IL LIBRO DEI MANTRA – parte 2
IL RITMO SACRO DELLA PREGHIERA
Testi di Gisella Melluso,
a cura di Luigi Colli e Pier Giorgio Viberti
– SIKHISMO –
Nel passaggio tra l’antico Brahamanesimo e il più moderno induismo, fallito il tentativo dei grandi
filosofi dell’ottavo secolo di estendere a tutto il territorio indiano una riforma che recuperasse
lo spirito delle origini, la figura più significativa fu Kabir (1440-1518). Egli polemizzò contro
l’esteriorità del culto, l’idolatria, le caste, la stessa autorità dei Veda. Con lui prese il via un
movimento che, per iniziativa di Nanak (1469-1538), avrebbe poi assunto un carattere politico.
Dal punto di vista religioso tale movimento mirò a trasformare l’induismo in una sorta di teismo
scevro di pratiche idolatre, che potesse raccogliere, senza distinzioni di caste, i credenti in un
unico Dio. Ben presto all’impulso religioso fece seguito un’organizzazione potente e centralizzata,
che la lotta contro i sovrani mongoli e musulmani trasformò in una chiesa militante. Il decimo guru,
Govind Singh, ne fece una teocrazia militare, dichiarando chiusa la successione dei guru terreni e
proclamando il Granth Sahib, il libro sacro, l’unica guida dei Sikh. Nel loro tempio di Amritsar non
ci sono immagini, e il culto si esprime esclusivamente in recitazioni e canti trattati dai testi
sacri.
Fuori dall’induismo
Per quanto i confini dell’induismo, data l’abbondanza delle sette, a loro volta differenziate
all’interno da un’infinità di varianti, siano estremamente dilatati ed elastici, è difficile dire se
il Sikhismo ne faccia propriamente parte perché, al di là di alcuni elementi comuni come certi riti
privati, l’adesione al panenteismo del Vedanta o il culto del guru (il maestro spirituale), resta
pur sempre messa in discussione l’autorità assoluta dei Veda. E’ invece meno problematico
considerare decisamente esterni all’induismo tanto il Kainismo quanto il Buddhismo, sorti a un
secolo di distanza l’uno dall’altro.
JAINISMO
Questa forma di spiritualità eterodossa rispetto all’induismo nacque come reazione alla dittatura
clericale esercitata dai brahamani sulla vita religiosa degli Indù.
Prese origine dalla predicazione di Parsva (settimo secolo a.C.), ma fu Jina (il vittorioso)
Mahavira, asceta e predicatore errante vissuto un secolo dopo, contemporaneo del Buddha, a
conferirgli una definitiva sistemazione. Anche il Jainismo come il Buddhismo rifiuta i Veda e il
sistema delle caste. Ogni uomo vale non per la sua collocazione sociale, ma per l’esistenza che
conduce. La forma di vita ideale è quella monastica, tanto per gli uomini quanto per le donne,
benché non sia esclusa la possibilità della condizione secolare. Non esiste una divinità suprema,
anzi, più propriamente non esistono gli dèi, ma solo santi, cioè individui che hanno raggiunto la
perfezione. Le anime sono eterne e sottoposte a continue reincarnazioni, fino a quando non sono
riuscite a liberarsi dal peso del karman, che in questo contesto ha il significato di impurità
materiale. Raggiunto l’obiettivo della redenzione, possono godere della beatitudine
dell’Isatpragbhara, il paradiso che si trova al di sopra dei cieli.
Il credo jainista comporta una severa condotta ascetica. I fedeli non ricercano la sofferenza, ma
mortificano comunque la carne astenendosi dal cibo e dall’igiene. Poiché professano un rispetto
assoluto per la vita, anche nei suoi più bassi stadi di evoluzione, badano a non recare il minimo
danno ad alcun essere vivente, e ritenendo forme di vita anche le pietre e l’acqua, non praticano
l’agricoltura.
BUDDHISMO
Le origini del Buddhismo sono da ricercarsi nella predicazione di Siddharta Gautama (o Gotama),
discendente di una nobile famiglia dell’India settentrionale, nato attorno al 560 a.C.
Non ancora trentenne, lasciò la moglie e il figlio per mettersi alla ricerca della verità,
conducendo una vita eremitica. Una notte, mentre era assorto in meditazione, ebbe un’illuminazione,
che costituì il punto di partenza di un’esperienza spirituale privilegiata. Da allora venne detto
Buddha, l’illuminato. Datosi alla predicazione, espose a Benares la sua dottrina, che gli fece
trovare da subito dei discepoli.
La spinta alla ricerca fu, per Buddha, lo scontro con il problema del dolore: nascita, malattia,
infelicità, morte… Questa consapevolezza, relativa alla condizione umana, è anche la prima tappa
della meditazione buddhista tradizionale, oltre che la prima delle ‘quattro nobili verità’ predicate
dal Buddha a Benares. Lo stadio successivo consiste nel riconoscere che tutte le forme di sofferenza
nascono dal desiderio; il punto d’arrivo diventa, inevitabilmente, la necessità di eliminare il
desiderio. E questa è la via di mezzo, tra i piaceri e l’ascesi vera e propria, proposta dal dharma,
la dottrina del Buddha. L’eliminazione del desiderio, tuttavia, non passa dall’esercizio della
volontà, ma dal superamento dell’ignoranza, che induce a fissarsi sull’io e sul mondo visibile. Il
primo passo è il rispetto dei cinque precetti (non uccidere, non rubare, non fornicare, non mentire,
non bere bevande inebrianti), ma la spinta all’ascesi spirituale viene dalla meditazione che, con la
conquista dell’autocoscienza, rende possibile la pace interiore e fa acquistare una capacità di
penetrazione intuitiva della realtà. Raggiunto questo stadio, si passa, per vari gradi, all’estasi
(samadhi), che comporta una sorta di ‘svuotamento’ della coscienza dai suoi contenuti limitati per
una fusione con la realtà unica e totale. La meta ultima è il nirvana, ovvero, la liberazione in cui
l’io, senza per altro annullarsi, si fonde nel tutto come la goccia d’acqua nel mare, e diviene
purezza assoluta, pienezza di libertà, sapienza e beatitudine.
Con la protezione e l’impulso datogli dall’imperatore Asoka (272-231 a.C.) il Buddhismo da piccola
setta di asceti, si dispose a diventare un orientamento spirituale tra i più importanti di tutto
l’oriente. L’elemento più antico della tradizione buddhista è costituito dal Vinaya, nato per
disciplinare la vita monastica e indicare le condizioni ideali per la meditazione. Storicamente,
segna il passaggio dal monachesimo individuale e itinerante a quello comunitario e stabile. Sul
piano dottrinale i seguaci del buddhismo arrivarono così a disporre di tre gioielli: il Buddha, la
sua dottrina (dharma) e la vita monastica comunitaria (sangha). L’accentuazione dell’aspetto
monastico sfociò nello Hinayana (piccolo veicolo), una forma di buddhismo molto severa ed elitaria,
che rivendica a sé l’ortodossia della dottrina e, pur convenendo sul fatto che lo stato di buddha
non abbia costituito una prerogativa del solo Gautama, lo ritiene raggiunto o raggiungibile da
pochissimi. D’altra parte, visto che il Buddha ha conseguito il nirvana, non ha più alcun rapporto
con il mondo sensibile ed è pertanto inutile invocarlo. Infine la salvezza resta un fatto
individuale, frutto della disciplina e della meditazione al di fuori da qualunque contatto con
l’esterno della comunità.
L’altra importante forma che assunse il Buddhismo, a prescindere dalle molteplici sette secondarie,
è il Mahayana, o grande veicolo. Elemento centrale di questo orientamento è la concezione del Buddha
come bodhisattva, ovvero come colui che è destinato all’illuminazione. Gautama ritardò
volontariamente il suo accesso al nirvana per aiutare gli altri a trovare il cammino della salvezza,
esprimendo concretamente virtù della carità e della compassione, non conciliabili con il proposito
della sola salvezza personale.
Per questo è legittimo, anzi, doveroso, tributargli un culto. La pratica di queste virtù può
benissimo essere perseguita nella vita secolare; la compassione ha lo stesso valore della sapienza
contemplativa e a nessuno è preclusa la possibilità di diventare un bodhisattva.
LA MUSICA INDIANA
In quest’occhiata panoramica sul patrimonio religioso dell’India occorre prendere ancora rapidamente
in considerazione la musica e in particolare il suo uso nell’antica liturgia vedica, poiché i mantra
sono ‘anche’ espressioni musicali. La civiltà musicale indiana presenta una singolare complessità
storica e geografica: numerose teorie e pratiche compositive, tra loro dissimili, si sono sviluppate
le une accanto alle altre, sovrapponendosi, senza annullarsi reciprocamente, come invece è avvenuto
all’interno delle culture occidentali. Questo ha salvaguardato l’esistenza delle forme musicali più
antiche, particolarmente di quelle legate all’Induismo. Ne è prova il fatto che, ancora oggi, degli
appartenenti alle caste più umili conoscono interi canti tratti dai testi classici della oro fede.
Ciò è stato in parte reso possibile dal fatto che, intorno al 200 a.C., ai primi quattro Veda,
patrimonio esclusivo della casta più elevata, si affiancò il natyaveda, destinato a tutte le caste.
Uno pseudo attore, conosciuto come Bharata, estrasse dai quattro Veda antichi gli elementi per
comporre una specie di trattato di musica vocale, destinata al culto di Brahama. Quella strumentale
è invece collegata al culto di Shiva.
Al di là degli aspetti tecnici resta ferma in tutta la civiltà musicale indiana una fede ben precisa
nella natura sovrumana delle divinità o delle leggi che regolano l’universo. Si ritiene che ogni
sonorità (ahatanada) discenda da un suono non manifesto (anahatanada), la cui essenza è spirituale.
Quest’ultimo può essere percepito anche dall’uomo se si mette sulla via dell’ascesi e dello yoga:
quando la musica sovrumana gli si rivelerà, dovrà ricercarvi solo la beatitudine liberatrice dai
sensi.
Anche nell’ambito delle musiche liturgiche o d’ispirazione spirituale si possono incontrare
atteggiamenti esterni e accenti musicali differenti gli uni dagli altri, in quanto la fede dei
popoli indiani si presenta con mille sfumature e volti diversi a seconda che prevalga la spinta
devozionale (collettiva) o la meditazione (individuale). Nel testo induista Vakya padiya è scritto:
“Il suono intesse tutta la conoscenza. Tutto l’universo poggia sulla risonanza”. Questo concetto si
collega al mito di Shiva, il dio creatore dei cinque poteri cosmici (produzione, conservazione,
distruzione, incarnazione e liberazione) e allo stesso tempo distruttore del mondo: la distruzione
avverrà quando Shiva ripeterà la danza cosmica da cui prese vita tutto ciò che nasce, si muove e si
deteriora sulla Terra.
Uno dei filoni più antichi della musica indiana risale al VI secolo a.C. ed è conosciuto con il nome
di bhairava. Basato su una scala di cinque suoni (do, re bemolle, fa, sol, la) e praticato dalle
popolazioni agricole dell’India settentrionale, esso ha influenzato tutta la musica indiana.
Il secondo sistema si sviluppò con la ripresa, cui si è già accennato, della tradizione vedica: si
tratta di musica vocale e monodica, che fu presentata da Baratha ma risale a pratiche antichissime.
Dei libri vedici quello che propone la forma più solenne di musica religiosa è il Samaveda, che
prevede una completa articolazione delle sillabe e delle parole, in un ambito che tocca l’intera
ottava. I testi del Rigveda erano invece eseguiti come dei recitativi sillabici nell’ambito di tre
soli toni, mentre lo Yayurveda prevedeva un’intonazione per ogni versetto sacrificale.
Il sistema musicale indiano poggia su una grammatica che regola e controlla lo sviluppo melodico e
ritmico della composizione trascurando la componente armonica (i sette gradi a denominazione fissa
sono: sha, ri, ga, ma, pa, dha, ni). Nei tempi vedici il ritmo e la melodia s’articolavano nella
sfera sacrale, sulla scala discendente di fa (fa, mi, re, do, si, la, sol) mentre la musica profana,
che allora muoveva i primi passi, preferiva gli andamenti ascendenti.
Questa grammatica, successivamente, si arricchì sino a comprendere scale a nove suoni, ciascuno dei
quali veniva posto in correlazione con una delle vocali dell’alfabeto sanscrito e con i pianeti
visibili e invisibili del sistema solare. La codificazione teorica di questo ampliamento delle scale
si ritrova in trattati anteriori all’età cristiana. Ci fu poi un’ulteriore evoluzione che portò a
contenere ventidue suoni ineguali (shruti), ordinati secondo sottili affinità espressive e non, come
presso i Greci, sulla base di un sistema matematico. Gli shuri (dal verbo shuri, udire), divennero
poi sessantasei, perché l’intonazione degli strumenti indiani, specialmente quelli a corda, era
libera e pertanto poteva cambiare anche di un minimo intervallo percepibile dall’orecchio, se emesso
in successione melodica.
La varia combinazione dei sette suoni e la particolare disposizione degli shruti nella scala davano
origine a diverse tecniche con le quali erano composti i canti (raga), ognuno dei quali possedeva
una precisa fisionomia, a cominciare dalle intonazioni della scala di base (i principali erano 36,
di cui 6 raga e 30 ragini). Altri modi che costituiscono i raga sono: una scala di base da cinque a
nove suoni fondamentali, come modalità d’attacco di ciascuna variazione o esposizione del tema e la
periodica apparizione di due note che stanno tra loro in rapporto di quarta e che segnano l’inizio
di ogni nuovo periodo del discorso musicale.
Nell’area indiana esistono più di 1600 raga, che però non sono tutti in uso (un musicista ne studia
circa un centinaio). Ai nostri tempi, la musica indiana è assai diversa dall’antica, anche se nei
libri musicali in uso si continua a parlare di shruti, di raga e di ragini. A trasformarla hanno
contribuito, nonostante l’attaccamento degli Indù alle tradizioni, le usanze e le forme straniere
che le conquiste e i rivolgimenti politici hanno introdotto nel Paese.
IL RITMO DEL RISVEGLIO SPIRITUALE
Quanto detto finora ci consente finalmente di entrare nel merito dei mantra, che della spiritualità
orientale costituiscono uno degli aspetti più profondi e originali.
Assimilarli alla preghiera, così come noi la intendiamo, può generare degli equivoci. Così come il
pensiero metafisico e la prassi rituale, anche il significato di mantra ha subìto, con il passare
dei secoli, un’evoluzione. Da strumento di devozione nei Veda più antichi, diventa vera e propria
formula magica nell’Atharvaveda, impiegata per accattivarsi il favore delle varie divinità. Pertanto
in questo testo sacro sono indicati i mantra per scongiurare i malefici, per avere dei figli,
allontanare le malattie, e così via. Nei Brahamana il mantra è un aspetto fondamentale del rito
sacro di cui non tutti sono in grado di penetrare il significato occulto. Infine, nelle Upanishad,
può definirsi sì una forma di preghiera, ma solo nel senso tipicamente orientale del termine: non
cioè, come richiesta di protezione o atto di lode e devozione nei confronti di una divinità
trascendente con parole scelte dal fedele, ma come strumento potente, se non lo strumento per
eccellenza, mediante il quale la sua mente può sperimentare la realtà assoluta.
Per comprendere come ciò sia possibile occorre precisare come il pensiero induista concepisce la
parola (vak) e il suono (shabda).
LA PAROLA (O VERBO)
Vak, elemento fondamentale di ogni formula mantrica, è sia un verbo (parlare) sia un sostantivo
femminile; quest’ultimo, a sua volta, ha la doppia valenza di parola e di voce, ovvero del suono che
la produce. Ogni parola contiene poi intrinsecamente un significato supremo (para), sottile
(sukshma) e materiale (sthula). Pertanto, nel suo senso più elevato, Vak è il Verbo divino nella sua
funzione creatrice e nello stesso tempo il suo effetto sottile e il suo effetto materiale. Nel
momento in cui la divinità produce un movimento attraverso il verbo, questo diventa para vak, la
parola suprema. In seguito l’impulso creativo, sempre mediante il verbo, diventa parola sottile che
avvia la creazione e, infine, entra nella realtà sotto forma di suono dell’uovo d’oro, vale a dire
dell’uovo cosmico nel cui stadio più alto si trova il brahaman (nel significato neutro del termine).
Da questo stato matrice si genera Shabda, il suono. Infine questo si manifesta nell’uomo mediante le
lettere e il linguaggio parlato.
Gli Indù ritengono che prima che la creazione avesse luogo l’essere supremo si trovasse in uno stato
di riposo, che rappresenta il primo grado della realizzazione dell’assoluto. Questo stato non
comporta né suoni, né oggetti, né idee divine; pertanto non ci sono né nomi (nama), né forme (rupa).
Qui è il punto d’origine dell’impulso creativo (Bindu), da qui si attiva l’energia che mette in
azione le forze e che promuove attraverso il Verbo, il movimento delle forze nell’universo.
Tale stimolazione è la causa della manifestazione del mondo.
In un antico testo vedico è detto: “Dio pronuncia la parola, e le cose appaiono”. Lo stesso concetto
è espresso nelle Sacre Scritture ebraiche dove il verbo divino è a sua volta dotato di potere
creativo. Come attesta la Genesi: “Dio disse ‘Luce sia’ e la luce fu”. E ancora nei Veda si legge:
“All’inizio era Brahaman, e con lui era Vak”. La parola potenzialmente contenuta in Brahaman, nasce
da lui come energia creatrice. Pertanto Vak è anche da intendersi come la Shakti di Brahaman.
I MOLTI VOLTI DI VAK
Ciò che induce l’uno a farsi multiplo per uniformarsi a tutti gli esseri e comprenderli è Kama, il
desiderio sessuale nel significato più nobile e sacro, come slancio iniziale creativo. Il desiderio
umano, e la conseguente procreazione, ne sono delle emanazioni limitate.
In questo senso Kama, dio dell’amore, è il primo dio di cui l’Atharvaveda propone l’adorazione e
disciplina il culto. Egli è l’origine di tutte le cose e Vak, che rappresenta la volontà divina, ne
è la figlia.
In altri testi Kama è identificato in Prajapati, il Signore delle creature. Anch’egli “manifestò”,
così è scritto, “una volontà: Possa io essere moltiplicato! Egli possedeva Vak. Era nata da lui e
permeava ogni cosa esistente”. E, dopo l’emissione di Vak: “Tramite il suo spirito Egli si è unito a
lei che rimase gravida. Vak era sorta da lui e penetrava ogni cosa, e nuovamente rientrò in lui”.
Nel Mahabharata è invece Vak che assume un altro nome, quello di Sarasvati. Fu Sarasvati a inventare
la scrittura, perché potessero essere conservati tutti i canti che traevano da lei ispirazione; fu
lei a creare la musica, perché potesse essere cantata la grazia del suo essere. Nella sua identità
con Vak fece venire in essere tutte le parole della lingua sanscrita, comprese le Scritture Sacre,
per cui è chiamata Madre dei Veda. Essa diventa la sposa di Brahama, che se ne serve per portare in
esistenza il mondo. In proposito si può leggere in un testo vishnuitico: “Brahama trasse dalla sua
stessa sostanza una femmina, che prende i nomi di Satarupa (dalle mille forme), Sarasvati, Gayatri e
Brahamani”.
In un commento a un verso che abbiamo riportato in riferimento a Prajapati (tramite il suo spirito
egli si è unito a lei) è spiegato che i Veda collocano prima della creazione la Parola, da cui sono
derivati l’universo degli dèi (devata) e la vita terrestre, in tutte le sue manifestazioni.
La creazione prende il via da un movimento nella sostanza cosmica, e il suono di questo movimento è
il mantra OM. Così si è posta la dualità, così la divisione della coscienza in Spirito e Materia.
IL SUONO
L’uomo riconosce il movimento del mondo attraverso l’applicazione dei sensi (indryas) che, nella
dottrina indiana, non sono da intendersi come le facoltà percettive di un soggetto, ma le facoltà
mentali dei sensi stessi. Tale movimento è colto dall’intelletto e dall’orecchio come suono, così
come l’occhio lo scorge in una forma o in un colore e la lingua nel gusto.
Se avessimo la possibilità di udire il suono prodotto dalla forza creatrice, avremmo scoperto il
nome archetipo di tutte le cose, ma il nostro orecchio non ha tali capacità. Secondo le Scritture,
oggi lo Yogi può giungere a questa meta ambita tramite l’approfondimento dello yoga, che poi
trasmette ai suoi discepoli. Il Mantra shastra cioè i mantra ‘rivelati’, indicano attraverso i Bija
Mantra (mantra ‘semi’), i nomi archetipi delle cose.
Per esempio il suono spirituale della forza energetica del fuoco è udibile per lo Yogi attraverso il
suono RAM. E ancora il suono che causa e crea una funzione vitale, come la respirazione, è
rappresentato dall’energia contenuta nel suono archetipo HAMSA: se potessimo cogliere il suono della
nostra respirazione ci accorgeremmo che l’espirazione ha il suono di SA e l’inspirazione quello di
HAM.
La dottrina tradizionale insegna dunque che la totalità del mondo è nata dal ‘suono spirituale’, per
cui il supremo signore che porta a compimento la creazione servendosi di tale suono è detto Shabda
Brahaman. Anche in ciò si conferma la convinzione per cui la via evolutiva procede dal sottile, o
spirituale (ciò che non si riesce a vedere con gli occhi, cioè dal mondo non-manifesto), al
materiale (ciò che Maya ci fa scorrere).
L’insegnamento indù sostiene ancora che, corrispondenti alle categorie della creazione pura, ci sono
anche tre stadi dell’emanazione del suono spirituale: il primo è il piano sottile (para); il secondo
vi fa ancora parte, ma a un livello inferiore, ed è Pashyanti; il terzo, più vicino al piano
materiale, ma non ancora distinto in esso, è Madhyama.
Il suono articolato ha a sua volta due forme, una sottile e una materiale ed è dal suono articolato
che le singole lettere, le sillabe e le frasi si sono manifestate.
Anche il buddhismo fa ampiamente ricorso ai mantra, accentuandone il potere sonoro rispetto a quello
verbale. Succede tranquillamente che devoti buddisti estranei alla cultura indiana, per esempio in
Tibet o in Cina, recitino lunghi mantra in sanscrito (un sanscrito per di più, modificatosi nei
secoli dalle varie transizioni geografiche e religiose) senza assolutamente conoscere il significato
delle sillabe che impiegano. In realtà, come si è cercato almeno in parte di spiegare, a differenza
delle nostre preghiere, inni di lode a Dio o invocazioni, i mantra non promuovono il pensiero
concettuale, che si basa sulle parole e involve la mente nel dualismo. Il mantra cerca e trova una
corrispondenza con potenzialità radicate ‘nel profondo’ della coscienza (per non usare la parola
‘inconscio’, che potrebbe generare ulteriori equivoci). La reazione della mente non è dunque mediata
dal pensiero, ma consiste nel suo passaggio diretto a uno stato, in altri modi difficilmente
raggiungibile in cui mente e menti sono una cosa sola.
OBIETTIVI E METODI DELLA TECNICA MANTRICA
Quando si è appreso a utilizzare correttamente la tecnica mantrica si riesce a percorrere, in un
certo senso, la via evolutiva a ritroso.
Gli esseri umani hanno la possibilità di liberarsi dai legami con la materia in due modi. Il primo
consiste nella sperimentazione diretta della conoscenza sensoriale, per giungere progressivamente a
superare i limiti che i legami con i sensi comportano. L’altro è costituito dal veicolo della
ragione intelligente. Per gli indù infatti l’essere umano ha la facoltà di comprendere le cose da un
punto di vista divino, utilizzando, oltre alla ragione immanente (legata cioè al mondo materiale),
una ragione trascendente (legata al mondo spirituale).
Una realizzazione così ottenuta porta sul più puro piano della coscienza, liberando dalla schiavitù
nei confronti della materia.
IL TANTRISMO
Tantra significa ‘Libri’. Il termine viene spesso usato in modo generico per indicare un folto
gruppo di testi vishnuiti e shivaiti, oltre che i veri e propri Tantra. Questi documentano un
particolare sviluppo della spiritualità induista, denominato appunto Tantrismo. La produzione di
testi tantrici non si è a tutt’oggi interrotta e abbraccia, dal punto di vista dei contenuti, un
arco di temi che va dalla descrizione minuziosa di rituali simbolici e di adorazione alla proposta
di particolari e complesse tecniche yoga.
In effetti il Tantrismo rappresenta uno sviluppo autonomo dello yoga e propone al suo interno un
duplice approfondimento. Una delle vie indicate per riplasmare l’energia psichica individuale è
quella detta della mano destra.
Si fonda sulla certezza che esistano nel corpo sei punti, o nodi, energetici (chakra) in
comunicazione tra loro, culminanti in un settimo punto collocato al vertice della testa. Il centro
inferiore alla base del tronco è la sede della dea Kundalini, rappresentata come un serpente
attorcigliato su se stesso e simbolo dell’energia cosmica del non cosciente. Il centro più elevato è
invece la sede di Shiva. Questa via insegna a giungere al controllo, attraverso tecniche yoga,
dell’energia di Kundalini, facendola risalire di centro in centro fino al vertice dove, con
l’effetto di una beatitudine infinita, si realizza l’identificazione con il brahaman. La via della
mano sinistra indica il modo di raggiungere la liberazione non attraverso l’esercizio di una severa
disciplina fisica e morale, ma un libero sfogo delle pulsioni, delle sensazioni e delle passioni
erotiche. L’obiettivo è quello di arrivare a cogliere la vanità di queste gioie, per rimuovere l’io
che poggia solo su un cumulo di desideri illusori.
Il ricorso ai mantra è uno dei più formidabili supporti nella ricerca di questa liberazione della
mente. Ciò è già implicito nell’etimologia della parola, che associa mana, mente, a traya,
liberazione appunto. Dagli aspetti che finora se ne sono sottolineati, soprattutto in rapporto alla
concezione di suono spirituale collegato alla creazione cui l’essere primordiale ha dato origine
grazie alla sua shakti, si può comprendere come la pratica mantrica sia strettamente in collegamento
con la pratica più generale della meditazione e della contemplazione yogica. Il contesto della
meditazione (che pur non è l’unico contesto in cui si esplica, come vedremo, la potenza dei mantra)
impone a questo punto di prendere in considerazione gli altri mezzi cui la recitazione dei mantra
viene di solito associata.
IL TRIANGOLO KAMAKALA
La dottrina indù si serve di molti simboli, che traducono nell’immediatezza concetti assai
complessi. Il triangolo Kamakala è uno dei simboli più importanti, perché rappresenta graficamente
la matrice di tutti i mantra. I suoi lati raffigurano infatti i tre aspetti del bindu (il punto
iniziale da cui prende avvio la spinta divina che crea l’universo), e sono tracciati con colori a
loro volta simbolici: bianco (sira), rosso (shona) e bianco mischiato con il rosso (mishra). Il
disegno fa da supporto alla meditazione e, come strumento che facilita la concentrazione, funge da
mandala.
Nel rituale tantrico i lati del kamakala vengono fatti corrispondere ad altre funzioni simboliche.
Possono essere la Luna, il fuoco e il sole, che a loro volta si identificano con il desiderio, la
conoscenza e l’azione. A tali funzioni l’Essere Supremo ha dato l’incarico di creare il mondo.
E ancora, per confermare ulteriormente il potere creativo rappresentato dal Kamakala, a ogni lato
del triangolo vengono fatte corrispondere le tre divinità della Trimurti.
Meditando sul kamakala lo Yogi può arrivare alla percezione dei suoni sottili (Matrika: piccole
madri), da cui nascono i suoni materiali costituiti dalle lettere, dalle parole e dalle frasi.
YANTRA
Frequentemente i mantra che supportano la meditazione sono definiti con il nome di una divinità. Ciò
richiede delle precisazioni. La divinità della meditazione, qualunque essa sia, non è d intendersi
come l’interlocutore divino che il fedele mira a evocare dall’esterno. Se è vero infatti che vengono
invocate, o ancor meglio evocate, le personificazioni di energie cosmiche invisibili e intangibili,
è altrettanto vero che queste energie hanno una corrispondenza all’interno della coscienza profonda
dell’adepto, e che la pratica meditativa mira proprio a liberare questa o quella energia (mediante
la meditazione su questa o quella divinità) che dorme nella sua mente.
Oltre che con un singolo suono, una serie di sillabe che gli ruotano intorno (mantra cuore), e
talvolta una frase di una certa estensione, la divinità della meditazione può essere rappresentata
in un diagramma astratto, disegnato su carta, metallo, o altri materiali: lo yantra. L’essenza suono
della divinità sta al mantra come la sua essenza forma sta allo yantra, per cui tra i due supporti,
o strumenti (yantra significa appunto strumento) della meditazione c’è una stretta relazione, e ciò
vale soprattutto per il Tantrismo.
Nella loro grande varietà, elementi ricorrenti in uno yantra sono un punto centrale, detto bindu,
che nella corrispondenza macrocosmo microcosmo rappresenta tanto il punto metafisico dell’impulso
originario della creazione quanto il centro del sé di ogni individuo. Un altro elemento chiave è il
triangolo. Quello con il vertice rivolto verso l’alto è un simbolo di origine remotissima,
antecedente all’invasione aria, e rappresenta l’energia riproduttiva, Shakti, come Grande Dea Madre
universale. Quello con il vertice rivolto verso l’alto rappresenta Purusha Shiva, il fuoco. I cerchi
sono connessi a Brahaman; il quadrato alla Terra e ai caratteri della scrittura sanscrita.
LA TECNICA
Per omogeneità con quanto detto fino a questo punto, avendo scelto di privilegiare la nozione di
mantra in stretta relazione con il complesso concetto di suono spirituale (shabda) si dovrà in primo
luogo accennare alla tecnica per eseguirlo così come la propone questo sistema concettuale: il
mantra sadhana.
Un mantra è dunque composto da lettere che, combinate in sillabe e parole della lingua sanscrita
(emesse con la bocca) e dotate di un suono fisico (ascoltato dall’orecchio), danno forma e
consistenza materiale al suono sacro (colto dallo spirito). In teoria ogni elemento o categoria
dell’universo ha il proprio suono archetipo. Ciò vale, per esempio, per i cinque elementi etere,
aria, fuoco, acqua e terra, i cui suoni (HAM, YAM, RAM, VAM E LAM) possono già di per sé costituire
dei mantra. Ma ciò che caratterizza normalmente i mantra mistici sono i suoni particolari di cui si
serve la tecnica (shadana, appunto) impiegata per mettersi in relazione con le divinità.
L’operazione consiste nel porre le lettere in una sequenza precisa e definita di suoni.
La relazione tra le lettere (vocali e consonanti) più nada (uno dei due aspetti del Grande Potere in
cui cresce il germe dell’azione per creare il mondo) e bindu (il punto metafisico dell’impulso
creativo) costituiscono in un mantra la manifestazione della divinità evocata, che in questo modo si
rivela alla coscienza di chi pratica il sadhana. Per esempio il mantra dell’Energia primordiale,
personificata in Maya o in Shakti, suona HRIM. Le lettere che compongono tale suono (ha, ra, i e ma)
rappresentano rispettivamente l’etere, il fuoco, lo Shiva androgino (l’unione di Shiva con Parvati)
e l’unione tra nada e bindu.
Ogni mantra è recitato (o cantato: non esiste nella nostra lingua un termine in grado di rendere
esattamente quest’uso particolare della voce) in modo appropriato alle lettere che lo compongono e
al ritmo che possiede. Per questo quando è tradotto perde la sua funzione di mantra, ovvero il suo
potere perché viene meno la relazione con ‘quelle’ lettere e ‘quel’ suono che sono specifici delle
energie sottili a cui è collegato. Ciò, abbastanza misteriosamente, non avviene quando un
determinato mantra ha subìto, rispetto alla forma originaria, consistenti cambiamenti fonetici per
ragioni storiche e geografiche (si pensi ai mantra in uso nel Buddhismo tibetano o in quello
cinese). Ciò ribadisce il concetto che l’efficacia di un mantra non risieda nelle lettere, nelle
parole e nei suoni prodotti, bensì negli stessi archetipi che riproducono. Si può pensare a una sua
affinità con qualcosa che è racchiuso nella coscienza di chi lo usa e con qualcosa di identico
nell’energia che si vuole evocare. Non deve essere poi trascurato un suo assai probabile potere
d’accumulo, derivato dalle associazioni sacre di cui è stato investito nel corso di millenni dalle
menti di innumerevoli individui: chi ha presente il concetto junghiano di ‘archetipo collettivo’ non
avrà difficoltà ad accogliere questa ipotesi.
Resta comunque fermo che il mantra non è un’elaborazione individuale, come la preghiera intesa
all’occidentale, ma un insieme di suoni e parole provenienti dalle Sacre Scritture e offerti al
fedele affinché, apprendendone la tecnica, possa procedere sulla via che lo porta alla
consapevolezza della natura e dell’essenza dell’universo. Per questo, anche se non è assimilabile
alla preghiera come atto individuale di devozione o richiesta d’aiuto, è comunque necessario che chi
recita un mantra ne conosca il significato e sappia adeguatamente controllare l’emissione della
voce. In caso contrario, non si tratta d’altro che di un vano movimento delle labbra.
SULLE ORME DELLA TRADIZIONE MANTRICA
Come si è detto, il numero dei mantra è virtualmente infinito, possedendone uno proprio ogni cosa
esistente nel creato. Le diverse tradizioni spirituali si avvalgono tuttavia di un patrimonio
mantrico specifico, per cui si possono distinguere mantra vedici, tantrici, buddhisti, e così via.
Non ha senso farne in questa sede una classificazione, e ancora di meno pretendere di offrirne un
campionario esauriente. L’obiettivo, nel presentarne un certo numero, è quello di offrire degli
spunti di riflessione per arricchirsi interiormente e di avviare l’incontro con una disciplina che
potrebbe essere foriera di autentici benefici spirituali.
continua…
Lascia un commento