RAPHAEL
Il Fuoco dei filosofi. Risveglio a verità Tradizionali.
Edizioni Ashram Vidya, via Azone 20. 00165 Roma.
L’UNO-MOLTI
Si sente parlare spesso dell’unità della vita, non solo in termini spirituali, ma persino
scientifici: ci viene detto che la complessità e la differenzazione delle forme materiali nascono da
una stessa sostanza; un atomo fisico differisce da un altro solo dalla quantità degli
elettroni-protoni. Ma, per quanto questa verità ci sembri un’evidenza, tuttavia ci si accosta alla
vita, e quindi ai vari rapporti di ogni ordine e grado, in termini di dualità, di differenziazione e
di opposizione sostanziale.
Eppure, teoricamente, nessuno ben pensante ammetterebbe che due individui sono di natura opposta e
separata in modo da ritrovarsi due assoluti; d’altra parte, se fossero tali in che modo potrebbero
comunicare? Le religioni sostengono che siamo figli dello stesso Padre. La scienza, abbiamo visto,
accetta l’unità della vita; la visione ecologica ritiene che tutti gli enti siano interrelati e non
distinti in assoluto, così da riconoscere l’interdipendenza dei vari regni di natura, compreso
l’umano.
A questo punto possiamo chiederci: l’aspirante filosofo alla realizzazione, in che modo intende
l’unità dell’essere, di brahman, di Dio? I nomi hanno poca importanza, é importante invece capire
ciò che i nomi sottointendono; l’essere, Dio, brahman, ecc., non possono essere molteplici; più
iddii si escluderebbero a vicenda. Né, possiamo ammettere che tra l’essere e lo stesso mondo possa
esserci dualità assoluta. Parlare di mondo e di Dio significa sempre riportare il tutto all’unità
divina, per cui tra Dio e l’ente, qualunque esso sia, non v’é alcuna distanza e dicotomia. Dire
ancora che una cosa é Dio e un’altra l’ente, o i suoi prodotti, significa proporre una dualità
assoluta inaccettabile: l’uno deve pur derivare dall’altro; inoltre, il vivente, perché effetto, non
può non avere la natura della sua causa, e ciò esclude la diversità e l’opposizione.
Non si hanno effetti che non siano potenzialmente nella causa. Il ghiaccio non é che acqua
condensata. L’aspirante Filosofo, dunque, pur proclamando l’unità dell’essere, può ritrovarsi nel
piano pratico a vivere la molteplicità e la differenziazione, spesso anche l’opposizione, la
contrapposizione inconscia.
Ma che cosa si vede nell’altro per contrapporsi e creare una dualità conflittuale? Posto quanto
sopra, dovremo però avanzare una considerazione: se guardiamo il problema con l’occhio empirico
dovremo anche riconoscere che i molti esistono, la differenziazione sembra essere un’evidenza alla
nostra percezione, per cui tale considerazione va a contraddire quanto abbiamo affermato sull’unità
dell’essere. Insomma, ci troviamo con un problema abbastanza difficile e bisognerà meditare per
poterlo risolvere; alla nostra ragione esso non può non sembrare anomalo e contraddittorio: da una
parte affermiamo l’unità, dall’altra supponiamo anche la dualità-molteplicità.
Il problema dell’uno e dei molti é stato posto per primo da Platone, ma anche le Upanisad l’hanno
proposto, anzi alcuni sutra della Mandukya Upanisad sembrerebbero offrire qualche filo conduttore al
nostro discorso.
La spiegazione circa la nascita é questa: il Sé é considerato esistente, sotto forma di anime
individuali, alla stregua dello spazio-etere esistente nelle brocche; quindi il Sé esiste nella
forma delle cose composte proprio come lo spazio-etere esiste nelle brocche, ecc.
Con l’etere confinato entro le brocche, ecc., si fonde completamente quando avviene la
disintegrazione delle brocche, ecc. (nell’etere illimitato), così i jiva si fondono nell’atman.
(Gaudapada, Mandukyakarika).
Dalla meditazione di questi sutra possiamo ricavare una sequenza di indicazioni che potremmo esporre
nel modo seguente:
1. Abbiamo l’etere e abbiamo le brocche o i vasi.
2. Che cos’é l’etere e che cosa sono i vasi.
3. Che cosa possono rappresentare i vasi nei confronti dell’etere.
4. Etere e vasi sono una dualità assoluta?
5. Quale può essere il loro giusto rapporto?
6. L’etere può sussistere senza vasi e i vasi senza etere?
L’Upanisad ci suggerisce che in ogni vaso-brocca esiste un’entità chiamata etere, quindi Spirito,
Anima, atman, nous; come prima si accennava, i termini contano poco. Inoltre, il testo evidenzia un
fatto molto importante, vale a dire che l’etere di un vaso é della stessa natura dell’etere fuori
dal vaso. Ciò implica che l’etere di una brocca é identico all’etere delle altre brocche, oltre a
essere indistinguibile dall’etere universale che trascende sia l’etere nel vaso sia lo stesso vaso.
In altri termini, l’Upanisad ci fa capire che v’é una sola realtà etere che pervade i molteplici
vasi dal momento che, come sopra abbiamo potuto notare, l’etere entro il vaso é della stessa natura
di quello fuori del vaso.
Secondo la visione delle Upanisad, possiamo considerare la brocca una finestra tramite cui l’etere
manifestato, o individuato, percepisce un sistema di vita.
Ciò significa che questo etere si serve di un vaso quale strumento, mediante cui opera in un
contesto esistenziale; così, ancora, nei confronti dell’etere, il vaso costituisce un semplice
oggetto, un fattore accidentale di servizio.
Procediamo oltre e accertiamoci se i due aspetti, etere e vaso, sono una dualità. Un vaso-corpo é
sempre un effetto, appartiene al mondo del divenire e del contingente; un vaso-corpo, qualunque esso
sia, nasce ha la sua parabola vitale e poi declina e si risolve nella sua essenza o sostanza
elementare.
Se é un effetto non può essere una ipseità, quindi deve avere una causa: tutto ciò che é
determinato; e quale potrebbe essere questo principio? Nel nostro contesto espositivo ci rimane solo
l’etere, non abbiamo altri elementi o dati, per cui dobbiamo necessariamente ammettere che il
vaso-corpo nasce dall’etere stesso. Dal nulla, dobbiamo riconoscere, nulla nasce. E come fa a
nascere dall’etere? L’aiuto ci viene dallo svolgimento del nostro sogno notturno. Si, proprio il
nostro sogno, quello che facciamo tutte le notti (per quanto sogniamo anche di giorno; non diciamo
spesso: ho coronato il mio sogno? Ma ciò, per il momento, non rappresenta lo scopo della presente
nota).
Prendiamo, dunque, quest’analogia e domandiamoci: chi é chi crea il sogno?
Possiamo rispondere: la nostra mente, la quale infatti ha la capacità possibilità di
manifestare-proiettare il soggetto sognante e anche l’oggetto di sogno fino al punto da esprimere
ciò che essa stessa ha creato. Il sogno, volendo meditare a fondo, é un evento straordinario perché
ci fa capire tante cose. La mente crea gli eventi e, secondo i casi, con essi entra in rapporto di
sofferenza, felicità o indifferenza; può sembrare strano, ma la gioia o la sofferenza, come i
personaggi buoni o cattivi, li crea la mente, siamo noi gli artefici del tutto; eppure in tale
molteplicità di eventi, persone, cose, ecc., esiste l’unità che é la mente, perché questa senz’altro
é una; di mente non ne abbiamo due o tre. Possiamo ancora dire che se la mente é una, il suo oggetto
é molteplice.
Se ci atteniamo a questa analogia, dobbiamo concludere che l’etere-jiva crea il vaso-corpo e in esso
si incorpora, ovviamente con una parte di sé. Nella Bhagavadgita v’é un sutra che dice: “Un eterno
frammento di Me, apparso come anima vivente nel mondo dei mortali… (Bhagavadgita)”. Inoltre, si
afferma che l’intero vaso universale é nato dal Mahat, il Grande, l’Intelligenza universale, per cui
l’Essere, e solo Lui, può dire: l’universo non é altro che il Mio sogno: Plotino, soprattutto nella
quarta Enneade, espone il principio che il mondo sensibile (il Quaggiù) é un prodotto dell’Anima,
perciò possiamo da Quaggiù risalire al mondo intelligibile, là dove é la vera patria dell’Anima.
La parola frammento del sutra non si deve intendere nel senso che l’essere si scinde creando una
frattura in se stesso; l’evento non é altro che uno specificarsi, l’irradiare un semplice aspetto,
un riflesso dell’essere universale, non essendo esso una quantità, ma pura essenza priva di
estensione.
L’Essere-Uno e i molti non sono che due facce della stessa moneta, benché i molti siano dipendenti
dall’Uno. In ogni atomo, in ogni molecola, in ogni cellula di materia vivono nascoste e operano,
senza che altri se ne rendano conto, l’onniscienza dell’eterno e l’onnipotenza dell’infinito.
(Teilhard de Chardin).
Il filosofo Jean Guitton scrive: “Non penso che noi siamo stati creati a immagine di Dio: Noi siamo
immagine stessa di Dio. (Jean Guitton, Dio e la scienza.).” E ancora,” noi siamo: …un po’ come la
lastra olografica che contiene il tutto in ogni sua parte, ogni essere umano é l’immagine della
totalità divina.”
Inoltre, l’apparente molteplicità non é nata nel tempo sotto l’impulso di una progettazione,
programmazione o deliberazione dell’Essere-Uno, come fa l’ente umano che, per eseguire un’opera,
deve prima volere, poi ideare, infine materializzare. Nell’essere atemporale non v’é un prima e un
poi, né un pensare discriminante per esprimere la molteplicità degli enti, ne quindi uno scopo
prefissato. Quando si dice (come si legge in alcuni testi): L’Essere pensò e i molti emersero, quel
pensò può essere fonte di equivoci poiché viene rapportato alla dimensione umana; già nel sogno noi
abbiamo l’immediatezza dell’ente e dell’esistere dei dati proiettati, ovvero del soggetto e
dell’oggetto; possiamo sostenere semplicemente che l’Essere Uno é atto puro nell’eterno presente.
Proponiamo la questione da un’altra angolazione: i vasi-corpi sono dei composti (secondo l’Upanisad
citata), però il composto, qualunque esso sia, presuppone il semplice, o dal vaso all’etere, si
scopre l’unità dell’essere. E poiché le anime particolari (jiva-psiche) sono della stessa natura
dell’Essere Universale, in quanto suo irraggiamento, compito di tutti gli insegnamenti tradizionali
é quello di risvegliare la consapevolezza animica all’identità con quello, o di riportare il
riflesso coscienziale alla sua Fonte.
Ecco il riassunto della tesi: le anime derivano da una sola e queste molte anime, derivate da una
sola, come l’intelligenza, sono divise e indivisi; l’Anima che sussiste é l’unica parola
dell’intelligenza e da essa derivano parole particolari e immateriali, come é lassù (mondo
intelligibile). (Plotino, Enneadi).
Dunque, non si può parlare di dualità assoluta, come non si può dire che il soggetto e l’oggetto di
sogno sono dualità, nascendo essi dalla medesima matrice che é la mente, come la molteplicità
universale nasce dalla stessa e unica matrice divina. Comunque, una dualità apparente potrebbe anche
sussistere qualora, per esempio, nel sogno la mente dimenticasse che il soggetto e l’oggetto sono
suoi prodotti, oppure, il che é lo stesso, si identificasse con il sogno duale fino al punto da
oscurare se stessa. L’etere entro il vaso, per il suo libero arbitrio, può concepirsi totalmente
vaso tanto da dimenticare d’essere etere e, nello stesso tempo, creatore del vaso.
Però, é pur sempre una dualità apparente; diremo che é una dualità prodotta dall’ignoranza (avidya).
Si ripropone, come si può notare, il mito di Narciso o l’oblio di sé della dottrina platonica.
Notiamo che così non c’é più un giusto rapporto tra causa ed effetto, tra etere e vaso; i valori
vengono successivamente alterati e capovolti: un corretto rapporto tra sognatore e sogno avviene
quando il sognatore riconosce prima di tutto la sua natura, poi la natura del sogno e quella del
sognato (e la vidya, conoscenza tradizionale, cerca proprio di scoprire la natura profonda
dell’essere più che quella del fenomeno); solo allora può rendersi conto della sua totale
possibilità creativa di poter manifestare sogni notturni o diurni confacenti alla sua volontà o,
addirittura di non sognare, essendo il sogno dipendente da lui, non lui dal sogno: l’effetto dipende
dalla causa e non viceversa, abbiamo visto. Quindi, egli può risolvere qualunque sogno che ha potuto
proiettare perché é suo e di nessun altro. Da quanto abbiamo esposto, possiamo concludere che esiste
un solo etere onnipervadente (Nient’altro é o sarà all’infuori dell’ov, dice Parmenide) e molteplici
vasi, di fogge, qualità e grandezze diverse; così, se guardiamo con l’occhio del vaso, perché
identificarsi con esso, vediamo molteplicità, con tutte le conseguenze che ne derivano; se guardiamo
con l’occhio dell’etere osserviamo l’unità, to ev, e solo l’unità, sia con gli eteri entro i vasi,
sia con l’etere trascendente o fuori dei vasi.
Queste sono anche le due vie (odos) di Parmenide: quella che porta alla verità e quella che porta
all’errore; una cosa é vedere con l’occhio dell’intelletto (nous), per cui si svela l’ov (il ciò che
l’essere), e un’altra cosa é vedere con l’occhio fisico i npayuata; in altri termini il divenire
delle cose che non sono, o le rappresentazioni che ci facciamo degli intelleggibili.
E ancora Platone: …ed ebbi paura che mi accecasse l’Anima guardando le cose con gli occhi
sensibili e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. Perciò, al contrario, ritenni
necessario rifugiarmi nei yoyot e considerare in essi la verità delle cose che sono (twov ovtwv)
(Platone, Fedone). Saranno dunque nomi (ovoua) tutte le cose che i mortali hanno stabilito, convinti
che fossero vere… (Parmenide).
Ciò ci porta a una considerazione di estrema importanza: tra il soggetto e la sua proiezione, non
essendoci alcuna reciprocità, si esclude la concezione panteistica dell’Essere. L’Essere é uno; i
molti, visti dall’uno, sono solo apparenze, nomi i quali, benché partecipino della realtà
dell’Essere, non sono l’Essere. Noi non accettiamo l’affermazione di alcuni che considerano l’Essere
di Parmenide di natura panteistica. Quando l’anima volge l’attenzione al particolare, essa si
particolarizza …anzi, diventa l’oggetto stesso… e si lascia formare dall’oggetto contemplato,
ciò comunque non é assoluto …non si deve parlare di alterazione quando, pensando, si passa dagli
intelligibili: i due aspetti sono una cosa sola. (Plotino, Enneadi).
Se riconosciamo che tutto il sensibile , o il mondo dell’esperienza, é l’espressione dell’anima
universale o dell’intellegibile di cui l’anima universale o dell’intellegibile di cui l’anima umana
é un momento coscienziale, allora per ritornare alla fonte dovremo: A: prendere consapevolezza della
nostra autentica natura ; B: disidentificarci dal sensibile corporeo; C: creare l’identità con
l’intelligibile o fonte universale, il che avviene per via naturale, se si opera la separazione; D:
mettere al giusto posto il sensibile e, volendolo esperire (non che ciò sia necessariamente
ineluttabile), considerarlo semplice mezzo e non fine, evitando così di assolutizzare ciò che non é
assoluto.
L’anima universale, rimanendo in se stessa, crea, mentre le cose create le vanno incontro, ma le
altre anime (procedono) verso le cose e si allontanano così nell’abisso ; oppure la loro parte
maggiore vien tutta giù verso il basso e coinvolge con sé anche le anime con i loro pensieri nelle
regioni inferiori.
Il Mahat, assimilato al Brahman saguna (o isvara) del Vedanta, é l’intelligenza (nous) universale
descritta da Plotino o il mondo delle Idee di Platone; con nomi diversi si dicono le stesse cose. Il
brahman saguna rappresenta il corpo causale universale il quale costituisce il seme principale che
dispiega le molteplici possibilità espressive dell’intera manifestazione. Come nel seme di una
pianta v’é perfetta unità nella varietà delle sue determinazioni, così nell’intelligenza-Essere vi
sono le indefinite modalità di prospettarsi dell’unità dell’indivisibile. Il Mahat, pensiero divino,
non é scisso dall’Essere le idee di Isvara non sono altro che lo stesso Isvara sotto la prospettiva
dell’identità; esse non sono un prodotto, frutto di riflessione progettuale, ma sono connaturate al
suo universale essere poiché in esso sono contemporaneamente presenti e attuali in quanto
rappresentano l’intelligenza nella sua totalità.
La manifestazione dei viventi si genera dall’interno verso l’esterno del corpo causale (per quanto i
due termini possano ingenerare fraintendimenti) per un atto spontaneo e immediato senza necessità di
alcun secondo, come le determinazioni di un seme si generano dallo stesso seme in quanto suo
spontaneo sviluppo. Siva, Visnu e Brahma (la Trimurti indù) non sono altro che princìpi espressivi
di Isvara: é sempre Isvara sotto l’aspetto di sviluppo, maturazione della natura e reintegro di
questa nel suo seno; é la sua parte sensibile, non-essere o divenire che, comunque, non é uscita
dalla sua aura, non essendoci in esso concetto di spazio. Spazio e tempo sono rappresentazioni di
riferimento dell’ente singolo che, non potendo abbracciare immediatamente col suo strumento
dianoetico quella totalità di cui nel suo principio inconscio é parte, per necessità deve esperire
un dato per volta.
Il mondo di Isvara rappresenta l’Uno-molti del Parmenide di Platone, come l’Uno-Uno o Uno-Bene,
privo di determinazioni, é identico al Brahman nirguna del Vedanta (nirguna, privo di qualificazioni
o determinazioni). Isvara, dunque, in quanto unità differenziazione, si risolve nel Brahman nirguna
o Turiya perché non é assoluto, come l’Uno-molti di Platone si risolve nell’Uno-Uno o Uno-Bene. Da
questo quadro possiamo dedurre le seguenti identità: Essere = Intelligenza = tutto il vivente.
L’essere é quindi identifico al tutto e a ciascuno in particolare, perché la differenziazione é
contenuta in esso quale Unità indivisibile o, ancora, l’essere é il fondamento metafisico del
sensibile fenomenico formale. Così come ci fa comprendere Parmenide, se si vuole Conoscenza o vera
scienza delle cose bisogna cogliere quel fattore primo che fa sì che le cose siano, occorre
riconoscere, nella molteplicità dei fenomeni quell’é per cui il fenomeno appare. Il divenire, o il
mondo dei nomi e delle forme, é pensabile solo postulando l’unità e ciò é stato riscontrato persino
nella fisica moderna. Il filosofo realizzato é colui che ha saputo reintegrarsi nell’etere-essenza
per cui non vede altro che unità, mentre il filosofo non realizzato é colui che vede con l’occhio
del vaso-corpo scoprendo perciò la molteplicità, la quantità, la contraddizione, l’opposizione, la
lotta e il male. Il liberato da che cosa si é liberato se non dalla falsa rappresentazione della
molteplicità, della verità, come la chiama Kant o del diverso (oatepov) secondo il nostro Platone?
Tra i due enti, Liberato e non liberato, non v’é altra differenza, sebbene non di poco conto per le
enormi implicanze che necessariamente ne derivano.
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