di Antonio Bruno
Il mito del Graal e della sua ricerca compongono un binomio inscindibile che, essenzialmente, è un
percorso iniziatico.
Tutto, in questo percorso, va interpretato con una doppia chiave. Quella che potremmo definire
“storica” (ma qui storia e leggenda appaiono irrimediabilmente destinate ad intrecciarsi) ci dice
che il Graal era in origine uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, ovvero il suo “terzo
occhio”. Lo possedette, quindi, Adamo; ma anch’egli, a causa della sua trasgressione, lo perdette e
rimase in un luogo sconosciuto fino a che non fu dato a Seth di ritrovarlo. Il percorso di questo
sacro oggetto di straordinaria potenza ci porta dunque fino ai tempi di Cristo, dove, però, lo
ritroviamo sotto forma di calice. Lo stesso Redentore lo usò nella Cena e fu lì che, poco dopo,
Giuseppe d’Arimatea ne raccolse il sangue. Da allora, la connotazione mistico-esoterica del Graal
sarà quella di “Cuore di Cristo”, a cui molti studiosi hanno associato anche il significato di
“Centro del Mondo”. Da questo momento, il percorso del Graal s’intreccerà con un simbolismo sempre
più iniziatico, direi quasi alchimistico, se per alchimia intendiamo l’opera trasformatrice dello
spirito umano.
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo portarono il Graal in Gran Bretagna, e non dobbiamo dimenticare che,
mentre Giuseppe rappresenta il potere temporale, Nicodemo, secondo l’interpretazione di alcuni
studiosi come Dominique Viseux, è il simbolo della potestà spirituale. L’ultimo dei figli di
Giuseppe d’Arimatea fondò, sposandosi con la figlia di Nasciano, che si dice discendente da Re
Salomone, la dinastia dei cosiddetti “Re Pescatori”, ovvero dei guardiani del Graal. Ma, a questo
punto, l’invidia che possedette lo spirito di Mordrain, cognato di Nasciano, creò scompiglio
nell’ordine stabilito e sfidò l’interdizione divina che proibiva la profanazione del Graal. Si dice
che, in seguito a questo, un angelo perforò entrambe le cosce di Mordrain, che da allora si chiamò
“Re Mèhaignè”, cioè “Re Ferito”.
Costui, venuto a conoscenza che la sua guarigione sarebbe dipesa solamente dalla venuta del “miglior
cavaliere del mondo”, attese così questo salvifico arrivo. Ed è qui che iniziano i cosiddetti “Tempi
Avventurosi”, che si identificheranno, d’ora in poi, con la più conosciuta saga del Graal di
impronta medioevale. Vediamo, quindi, che il tema del Graal fa parte di un substrato antecedente il
ciclo arthuriano e che è più specifico del patrimonio spirituale e magico dei Celti e della
tradizione bardica.
I cavalieri che, d’ora in poi, cercheranno il Graal, avranno come meta anche la Dama, ovvero un
principio femminile purissimo detentore e rivelatore della Vita. Dama e Graal, dunque, possono anche
fondersi in un unico obiettivo di ricerca e, come ci ricorda nuovamente Viseux, rappresentano
rispettivamente il mentale e la volontà.
L’autore così dice:
“Mentre il Sé immortale si comporta come un’unità indissolubile, l’io mortale è composto o
giustapposto ad una legione di esseri elementari corrispondenti agli ‘involucri’ dai quali l’essere
deve liberarsi. Questo fatto è espresso in modo particolare nella composizione della corte di Artù
con la quale si confrontano regolarmente i cavalieri della Cerca.”
In effetti, la corte di Artù è uno specchio delle debolezze e delle virtù proprie dell’essere umano
ed è un ambito ideale di confronto e rapporto a cui coloro che intendono cimentarsi nella Cerca
devono porre attenzione.
Se Re Artù rappresenta l’Essere nella sua totalità e realizzazione, la sua regina, Ginevra, incarna
la Dama per eccellenza, colei che interpreta in prima persona le doti e le caratteristiche precipue
della “verginità” rivelatrice di vita. Viene poi Galvano, il nipote del re, rappresentante delle
virtù cavalleresche e delle migliori connotazioni di lealtà che l’uomo può esprimere; Keu, o Kay, il
siniscalco perfido, roso dall’invidia e dalla maldicenza, vittima egli stesso dello spirito
sarcastico che “paralizza l’Essere e frena la sua realizzazione”; Sagremor, lo “sregolato”,
rappresentazione dell’impulsività e dell’imprudenza: tutto ciò che egli intraprende è destinato a
fallire; i fratelli di Galvano, nipoti essi stessi di Artù, sono tre e rappresentano le tre
differenti tendenze dell’Essere, ovvero le superiori, le intermedie e le inferiori. I loro nomi
sono, rispettivamente Gaheriet, Guerrehes e Agravain. Ed ecco il figlio adulterino di Re Artù,
Mordred, l’opposto del Re stesso, il traditore, il distruttore.
Nel simbolismo cristiano lo si può paragonare a Giuda.
Nel simbolismo arthuriano abbiamo, poi, un nemico “esterno” di cui si parla sempre e verso cui si
deve sempre stare all’erta. La sua raffigurazione è quella classica del “cavaliere nemico”; questo
difetto è l’orgoglio.
Difetto per eccellenza, l’orgoglio è ritenuto luciferino, poiché è l’unico che si opponga realmente
ad ogni vero progresso dell’Essere. Sant’Agostino dice dell’orgoglio che “Gli altri vizi si
applicano al male perché lo si faccia; solo l’orgoglio si applica al bene, perché questo perisca”.
In conclusione, possiamo ritenere che la nostra vita, qualora ci si ponga alla ricerca di un
perfezionamento interiore che sia anche ricerca del Sé, trovi nel Graal il simbolo assoluto della
perfezione e dell’autorealizzazione mentre nella corte di Artù la vetrina delle nostre connotazioni
tipicamente umane, positive o negative, tuttavia accomunate dalla necessità collettiva di respingere
gli attacchi del più pericoloso “cavaliere nemico”: l’orgoglio, antitesi di ogni vera realizzazione,
arma di Lucifero per eccellenza e, forse, eterna condanna dell’uomo.
Proseguendo l’esame della leggenda arturiana nella sua chiave più simbolica, direi sicuramente
“esoterica”, restiamo sulla scia di alcuni studiosi, in special modo di Dominique Viseux, e vediamo
più in dettaglio come, dall’intero costrutto del mito di Artù e della Tavola Rotonda, sia possibile
rintracciare profondi ed archetipali simbolismi.
L’alta torre dell’Usurpatore Vortigern cela, nel sottosuolo, due draghi addormentati quanto
combattivi, uno rosso e l’altro bianco. Essi si danno una battaglia senza tregua fino a che l’uno
muore e l’altro, poco dopo, mortalmente ferito. Le versioni ordinarie di questa leggenda si limitano
a dire che il combattimento dei due draghi rappresenta solo un preannuncio di quello che avverrà più
tardi fra Vortigen, re usurpatore del reame di Logres, e Uther Pendragon; in realtà, i due draghi
rappresentano anche le due nature fondamentali dell’Essere, la positiva e la negativa, e sarà, più
tardi, proprio il personaggio di Lancillotto colui che impersonificherà tale dualità tipicamente
umana. I due draghi, lo ricordiamo, vengono detti “dormire sotto le fondamenta dell’Essere”, e mi
pare che l’espressione spieghi bene quanto più sopra accennato. Nella storia di re Artù, la torre
crolla per ben tre volte e, poiché i draghi dormono sotto le sue fondamenta, mi sembra piuttosto
conseguenziale dedurne che si tratta di una metafora di come l’Essere venga più volte scosso durante
la sua esistenza a causa del dualismo fondamentale che lo compone. Un dualismo, del resto, che in
più ampi ambiti che non quelli individuali, ritroviamo nel medioevo come idea fondamentale del vasto
movimento “ereticale” dei Catari.
L’interpretazione esoterica della leggenda di Artù, in questa fase del suo svolgimento, individua
nel colore rosso un riferimento alla Regalità e nel bianco un riferimento al Sacerdozio, oppure
della “forza” e dello “spirito”. L’unione, tuttavia, si realizza solo attraverso l’annullamento di
entrambi ed ecco che, appunto, la leggenda ci dice che i due draghi perirono entrambi nel
combattimento.
Non sarà inutile, a questo punto, ricordare che la dottrina del Karma postula l’impercettibile
effetto dell’azione, ossia l'”Apurva”, un retaggio che si trasmette di esistenza in esistenza e che
persegue il “Dharma”, ovvero il raggiungimento dell’ordine finale, l’equilibrio cosmico.
Ma veniamo ad un altro elemento della leggenda di Artù e qui ci riferiamo direttamente a
quest’ultimo: il giovane sovrano, per vedersi riconosciuto, deve estrarre la magica spada Excalibur
da una roccia, quasi che, iniziaticamente parlando, ci si debba rimettere ad un giudizio divino in
quanto il simbolismo ci dice che “la roccia” nella quale è infissa “la spada” altro non è se non il
centro primordiale e grezzo dell’Essere, la materia prima. Excalibur, invece, è la volontà di
Conoscenza, atto supremo dell’Essere che vuole affinare il proprio centro scoprendone le
potenzialità. In altre occasioni ritroveremo il simbolismo della spada, come quando la vediamo
sorretta da un braccio femminile che affiora dalle acque.
Ed ecco che, anche qui, l’acqua, come la pietra, assolve alla funzione di “interiorità potenziale”
dell’Essere, simbolo della Materia Prima.
Prendiamo in considerazione, ora, il simbolismo della Tavola Rotonda.
Merlino la istituisce prima di finire egli stesso vittima della seducente e perfida Viviana che gli
sottrarrà segreti e poteri. Ciò che rappresenta la Tavola Rotonda è, a mio parere, estremamente
chiaro.
Viseux dice:
“La grande sala del castello di Artù è una replica dell’Universo e la Tavola Rotonda stessa è
un’immagine della Ruota cosmica. I suoi rappresentanti sono i principi dell’Universo che manifestano
il Verbo nella creazione; sono gli Dei dell’Olimpo, le Idee di Platone, gli Apostoli di Cristo.”
Umanizzando il discorso, come già facevo rilevare altrove, i cavalieri della Tavola Rotonda sono la
rappresentazione delle specificità umane negative o positive ma è importante notare che re Artù,
all’istituzione della Tavola, pronuncia un giuramento significativo: egli giura di non toccare cibo
in un giorno di festa se prima non si sia realizzata al suo cospetto un'”avventura”. È una chiara
rappresentazione del mito della creazione: se il banchetto riporta al simbolismo della Vita, ma
affinché la Vita possa essere consumata è necessario che si produca un “sacrificio”, ossia
un'”avventura”, che, a questo punto, possiamo tranquillamente traslare sul piano simbolico. L’intera
civiltà medioevale, del resto, è permeata del concetto di “avventura”. Essa rappresenta, per il
cavaliere dei secoli tra il X° ed il XIII°, la prova con la quale confrontarsi, la situazione
imprevista di fronte alla quale dimostrare a sé stesso, prima, ed al mondo intero, poi, le proprie
qualità di coraggio, purezza ed ardimento.
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