la motivazione alla procreazione della specie e stimola anche molte altre attività. L’unico modo possibile per riconoscere la realtà del Senza Morte è attraverso la presenza mentale. L’immortale non lo possiamo creare e non è qualcosa che è al di fuori di noi e che quindi va ricercato fuori di noi. Praticare significa riconoscere tutto ciò, svegliarsi e osservare. Provando solamente a immaginare la realtà del Senza Morte e ricercandola in tal modo, la perdiamo, perché non ne siamo ancora consapevoli.
Realizzare il Dhamma
Quando si coltiva la presenza mentale, si comincia a discernere in situazioni ordinarie, non solo quando si è in un ritiro di
meditazione. Questa capacità di discernere, una volta che la riconosciamo e l’apprezziamo, diventa autosufficiente. La volontà ferrea richiesta nella pratica strutturata, inizia a svanire. Quello che rimane è la consapevolezza e la relazione con il vipakka-kamma (il risultato delle azioni intenzionali precedenti) di cui facciamo esperienza nel momento presente, di qualsiasi cosa si possa trattare.
Quando il Buddha, al momento della sua illuminazione, realizzò il Dhamma, all’inizio pensò: “Nessuno potrà capire questo, perché si tratta di conoscenza intuitiva”. Come si può insegnare a qualcuno l’intuizione? Come si definisce? Le parole in sé sono così limitate; si esprimono attraverso degli estremi. Si rimane incastrati nei propri pensieri e nei propri punti di vista, fortemente condizionati nel vedere le cose con un atteggiamento dettato dal punto di vista culturale o dal kamma personale. Nel film Il piccolo Buddha, c’erano scene fantastiche del Buddha (prima dell’illuminazione) seduto sotto l’albero della bodhi mentre gli apparivano diverse tentazioni meravigliose, mostruose, terrificanti, che abbracciavano tutta la gamma di paure e desideri. Le forze di Māra dicevano: “Chi sei tu che siedi sotto l’albero della bodhi, chi credi di essere? Vieni fuori da lì!”. Allora Tarani, la Madre della Terra, si fece avanti e disse: “Lui ha il mio permesso, può stare in questo posto di illuminazione”. Poi dai suoi capelli uscì un flusso d’acqua che spazzò via le apparenze, e l’asceta Gotama poté così riflettere.
Quando divenne illuminato, apparve un’altra divinità che invitò il Buddha ad insegnare il Dhamma, “poiché ci sono coloro i quali hanno soltanto poca polvere negli occhi”. Questo è alquanto importante perché non è una cosa facile insegnare il Dhamma. E’ molto facile farsi prendere dall’intelletto e aggrapparsi a dogma e posizioni religiose. Così, quando leggete il primo discorso del Buddha, che illustra Le Quattro Nobili Verità, osservate l’ingegnosità di quest’insegnamento. Ho un grande rispetto per questo splendido insegnamento, che richiede patipadā – una pratica sincera. Non si tratta solo di una bella argomentazione o del Buddhismo tanto per dire. Si tratta, in realtà, di puntare chiaramente verso una direzione specifica – il cuore.
Guardate il vostro cuore, osservate. Siate gli osservatori, i conoscitori, non la condizione. La presenza mentale è la via di fuga.
Offre questo alla vostra riflessione.
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