14 novembre 2014
Le anomalie nei ritmi circadiani influiscono negativamente sulle capacità mnemoniche e di apprendimento. Se però si mette a tacere la struttura cerebrale che regola questi ritmi, il nucleo soprachiasmatico, la situazione si normalizza. In prospettiva, questa strategia potrebbe essere di aiuto ai pazienti con Alzheimer, a patto che si riesca a dimostrare che non comporta altre serie conseguenze indesiderate (red)
lescienze.it
Silenziare il pacemaker circadiano del cervello, la parte dell’ipotalamo, detta nucleo soprachiasmatico, che contribuisce a regolare l’andamento temporale di cruciali processi fisiologici, potrebbe essere un mezzo per rallentare i deficit di memoria associati con Alzheimer e altri disturbi. È la conclusione a cui sono giunti ricercatori della Stanford University che firmano un articolo su “Science”, in cui illustrano i loro studi sui rapporti fra ritmi biologici e memoria.
Quando i normali ritmi circadiani sono disturbati, per esempio a causa del jet lag, anche la memoria e la capacità di apprendimento ne risentono, con una riduzione delle prestazioni superiore a quella che si osserva in una persona stanca per aver dormito un numero insufficiente di ore. Al contrario, i soggetti che, come i pazienti affetti da Alzheimer, soffrono di disturbi della memoria, mostrano spesso anche disturbi del sonno. Queste e altre analoghe osservazioni hanno indotto i biologi a ipotizzare che i ritmi circadiani possano avere un ruolo inaspettato nei meccanismi di fissazione delle memorie.
La ricerca sul coinvolgimento diretto della struttura cerebrale che regola il ritmo circadiano, il nucleo soprachiasmatico, nell’elaborazione della memoria era stata finora ostacolata dalla mancanza di un adeguato modello animale delle anomalie del ritmo stesso. Nei topi e nei ratti di laboratorio non si riscontrano infatti anomalie del ritmo circadiano che emergano in animali adulti integri e anche il silenziamento per via genetica del nucleo soprachiasmatico o la sua eliminazione chirurgica nel topo e nel ratto non comportano significativi deficit nella memoria o nell’apprendimento.
Fabian Fernandez e colleghi hanno ora aggirato questo ostacolo prendendo come modello animale il criceto siberiano (Phodopus sungorus), che ha una caratteristica del tutto singolare: se questo roditore dalle abitudini notturne viene esposto a una fase di luce intensa nel corso della notte per due notti consecutive, i suoi normali ritmi circadiani spariscono del tutto per alcuni giorni.
In questo modo i ricercatori sono riusciti a indurre anomalie nel ritmo dei cicli di comportamento e di espressione dei geni dei roditori, con una parallela compromissione cognitiva e della memoria. L’asportazione del nucleo sopraschiamatico in questi topi “aritmici” ha però ristabilito le funzioni cognitive e della memoria, suggerendo che, affinché i ritmi circadiani anomali interferiscano negativamente con la memoria, devono comunque esserci collegamenti intatti fra il nucleo soprachiasmatico e il resto del cervello.
Ne consegue – osservano Fernandez e colleghi – che, almeno in linea di principio, terapie farmacologiche che disattivino il nucleo soprachiasmatico potrebbero essere utili nel trattamento dei problemi di memoria associati a malattie come l’Alzheimer. Ovviamente, sottolineano i ricercatori, prima che questa prospettiva possa diventare un’opzione clinica sarà necessario studiare attentamente per capire se e quali conseguenze negative potrebbero discendere da una simile terapia.
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