Il Dio annoiato

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IL DIO ANNOIATO

di Antonio Bruno

Uno dei fenomeni più interessanti della casistica cosiddetta di “pre-morte”
è ciò che gli studiosi chiamano “conoscenza istantanea”, un’esperienza che
si collega strettamente alla visione retrospettiva dell’intera esistenza,
visione che pare assorbirci completamente al momento della morte.

Lo psicologo Kenneth Ring lo definisce “un fenomeno olografico per
eccellenza”.

Come possiamo ampiamente trovare nell’opera di M. Talbot “Tutto è uno”, non
mancano autorevoli pareri a suffragio di questa posizione.

Grof e Joan Halifax, quest’ultimo medico antropologo ad Harvard, hanno messo
ben in rilievo questo aspetto olografico della visione retrospettiva nel
libro “The Human Encounter With Death”.

Di certo, si tratta di un fenomeno molto vivido, descritto da tutti coloro
che sono “tornati” come oggettivo, “tridimensionale”, al di là di ogni
logica temporale in quanto tutto il contenuto di un esistenza, fin nel più
trascurabile dettaglio, viene portato alla coscienza del percepiente in modo
istantaneo, lucidissimo e perfetto.

Pare che quest’esperienza sia particolarmente comune in coloro che annegano.

Un protagonista diretto racconta: “È come penetrare proprio all’interno di
un film della tua vita. Ogni momento di ogni anno della tua vita è
riproiettato nei più completi dettagli percepibili. Un ricordo assolutamente
totale. E avviene tutto in un istante.”

Un altro dice: “L’intera cosa era piuttosto strana. Ero lì; stavo
effettivamente vedendo questi flashback; stavo veramente camminandovi
attraverso, ed era così veloce. Eppure, abbastanza lento da poterlo
assimilare interamente.”

Non dimentichiamo che l’esperienza di cui stiamo parlando coinvolge anche un
aspetto emozionale nel quale il soggetto non solo rivive tutti gli stati
d’animo che ha vissuto durante l’esistenza ma acquisisce anche la facoltà di
percepire esattamente quelli di coloro con cui ha interagito e di
immedesimarsi in essi fino al punto di trarne un perfetto insegnamento per
“simbiosi”… Il rimorso per il male fatto diviene insopportabile così come
profondamente sollevante la gioia per il bene arrecato a chi abbiamo
conosciuto. Come dice Talbot, “sembra che nessun evento sia abbastanza
insignificante da essere trascurato.”

Una visione olografica, quella retrospettiva della vita, che assume una
valenza ancor più eccezionale per l’incredibile contenuto d’informazioni che
la caratterizza.

Spariscono concetti come “giudizio”, “castigo”, “premio”, ma sussiste solo
una grande sensazione di equità, di giustizia. Si sperimenta lo stato di
consapevolezza pura, al di là del quale, probabilmente, c’è la
“liberazione”.

A questo punto, pur essendo io assolutamente inesperto d’informatica, non
posso fare a meno di vedere un interessante parallelismo con quanto accade,
tecnologicamente parlando, ad un qualsiasi computer allorquando lo si
“resetta”. Non so se questo sia il termine adatto. Forse sarebbe meglio dire
“riformattare”?

Oppure “scaricare l’hard disk”, “intervenire sulla memoria”, “aggiornare il
software”… Insomma, il concetto lo avete capito, penso.

Se il nostro interagire con la realtà è il frutto di un complesso sistema
olografico, pur se infinitamente superiore ai nostri mezzi informatici, non
potrebbe essere, il fenomeno della visione retrospettiva, una specie di
“automatismo” di settaggio?

Non escludiamo, certo, valori aggiuntivi come “personalità”,
“individualità”, “evoluzione”, che, specie per quest’ultimo, sono funzionali
alla prosecuzione di un altro “programma” di vita (potrei dire un altro
hard-disk…) ma, in fondo, il principio sembrerebbe proprio analogo.

Non ignoro di certo che le “certezze” della scienza ufficiale, che spesso
innalza il cervello a semi-divinità, fanno di quest’ultimo la sede e la
causa di tutti i fenomeni similari. Semplicemente la rifiuto. Non
totalmente, perché le scelte radicali sono sempre un grosso errore, ma in
parte sostanziale sì.

Se dovessimo considerare solo il cervello, allora il parallelo con un
computer potrebbe anche calzare perfettamente, però l’essere umano è
corredato di un pacchetto specifico di soggettività che non lo può
accomunare ad una qualsiasi macchina. Le macchine non hanno il libero
arbitrio, e questo è fondamentale.

Non credo che le nostre scelte siano programmate, pertanto il discorso si fa
molto intrigante: da un lato abbiamo un fenomeno che sembra suggerirci tutte
le caratteristiche di un evento “tecnologico”, per quanto estremamente
sofisticato (l’ologramma “è” tecnologia); dall’altro, non possiamo
dimenticare tutte le implicazioni che derivano dalla consapevolezza
dell’esistenza di una libertà di fondo che non credo essere solo pia
illusione.

Qualcuno potrebbe obiettare che anche il libero arbitrio, o l’illusione di
esso, faccia parte del “software”. A tale obiezione non ho risposte
definitive da contrapporre. Per il momento mi basta la certezza di essere
un’individualità singola e “libera”, per quanto già condizionata da
un’infinità di fattori circostanti inevitabili (ambiente, famiglia, società,
patrimonio genetico, ecc.). Inoltre, la mia “attuale” logica mi porta a
considerare che, se tutto fosse programmato, anche le nostre scelte,
l’esistenza di tutti noi, l’esistenza di ogni cosa, diventerebbe noiosissima
ed insignificante.

Che genio sarebbe colui che costruisse un complicatissimo gioco che non
conceda alcuna possibilità all’imprevedibilità?

Se Dio è seduto in poltrona a guardarsi un film che conosce già, non lo
invidierei di certo… Anch’Egli non deve sapere il finale, altrimenti…
sarebbe un Dio molto infelice e… annoiato

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