IL LIBRO DEI MANTRA – parte 4 e fine
IL RITMO SACRO DELLA PREGHIERA
Testi di Gisella Melluso,
a cura di Luigi Colli e Pier Giorgio Viberti
IL MANTRA DEL SOLE
A proposito dell’astro del sole si dice nel Rigveda:
Sorgi giocondo Sole che vede ogni cosa,
e che tutti gli uomini vedono,
occhio degli dèi Mitra e Varuna,
colui che rotola sulle tenebre e le squarcia.
Il verso impiegato nel Rigveda è detto gayatri e questo è anche il nome che definisce uno dei mantra
più sacri degli indù rivolto a Surya, il dio solare, nella forma di Savituh. Vediamo dunque il
gayatri mantra, seguito dalla traduzione.
OM
BHUR BHUVAH SVAH
TAT SAVITUH VARENYAM
BHARGAH DEVASYA DHINANHI
DHIYO YO NAH PRACODAYAT
OM
OM
Divino stimolatore della sfera terrestre, atmosferica e celeste: noi meditiamo su questo adorabile
Savituh, splendore raggiante, che divide, colora e muove la creazione. Noi lo contempliamo. Che egli
ci possa dirigere.
OM.
Il Rigveda parla del Sole, il cui culto presso gli indù è uno dei più radicati e importanti, tanto
da un punto di vista fisico quanto da un punto di vista metafisico.
Come astro crea il giorno e dà la vita alla terra e a tutta la natura, ed è pertanto la causa di
tutto ciò che esiste; grazie al solo Brahama, principio attivo della Creazione, si manifesta in
questo mondo. Da un punto di vista metafisico Surya diventa Savituh, lo Stimolatore, il creatore
della manifestazione. A Savituh, che viene rappresentato con occhi, mani e lingua d’oro, sono
dedicati undici inni completi. Come attesta il Rigveda, gli uomini gli chiedono la remissione delle
colpe: “Qualunque sia l’offesa che abbiamo commesso contro di te, per debolezza o fragilità, o
Savituh, allontana da noi il peccato”. Anche nello Yajurveda gli si riconosce il potere di rimuovere
gli ostacoli che si incontrano nella vita, di natura oggettiva o soggettiva: “O dio Savituh,
creatore di tutto, allontana ogni impedimento ed elargisci le tue benedizioni”.
Nel gayatri mantra riportato OM, che come sappiamo definisce il triplice aspetto e la cosmogonia
della creazione, è posto all’inizio e alla fine. Il primo verso definisce i tre mondi: Bhu è la
terra, Bhuva l’atmosfera e Svah il cielo. Tat ha qui il significato di quello e varenym vuole dire
adorabile, venerabile. Bhargah è parola composta da bha, che fa riferimento alla classificazione
delle cose create, da ra, che ne chiama in gioco il colore, e da ga, che richiama il costante
movimento della creazione manifesta. Bhargah si identifica così con la divinità primordiale che
dimora nella regione del Sole con tutto il suo splendore e la sua gloria, il sole che dà la vita e
la colora nel suo quotidiano andirivieni. Devasya, genitivo (il sanscrito è una lingua flessiva,
come il greco antico o il latino) di Deva, indica la divinità di Savituh, che ha il compito di
presiedere alla creazione materiale e di provvedere alle necessità di tutti gli esseri in cui si
manifesta.
Dhimanhi è il verbo della meditazione; pertanto l’andamento logico della frase è ‘io (anche
collettivizzabile in ‘noi’) medito su quell’adorabile Savituh…’ e si conclude con una
dichiarazione di devozione (dhiyo è appunto il contemplare) e con una formula desiderativa (yo nah
pracodayat: che possa dirigerci).
UN’ALTRA FORMA DI SALUTO AL SOLE
Quello proposto e commentato non è l’unico mantra connesso al culto del sole né, d’altra parte la
recitazione dei mantra solari è solo l’espressione di una forma di culto. Nello Yoga sono impiegati
per meditare e arrivare al controllo di quell’energia che presiede alla vita e che ha tanto una
dimensione fisica (la recita del mantra è per questo associata alla tecnica respiratoria) quanto una
dimensione psichica (quella che nel linguaggio comune definiamo vitalità). Uno dei mantra più
semplici e nel contempo molto efficaci di saluto al sole, suggerito da Swami Gitananda, che è
annoverabile fra i maggiori cultori contemporanei dello Yoga è:
OM SURYAYA NAMAH
dove namah indica nel mantra la parola che si riferisce al culto di una divinità.
Le sacre formule del culto di Brahama
Il mantra del culto di Brahama può avere l’obiettivo finale della liberazione, o, riduttivamente,
quello di conseguire il benessere o di acquistare dei meriti.
Secondo le regole della grammatica sanscrita, il mantra può variare combinando le sillabe iniziali e
finali delle parole nel rispetto di determinati criteri. Così le parole singole del mantra sono Om
Sat Chit Ekam Brahama, ma il mantra diventa:
ONG SACHCHITEKAM BRAHAMA
(ONG, unica esistenza e intelligenza assoluta di Brahama)
dove ONG è la pronuncia gutturale di OM e ne costituisce una variante comune (il discorso vale per
tutti i bija mantra terminanti in m).
Nella recitazione yogica di questo mantra, arricchito da altre parole sacre (per esempio namah, di
cui si è già detta la funzione, o il nome di altre divinità), si pratica una respirazione
particolare, che consiste nel chiudere la narice sinistra con l’anulare per respirare attraverso la
destra; il mantra viene così ripetuto per otto volte; successivamente si chiude la bocca e con il
pollice si blocca la narice destra; infine si inverte la respirazione e si ripete il mantra per
altre sedici volte.
La fase successiva del rito comporta la meditazione sulla shakti di Brahama mediante il suo bija e
un’offerta di gemme, profumi o comunque cose di valore al supremo Signore:
Egli è l’offerta, il fuoco e l’officiante stesso. Egli è la meta verso cui procede colui che medita
sul pensiero, la cui azione stessa è Brahaman (Bhagavad Gita, IV, 24).
Al termine del rito vengono recitati un mantra che impetra protezione e un mantra conclusivo di
saluto:
Possa l’anima suprema proteggere la testa,
possa il supremo signore proteggere il cuore,
possa il protettore del mondo proteggere la gola
possa il signore ovviveggente proteggere
il volto,
possa l’anima dell’universo proteggere
le mani
possa colui che è l’intelligenza stessa
proteggere i piedi,
possa l’eterno Brahaman proteggere sempre
tutto il mio corpo.
ONG, io mi inchino al supremo Brahaman, all’anima suprema, a colui che è al di sopra di tutte le
qualità. Io mi inchino al Sayuiya, il sempre esistente.
PREGHIERE AD ALTRE DIVINITÀ POTENTI
La natura del tutto particolare della preghiera mantrica obbligherebbe a riportarne la forma
originaria, perché la traduzione ne inficia, come si è detto, la sostanza. Ma ciò, per i mantra
molto lunghi, renderebbe ancora più ostica e lontana per il lettore questa breve panoramica, per cui
la scelta è stata quella di un compromesso: fornire nei limiti del possibile la forma originaria e
ricorrere alla traduzione, a fini semplicemente orientativi, nel caso dei mantra di notevole
estensione. Questo criterio vale anche per gli altri esempi che andiamo ora a prendere in
considerazione.
I MANTRA DI TARA
E’ davvero difficile per noi occidentali penetrare senza avvertire un senso di disorientamento
nell’immensità del pantheon induista, non solo perché sono numerosissimi gli dèi, ma anche perché
ciascuno, a seconda della manifestazione che se ne considera, assume a sua volta un nome diverso.
Ciò vale, per esempio, per Kali, signora del tempo, della quale Tara può appunto essere considerata
una manifestazione. Il simbolo che la rappresenta è la stella, di cui l’induista valuta tanto la
bellezza quanto il fatto che bruci, perpetuamente autoconsumandosi: così Tara è la fame, l’impulso
mai appagabile in modo definitivo, che spinge ogni forma di vita a garantirsi attraverso un continuo
consumare. Su questa base i Tibetani e i Jainisti hanno assunto Tara come simbolo della fame
spirituale della liberazione, possibile solo mediante il distacco dal mondo fisico. Tara diventa
così in questi contesti la divinità interiore dell’autocoscienza, e come tale ha centootto nomi (uno
per ogni grano del rosario), che costituiscono altrettanti mantra recitati facendo scorrere il
rosario completo. La Tara della meditazione è rappresentata con il terzo occhio, quello
dell’illuminazione (tara bianca).
Il popolo poi fa ricorso ad altri mantra per scongiurare il potere distruttivo di Tara (tara verde)
e attivare la sua compassione, onde possa essere protetto dalle calamità.
Il suo mantra principale (se ne dà la trascrizione tibetana ed è determinante che tutte le sillabe
siano distintamente pronunciate) è:
UM TARE TUTARE TURE SOHA
dove UM sta per il sanscrito OM e soha per svaha. Questo mantra con l’aggiunta di altre parole, si
allunga in modo diverso a seconda che si voglia invocare la protezione della Tara Verde dalle
catastrofi naturali, dai disastri causati dal fuoco, dall’acqua o dal vento, dai mali provocati dai
demoni, dalle epidemie che colpiscono il bestiame, dalle malattie, dai furti e così via.
Sempre a partire dal mantra base della Tara Verde ce ne sono poi altri impiegati per chiedere che
Tara aumenti la forza, conceda la prosperità, assicuri una lunga vita ed esaudisca i desideri.
IL MANTRA DEI SEDICI NOMI O MAHA MANTRA
Forse non tutti sanno che è un mantra, ma molti vi si sono imbattuti, perché è stato diffuso in
Occidente dagli “arancioni” dell’associazione internazionale per la coscienza di Krishna, che
seguono la via della bhakti. Krishna, protagonista della Bhagavad Gita, solitamente raffigurato con
la pelle blu e intento a suonare il flauto, è considerato l’ottava incarnazione di Vishnu.
La formulazione completa del mantra, detto ‘dei sedici nomi’, è:
HARE, RAMA, HARE, RAMA, RAMA, RAMA, HARE, HARE.
HARE, KRISHNA, HARE, KRISHNA, KRISHNA, KRISHNA, HARE, HARE.
Come si vede, è una sequenza di sedici parole, ma di queste solo due (Krishna e Rama) sono dei nomi
divini. Hare è invece una formula di saluto e insieme di benedizione e di lode. L’obiettivo della
recitazione è quello di non disperdere l’energia della mente verso l’esterno, sulla fallacia
materiale, perché possa pienamente agire come energia interiore concentrata nel devoto servizio
(bhakti) a Krishna.
A parte la possibilità che il mantra sia cantato collettivamente in abbinamento alla musica e alla
danza, come il movimento Hare Krishna può averci dato l’occasione di vedere, questa ‘preghiera’
intesse l’intera giornata del devoto al dio, che viene con essa invocato perché anche l’atto più
semplice o umile assuma la forma di un’offerta.
Questo vale, per esempio, nella cucina e nell’assunzione del cibo quotidiano: il mantra viene
recitato alla fine della preparazione e prima della consumazione, con lo sguardo rivolto a
un’immagine di Krishna, cui è stato posto davanti un piatto contenente il cibo fino a questo momento
intoccato, perché al dio tocca di cibarsene (ovvero di godere della devozione con cui è fatta
l’offerta) per primo.
ALLA POTENZA PRIMORDIALE
Con sfumatura diverse che sarebbe qui troppo complesso chiarire, è ricorrente nella giornata
dell’induista praticante l’atto di devozione al principio femminile del divino. Sotto l’apparenza di
un politeismo che alla nostra cultura può sembrare esasperato, c’è nell’induismo una base filosofico
teologica monistica: Devi, che significa semplicemente la dea, è l’energia attiva che origina tutte
le forze e tutte le forme e traduce dalla potenza all’atto il principio divino maschile. Pertanto,
se con il nome stesso di Devi, di Kali, di Parvati e così via, è la destinataria della devozione
popolare è il suo significato profondo che il fedele adora.
Vediamo qualche esempio di mantra rivolti alla dea:
HRING, SHRING, KLING, PARAMESHVARI, SVAHA. SARVVA BHUTA NIVASINYAI PARATPARAYAI, ADYAYAI, DALIKAYAI
TE IDAM ARGHYAM, SVAHA
che significa, tradotto: Hring, Shring, Kling alla suprema Devi. Tu che dimori in tutte le cose, tu
che sei circondata da divinità che ti servono, tu che porti armi, a te che sei l’Adya Kalika, io
dono quest’offerta; svaha.
Il mantra che segue è al centro della meditazione mattutina, pomeridiana e serale (Pensiamo ad Adya,
meditiamo su Parameshvari, la Devi suprema. Possa Kali guidarci sulla via della completa
liberazione).
ADYAYAI VIDMAHE, PARAMESHVARYYAI DHIMAHI, TANNAH KALI PRACHODAYAT
ed è affine a un altro che, assunto dal discepolo che s’addentra nella pratica della meditazione e
si concentra sull’immagine mentale della dea, tradotto suona:
Io mi inchino a te che sei un’unica cosa con l’Universo e lo sostieni; io mi inchino a Te, Adya
Kalika, Creatrice e Distruttrice.
La ‘dea’ come personificazione dell’energia che sostiene l’Universo, o Shakti del Sostegno (Adhara
Shakti), vibra in questi altri due mantra:
KLING ADHARA SHAKTI KAMALASANAYA NAMAH
(Kling, omaggio, all’Adhara Sakthi, del trono di loto)
HRING ADHARA SHAKTAYE NAMAH
(Hring, omaggio alla Shakti dell’Adhara)
Va ricordato che adhara è anche, materialmente, il treppiedi: come oggetto simbolico, per la sua
funzione di sostegno, è usato nei rituali e posto al centro di un mandala.
Questo termine in sanscrito significa cerchio, centro e, oltre che essere un simbolo geometrico
impiegato per favorire la concentrazione nella meditazione, indica la superficie circolare disegnata
sul terreno o su una tela per la celebrazione di un rituale. Le regole per produrre un mandala sono
stabilite da antiche tradizioni ed è di norma presente nei rituali di purificazione.
Chiudiamo con la traduzione di una preghiera mantrica che potremmo definire evocativa:
O regina delle dee, tu sei raggiungibile attraverso la devozione (bhakti). Fermati qui, con tutto il
tuo seguito, mentre io ti venero.
O Adya Devi Kalika, vieni con tutto il tuo seguito, poniti qui. Accetta il mio culto.
ANG, HRING, KRONG, SHRING, SVAHA: siano qui le cinque arie vitali (prana, Apan, Samana, Udana e
Vyana) di questa Devi Kali. ANG, HRING, KRONG, SHRING, SVAHA. Il suo Jiva è qui, ANG, HRING, KRONG,
SHRING, SVAHA, tutti i sensi; ANG, HRING, KRONG, SHRING, SVAHA. Linguaggio, mente, vista, olfatto,
udito, tatto e le arie vitali dell’Adya Kali Devata vengano qui e vi rimangano per sempre SVAHA.
MOMENTI RITUALI
La tradizione vedica prevede che la cerimonia sacra rispetti delle regole precise, molte delle quali
hanno il significato di una purificazione.
Si deve purificare, innanzi tutto, il celebrante che, lavando il proprio corpo con dell’acqua,
recita il mantra:
ATMA TATTVAYA SVAHA
VIDYA TATTVAYA SVAHA
SHIVA TATTVAYA SVAHA
che può essere considerato il mantra della purificazione per eccellenza.
Dopo l’abluzione del corpo, l’acqua utilizzata viene offerta al sole, recitando:
ONG HRING HANGSA, GHRINI SURYA IDAM ARGHYAM TUBHYAM SVAHA
la cui traduzione è:
ONG HRING HANGSA. A te, o Sole, colmo di calore e splendente, io dono questa offerta, svaha.
Nel rito chiamato Jiva nyasa il mantra di purificazione è una preghiera con cui il fedele utilizza
le sacre sillabe perché in lui venga infusa la vita della Devi.
In tutti i rituali viene usata la canapa (vijaya), che ha nella formula tradotta che segue la sua
consacrazione:
ONG, HRING. Ambrosia, che nasci dall’ambrosia, tu che spargi ambrosia e la attingi sempre per me.
Porta Kalika dentro il mio dominio. Dona i poteri (siddhi).
Successivamente il celebrante mette la canapa in bocca e recita, rivolgendosi a Sarasvati:
AING, tu che sei la regina di tutte le essenze, ispirami, ispirami e rimani eternamente sulla punta
della mia lingua. Svaha.
Alla Devi dell’Ambrosia o Soma (nome del succo di una pianta considerata sacra e impiegata nelle
libagioni agli dèi, ma anche in ambito mitologico nome di una figlia di Brahama che, inebriato dal
Soma, la desiderò ardentemente e fu da lei maledetto) è rivolto il mantra:
Salute alla Devi dell’Ambrosia, che libera dalla maledizione il Brahama.
Quando la divinità cui è tributato l’atto cultuale è Agni, gli viene offerta dell’acqua, contenuta
in una coppa che viene così purificata:
ANG ARKA MANDALAYA DVADASHA KALATMANE NAMAH
ANG ! Offerta al mandala del sole che ha dodici divisioni (kala).
Il mantra di Vanhi, Signore del Fuoco, venerato sul mandala, è:
MANG VAHNI MANDALAYA DASHA KALATMANE NAMAH
MANG! Salute al Mandala di Vanhi con le sue dieci qualità.
L’offerta alla Devi della coppa sacrificale contenente acqua, vino, profumi e fiori è accompagnata
dalla recita di questo mantra:
UNG SOMA MANDALAYA SHODASHA KALATMANE NAMAH
UNG! Offerta alla Luna con i suoi sedici numeri (le funzioni della Luna).
Pronunciando il sacro cija di Varuna (VANG), il fedele deve rendere il proprio corpo simile al
nettare tramite la recitazione di un mantra che così traduciamo:
Possa la Devi che dimora nel petto di Vishnu e di Shankara (Shiva) purificare questa mia carne, e
darmi riposo accanto al prezioso piede di Vishnu.
Se la divinità oggetto del culto è specificamente Shiva, la formula devozionale (mula mantra) con
cui gli si chiede di gradire il sacrificio può tradursi così:
ONG, o Devi, o Shiva, o Esaltata, tu sei l’immagine della dissoluzione finale di tutto; degnati di
accettare questo sacrificio e di rivelarmi il bene e il male che formano il mio destino. A Shiva io
mi inchino.
In un rito particolare, detto della campana, perché il fedele ne suona una con la mano sinistra,
mentre con la destra incensa l’immagine della Devi, viene recitato un mantra di accompagnamento:
O Madre che produci il suono che annuncia il tuo trionfo. Svaha.
Un ultimo sguardo ora al modo in cui si conclude una cerimonia sacra.
Il motivo della purificazione ritorna sotto forma di richiesta di perdono che si accompagna al
saluto alla Devi:
O primordiale Kalika, io ti ho venerato con devozione e con tutti i poteri che mi sono stati donati.
Perdonami.
A cerimonia finita ciò che è rimasto delle offerte è ritenuto sacro e viene con un mantra
particolare donato alla Devi delle offerte, che ha nome Nirmalya vasini.
IL DISCEPOLO E IL SUO GURU
Si chiama svaha mantra la formula di omaggio devoto che un discepolo recita (o medita) per il suo
maestro, il Guru. Questa parola significa venerabile e in un primo tempo era il nome che veniva
attribuito al padre, alla madre, in generale alle persone cui si dovevano rispetto e venerazione.
Successivamente indicò il maestro, il padrino incaricato dell’educazione spirituale dei ragazzi,
considerato un intermediario tra l’allievo e la divinità. Nel panorama della spiritualità indiana il
Guru ha un rilievo tanto maggiore quanto più il percorso spirituale di un discepolo comporta di
addentrarsi in una dottrina complessa e di sottoporsi a una disciplina rigorosa.
In ambito tantrico uno svaha mantra è il seguente:
HRING, SHRING, KRING PARAMESHVARI KALIKE, HRING, KRING SVAHA
Io mi inchino a te, o Guru, tu che distruggi i legami che vincolano a questo mondo, tu che dispensi
la visione della saggezza, con il piacere e la liberazione finale, tu allontani l’ignoranza e riveli
il Kula dharma (la dottrina tantrica del Kaula), tu sei l’immagine e la forma umana del supremo
Brahaman.
OMAGGIO AL QUARTO GIOIELLO
Tutti i buddhisti, indipendentemente dalle scuole entro le quali si collocano, attingono al comune
patrimonio dei tre gioielli: il Buddha, la Dottrina e la Comunità sacra. I seguaci del Vajrayana si
avvalgono di una quarta gemma preziosa: il Guru, in cui ripongono una fiducia assoluta. Il mantra
detto ‘del Guru Prezioso’ viene recitato dal discepolo nella concentrazione sull’immagine mentale
del Maestro, perché possa realizzare un’unione perfetta con lui, attingere alla sua conoscenza sacra
ed essere assistito nel superare gli ostacoli che si frappongono lungo il cammino verso la verità
suprema. Il mantra è il seguente:
OM AH HUM VAJRA GURU PADMA SIDDHI HUM
dove la serie iniziale di sillabe OM AH HUM sono già di per sé un mantra potente dai significati
spirituali profondissimi, dei quali si accentua un aspetto piuttosto che un altro a seconda del
contesto in cui viene usato. In generale nello Yoga ha una funzione di ‘sostegno’, perché prepara e
purifica la mente di chi lo recita al rito o alla meditazione che si accinge a compiere. Richiamando
l’origine (OM), la conservazione di ciò che OM ha creato (HA) e l’energia vitale che permea ciò che
è stato creato (HUM) rimuove l’ostacolo rappresentato dall’io e i vincoli imbriglianti del pensiero
dualistico. A questo punto vajra (adamantino) denota la non sostanza del vuoto, Guru, la saggezza
interiore che istruisce, elemento focale di tutto il mantra, padma la suprema compassione, siddhi i
poteri che si conseguono votandosi alla dottrina e HUM l’unità dei tre valori (saggezza, compassione
e dottrina) dentro di sé.
IL VALORE SUPREMO DELLA COMPASSIONE
Come si è accennato parlando del Buddhismo, il tema della compassione è centrale nella dottrina
Mahayana. L’immensa forza della compassione, per tutti potenzialmente e imparzialmente disponibile è
correlata al bodhisattva Avalokiteshvara, che la pietà popolare intende come un essere celeste e i
più esperti della dottrina considerano invece come la forma di una creazione mentale altrimenti non
esprimibile. Da una parte e dall’altra, comunque, c’è unanime fiducia nell’estrema efficacia del
mantra:
OM MANI PADME HUM
che è il mantra, appunto del Supremamente Misericordioso Bodhisattva Avalokiteshvara.
Semplicemente noto come Mani, è ritenuto tanto più potente quanto più la mente di chi lo recita
riesce progressivamente ad aprirsi all’amore per tutti gli esseri senzienti, fino ai più ripugnanti
come gli insetti nocivi, o ai più terrifici, come i demoni e gli spettri.
Di OM il significato ci è ormai noto. Mani Padme indica la gemma nel fiore di loto, ovvero la
saggezza essenziale contenuta nella dottrina del Buddha, la mente nelle menti, il Buddha che è nel
cuore di ciascuno. HUM infine è l’imperituro nell’effimero, e perciò il tramite dell’unione con OM.
CONGEDO
Realizzarsi in Dio è l’unico scopo della vita. Dovete vivere solo con Dio, ogni attimo. Dovete
passare il vostro tempo pensando a lui, ripetendo il suo nome, ricordandovi di lui, leggendo di lui,
riflettendo su di lui, pregandolo. Solo in questo modo troverete la vera felicità e la pace della
vostra vita. Il vostro rifugio in lui darà i suoi frutti.
Non c’è regola fissa per pregare, si può fare in ogni momento e in ogni situazione. L’unica cosa
importante è l’amore. Riceverai tanta gioia se avrai messo zelo nella pratica.
Diventerai padrone di te stesso, se ripeterai il nome di Dio con costanza e se sei sincero in tutti
i tentativi spirituali. Il nome di Dio ha il potere intrinseco d’impegnare tutti i sensi interni ed
esterni naturalmente inondati di Dio.
(Swami Shiavananda “For the Seekers of God”, Calcutta, 1972).
Tutte le pratiche di meditazione possono produrre una moltitudine di effetti negli eventi della
nostra vita; la forza spirituale di ogni individuo impegnato nella preghiera, nella fede, crea un
movimento nella sostanza che ci contiene e ancora di più lo crea nella mente, dei cui poteri
conosciamo solo una piccola parte.
Non sappiamo effettivamente sino a dove e a che cosa la nostra mente, creazione divina, possa
condurci. Purtroppo spesso rimaniamo imprigionati nel labirinto che la nostra stessa civiltà ha
costruito, perché dimentichiamo la nostra origine divina. Attraverso il ritmo sacro che diamo alle
nostre preghiere possiamo riprendere coscienza di noi stessi per elevarci a un piano spirituale che
potrebbe essere la base di una vita molto più sana. Molte preghiere occidentali possono avere la
stessa funzione di un mantra: si pensi per esempio all’Ave Maria, che, per le innumerevoli
ripetizioni fatte dai fedeli, ha acquistato un potere analogo a quello dei mantra.
Pregare significa sapersi raccogliere, donare ed eliminare in quel momento il proprio io per
lasciare spazio alla sola fede; significa affidarsi alla volontà divina che darà a ognuno di noi un
segno e che trova la sua sede nell’intima profondità dell’uomo. La preghiera è un seme, e il nostro
pensiero, mezzo di indagine e serbatoio degli archetipi della creazione è l’alimento che lo fa
germogliare per poi rinutrirsene.
Possa la purezza regnare ovunque, possa l’anima godere della pace e della libertà; Dio, essenza
eterna, tu sei l’antico amico dell’uomo, sei la via del sapere, sei l’unica voce, e l’unico suono,
tu che hai salvato l’uomo e gli hai ridato la vita, continuerai a esistere oltre il movimento
dell’Universo, e sarai per l’uomo speranza e ultima meta.
(L’autrice)
fine
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