Il fascino del buddismo
(discorso di Raimundo Panikkar)
– parte seconda e fine –
– Gautama, il Buddha –
Il Buddha, chiamato così dai suoi discepoli come colui che ha conseguito la pienezza della buddhi,
della conoscenza, del risveglio, è il principe che ora ha già quasi una quarantina d’anni, forse 38
o 39, quando comincia ad essere seguito da un centinaio di discepoli. Ma egli non vuol fondare una
religione, non vuol fondare fin dall’inizio neppure un ordine monastico, non ha lasciato la casa
paterna per salvare il mondo, non ha voluto discepoli che lo seguissero perché ha qualcosa da dire
loro, egli vuol vivere e ha scoperto una sola cosa: ha scoperto che al mondo c’è dolore; ha scoperto
l’origine di questa sofferenza, ha scoperto che questa sofferenza può cessare e ha trovato la
strada.
E la strada complessa di queste otto dimensioni che portano alla cessazione del dolore, della
sofferenza, all’appagamento di ciò che molte volte è stato tradotto come desiderio, ma che la parola
tanto in pâli quanto in sanscrito vuol dire semplicemente sete; la sete di esistere, la sete di non
esistere, la sete di voler essere perfetto, la sete di voler arrivare da qualche parte,
l’inquietudine di non voler stare nel proprio posto, il desiderio di volere qualsiasi cosa. Ora,
trascendere la volontà, questo non comprese Nietzsche, non è voler non avere volontà. Durante quasi
una quarantina d’anni quest’uomo continua a vivere nelle pianure gangetiche del nord dell’India e
pian piano là gente gli si riunì e gli si raggruppò attorno. Nella tradizione di quei tempi chi
seguiva un uomo spirituale o un maestro si chiamava bhikkhu, monaco, sannyasi, sadhu, rinunciante.
Gôtama parla mentre cammina e i suoi discepoli si impregnano di quello che egli va dicendo: «Così
come il vento soffia davanti e dietro e fa muovere le foglie del cotone, così la vera e inesauribile
gioia mi sta muovendo, e in questa maniera compio tutte le cose». Che vuol dire essere uomo? Essere
uomo vuol dire, secondo quel che ci dirà uno dei suoi discepoli, partecipare al festival gioioso di
tutta l’esistenza. «Il profumo di un fiore non viaggia contro la direzione del vento, ma la
fragranza di un uomo buono va anche contro la direzione del vento; un uomo buono penetra le quattro
direzioni». Egli è molto convinto di quello che in seguito la tradizione commenterà: «ll santo non
lascia tracce, è come il volo di un uccello, non lascia orme. Perciò è tanto difficile seguirlo».
Quest’uomo entusiasma. Discepoli lo seguono da tutte le parti. Anche le donne lo vogliono seguire,
ed egli, che aveva fatto quella eccezione con Sujata, dice di no. Ma Ananda, il monaco più stimato
da lui, dice al maestro che le accetti e allora egli le accetta. Ma non ha alcuna pretesa né di
formare una religione, né di formare una setta, né di riformare il brahmanesimo, né di creare
niente. Vuol vivere la propria vita, non pretende niente, non vuole dare neppure un nome alla sua
comunità che sempre più si va formando.
Quando muore, ottantenne, i discepoli s’accorgono che non hanno un luogo, che non sanno niente, che
niente è regolato. Che cosa è accaduto? Allora, tre mesi dopo la sua morte, 500 anziani convocano il
primo concilio del mondo buddista per vedere che cosa fosse capitato. E restano sorpresi
nell’accorgersi che sì, erano capitate molte cose, che c’era stata una critica feroce alla
spiritualità induista e brahmanica, che si erano costituiti gruppi che vivevano la vita del sangha o
della comunità, che avevano preso spontaneamente come maestro uno che diceva soltanto di aver visto
la realtà delle cose e la differenza che c’è tra loro.
– Nasce il buddismo –
In questo concilio si configurano due partiti. Gli uni sono quelli che cantano e gli altri sono
quelli che stanno in silenzio. Questa è l’origine di quello che in seguito verrà chiamato un
movimento, e che si chiama religione, che porta il nome di buddismo, e che ha, come tutti gli
«ismi», un alto grado di astrazione. Quest’uomo non pretende d’essere profeta, non reclama
nessun’autorità speciale, non si dice inviato da nessuno, evita sistematicamente il nome di Dio e
quando una volta Râdha, un monaco, gli chiede di dire qualcosa di Dio gli dice: «Oh Râdha! Tu non
sai quello che stai domandando, non conosci i limiti della tua domanda, non sai quello che domandi.
Come vuoi che io ti risponda!».
E nasce così quello che oggi noi, con questa facilità che abbiamo di appioppare etichette alle
cose, chiamiamo buddismo o, meglio ancora, tradizioni buddiste, perché ce n’è sicuramente più d’una
dozzina, ognuna con le proprie filosofie. Ma il Buddha non vuole niente di ciò. La sua via mediana
non vuol essere né mondana, né religiosa, nel senso che a quei tempi sintendeva per religione; vuol
essere la via di mezzo, dell’equilibrio, dell’armonia, dell’equanimità, della serenità.
Una madre addolorata lo va a trovare disperata perché sua figlia era morta, volendo un miracolo o
sperando una consolazione. E Buddha la riceve, la guarda e le dice: «Mi accontento di poche cose».
«Domandami qualsiasi cosa!» dice Kisâ Gautamî. «Portami tre granelli dì riso (o una manciata di semi
di senape). Però valli a cercare in quella casa dove non ci sia mai stata alcuna disgrazia come la
tua, dove non ci sia mai stato alcun dolore». E la giovane madre disperata, credendo che la cosa
fosse relativamente facile, se ne va a cercare i tre granelli di riso e non trova casa che la morte
prematura non abbia visitato. E torna dal Buddha dicendo: «Perché io volevo essere tanto speciale,
perché misconoscevo la condizione umana? Perché non mi accorgevo che quello che io stavo patendo
alla mia maniera è quello che ho trovato in tutte le case dove chiedevo un granello di riso? Mentre
io credevo che non ci fosse stato alcun dolore, ho trovato che in tutte le case ce n’è stato.
Grazie!». Più tardi entrò nell’ordine e divenne un arhant.
Senso comune! Non parla di Dio, non parla di religione, non vuol consolare con sentimentalismi, non
dà spiegazioni. I discepoli della seconda generazione che lo seguono sono più intellettuali.
Vogliono dottrina e soluzioni teoriche: Quel che io predico è come il caso di un uomo al quale hanno
tirato una freccia e ora voi mi domandate che io continui la discussione: perché gli hanno tirato la
freccia? E chi erano i suoi vicini? E chi ha visto il colpevole? E dov’è fuggito colui che l’ha
tirata? Tutte discussioni teoriche. E intanto l’uomo ferito dalla freccia è morto, perché in quel
momento l’unica cosa importante era estrargli la freccia dal corpo senza perdere tempo investigando
le cause, domandando le ragioni, inseguendo il colpevole, cercando la giustizia, facendo il
filosofo, cercando soluzioni. Prassi, azione immediata, spontaneità: estrarre la freccia dal corpo
dell’uomo ferito, dal corpo dell’umanità gravemente ferita.
– Nobile silenzio –
Il Buddha parla di silenzio sacro, utilizzando la stessa parola di quando, nel giardino vicino a
Vârânâsi, egli parlava delle quattro nobili verità e del nobile silenzio. Ma il nobile silenzio non
consiste nel tacere perché non si dice tutto quello che si avrebbe da dire o perché si vuol
nascondere il segreto e la pietra filosofale che si è trovata. Il nobile silenzio è silenzio perché
non ha niente da dire, e siccome non ha niente da dire non nasconde niente, né dice niente, né tace,
ma placa le inquietudini che potrebbero sorgere da noi. Se domandiamo perché, è perché cerchiamo di
trovare una risposta, ma questa risposta, a sua volta, genera un altro perché. Finché non
distruggiamo la radice che ci fa domandare il perché, semplicemente finché domandiamo, non sorgerà
la risposta adeguata. Ogni risposta è sempre informazione di seconda mano, risponde ad un problema
che ci siamo formati, risponde a una domanda, non la risolve, non la dissolve, non fa che la domanda
non sorga più.
Il mondo di Buddha è il mondo della spontaneità, della libertà, dell’estrarre la freccia senza
chiedersi il perché, non perché non ci sia, ma perché qualsiasi domanda è un modo di far violenza
all’esistenza, è domandare quel che c’è dietro, è fare quel che fanno le bambine quando si domandano
che cosa c’è dentro la bambola e allora la rompono. E questa non è la cosa peggiore, il peggio è che
non giocano più con la bambola che hanno rotto. Quando cerchiamo le cause non lasciamo più che gli
effetti ci rallegrino la vita. Questo è lo spirito del buddismo. Tutto il resto è sorto da
quest’uomo che non voleva niente, che non voleva fondare niente, che non voleva nemmeno riformare il
brahmanesimo.
– Lo spirito del buddismo –
Io ricordo che relativamente pochi anni fa (gli anni 50) a Sarnath, lo stesso luogo dove nacque
questo grande movimento, io domandavo a un monaco hindu, buddista theravada molto amico mio,
(l’editore del Tripitaka in hindi e che in seguito diventò rettore dell’università di Nalanda) come
mai in India non ci fossero buddisti, come mai in tutta l’India, la patria del Buddha, il buddismo
come religione non esistesse più. E il bhikkhu mi guardava e mi diceva: «Ah sì? Non ci sono
buddisti?». E io mi rimangiavo la domanda. Diciamo che non ci sono buddisti perché non c’è gente che
ha firmato per il partito buddista, perché non c’è gente che si dichiara buddista, perché il
buddismo come religione in India non esiste. Abbiamo perduto ormai lo spirito del vero buddismo.
L’India non ha buddisti, secondo le nostre statistiche, e secondo le nostre classificazioni non ci
sono buddisti in India. E l’unico monaco buddista che c’era rimaneva sorpreso che io fossi ancora
tanto stupido da chiedergli se in India ancora ci fossero o non ci fossero buddisti. O si prende sul
serio quello che le tradizioni umane ci dicono dal punto di vista più profondo e più reale, oppure
ne facciamo un’ideologia, un partito politico, o anche una religione. E certamente i buddisti delle
statistiche classificatrici si trovano tutti fuori dell’India, eccetto forse i tre milioni di
neo-buddisti del Dr. Ambedkar, i quali per ragioni sociali e politiche, per superare la schiavitù
delle caste moderne, si stanno convertendo al buddismo, stanno accettando il buddismo come una delle
grandi religioni, per potersi liberare dall’ignominia dei fuori casta e acquistare una certa
identità. Vi si stanno verificando allora conversioni in massa al buddismo, ad un buddismo che
farebbe sorridere anche il Buddha.
È prendendo rifugio nel Buddha , come uno dei tre gioielli (sangha e dhamma sono gli altri due) che
si diventa buddisti. Ma prendere rifugio nel Buddha come ho fatto io, non vuol dire abiurare il
cristianesimo o l’induismo o altro. Perché dobbiamo fare tutto sempre secondo le nostre categorie?
Se l’induismo non ha un fondatore, il buddismo ne ha uno, benché il Buddha non fondi niente, dunque
è piuttosto un simbolo. Egli che sorride quando gli si porge una domanda, egli che tace quando
qualcuno fa una cosa cattiva.
– L’essenza del buddismo –
Il Buddha ormai vecchio si trovava nel nord dell’India; lascia l’India centrale perché ha sentito
dire che alcuni fratelli maltrattavano e disprezzavano un monaco che aveva preso una malattia
repellente. Gôtama va laggiù, lo cura, e poi dice ai monaci: «Monaci, a me mi avreste curato! Quello
che fate a qualsiasi uomo, lo fate a me». Questo succedeva più di quattro secoli prima che alcune
parole simili fossero state pronunciate da un giovane rabbi di un’altra tradizione! Parlare dunque
del buddismo implica parlare con una certa devozione. Il Buddismo non permette di farne soltanto
un’ideologia, di spiegarne soltanto alcune dottrine, siano di filosofia o di logica. C’è tutta
un’ideologia buddista, indiscutibilmente, ma lo spirito, incluso quello del più acuto forse di tutti
i logici della tradizione buddista, Nâgârjuna, è sempre guidato da ciò che lui stesso dirà che è
l’essenza del buddismo. Così come l’induismo non ha essenza, il buddismo ne ha una, e secondo la
tradizione mâhâyanica si può riassumere in una sola parola, parola difficile da tradurre e ancor più
difficile da praticare: Mahakarunâ, la grande compassione, cum patire, patire insieme con tutte le
cose che esistono, senza far discriminazioni di alcun tipo.
Scoprire il pathos della cosa stessa e condividerlo. Sunt lacrimae rerum, diceva Virgilio.
Mahakarunâ, la grande karuna, la grande compassione, è dove la tradizione mâhâyana ha riassunto
l’essenza del buddismo, ma per una ragione: non per lasciarmi sofferente, ma perché io ho realizzato
le quattro verità fondamentali e so che c’è sofferenza, che questa sofferenza ha un’origine, ma che
può cessare, e che c’è una via per uscirne. E per questa cessazione la tradizione buddista usa la
stessa parola classica di tutto lo yoga. Buddha utilizza la parola nirodha, la cessazione del dolore
corrisponde alla cessazione della corrente mentale, del fiume di pensieri, della TV interna che ci
distrae e non ci permette di fruire della verità della vita. Yogas citta vrtti nirodhah dice il
secondo degli Yogasutra di Patañjali: yoga è la cessazione dei processi della mente.
Qualsiasi approssimazione al buddismo che non arrivi a toccare queste fibre della compassione
universale, di rinunciare, come diranno i bodhisattva, alla mia salvezza personale in favore di
tutti gli esseri viventi che ancora forse hanno bisogno del mio aiuto, non ha capito niente di quel
che voglia dire il buddismo. Un grande arhant (e qui stiamo dentro l’ironia delle due grandi
tradizioni buddiste), avendo compiuto la propria vita terrena sale al nirvâna, al cielo meritato, e
il suo grande desiderio è di vedere il maestro e di sapere dove il maestro vive. E sale per tutti i
cieli del nîrvâna, e si potrebbero descrivere le apsara , le ninfe e le cose preziose che trova,
fino ad arrivare al settimo cielo. Qui le porte sono aperte e grida e cerca, perché vuole vedere
Gôtama, il Buddha. Non lo trova e grida, ed esce un’apsara, esce una ninfa, una fanciulla che lo
guarda tutta stupita.
Egli le dice: Cerco Sakyâmuni, l’Adhibuddha. Essa gli risponde: «Ma tu non sai quel che cerchi, il
Sakyâmuni, il vero, il Buddha non è mai venuto qui, è sempre rimasto tra gli uomini e ci rimarrà
finché l’ultimo essere senziente non sia arrivato al nirvâna».
Il posto del Buddha è tra coloro che soffrono, tra gli uomini. La grande compassione che fa sì che
si possa essere un bodhisattva, fa che si rinunci alla propria salvezza per collaborare col resto
degli esseri viventi alla liberazione dell’universo. Il voto del bodhisattva che fa il monaco della
tradizione mahayâna, dopo cinque anni di preparazione come minimo, è la rinuncia a qualsiasi
beneficio e merito personale, di non farci caso e di non capitalizzarlo, finché l’ultimo essere
vivente non arrivi alla propria pienezza. E quando si vuol costruire tutto un sistema filosofico
quel che si vuole è sbancare tutta la forza della logica per dimostrare, logicamente, che qualsiasi
costruzione intellettuale, distrugge se stessa quando si vuol formulare. Questo è lo spirito del
buddismo.
Questa campanella, di origine buddista, perché i buddisti sono stati i primi ad utilizzare le
campane, mi ricorda che devo terminare.
Grazie.
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