Il mandala: un simbolo del sé

pubblicato in: AltroBlog 0

Il mandala: un simbolo del sé

(di Maria Angelillo)

(Il mandala rappresenta uno psico-cosmogramma, un’immagine tanto della
psiche quanto dell’universo)

Per comprendere la definizione di mandala in quanto archetipo di
individuazione, occorre, innanzitutto, esplicitare il concetto, centrale
nella speculazione junghiana, di inconscio collettivo.

Carl Gustav Jung accoglie la nozione freudiana di inconscio, ma la modifica
notevolmente. Egli riconosce l’esistenza di un inconscio individuale, che
contiene i materiali repressi o rimossi di origine infantile, emergenti nel
sogno o nella nevrosi, ma precisa come esso costituisca, solo un aspetto
della struttura di fondo della psiche, la quale, oltre a contenere la
coscienza e l’inconscio individuale, ospita anche l’inconscio collettivo.

Quest’ultimo non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato.
Non essendo di natura individuale, l’inconscio collettivo conserva contenuti
e comportamenti che sono comuni a tutti gli individui e costituisce,
pertanto, un sostrato psichico comune, di natura sovrapersonale.

Mentre l’inconscio personale è formato essenzialmente da elementi che sono
stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché
dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai
stati nella coscienza e, perciò, non sono mai stati acquisiti
individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente
all’ereditarietà.

Se l’inconscio personale consiste soprattutto in «complessi a tonalità
affettiva», a cui è affidata l’intimità personale della vita psichica, il
contenuto dell’inconscio collettivo è formato, invece, da archetipi. La loro
presenza è ricorrente, per esempio, nei sogni, dove si manifestano spesso
contenuti non individuali e non ricavabili dall’esperienza personale del
sognante.

Gli archetipi, come l’inconscio collettivo, di cui costituiscono la
sostanza, presentano tre caratteristiche peculiari: l’universalità,
l’impersonalità e l’ereditarietà.
Per ciò che concerne quest’ultima, occorre ricordare che Jung considera la
mente «un prodotto storico alla stessa stregua del corpo in cui si trova ad
esistere»1, e spiega che essa «si è sviluppata fino alla sua fase attuale di
consapevolezza nello stesso modo in cui la ghianda si viene trasformando in
quercia o i sauri sono diventati progressivamente mammiferi. Essa si è
venuta sviluppando per un lunghissimo arco di tempo e continua tutt’ora a
svilupparsi».

Nello stesso modo in cui non si suppone che ogni animale, appena nato, crei
i suoi propri istinti nei termini di un’acquisizione individuale, così non è
lecito ritenere che gli individui inventino i loro specifici modi di
condotta umana dopo ogni singola nascita.

In virtù di tale constatazione, Jung afferma l’innatismo e l’ereditarietà
dei modelli di pensiero collettivo della mente umana. Per chiarire questo
concetto, Jung spiega la relazione intercorrente fra istinti e archetipi
definendo i primi degli stimoli fisiologici percepibili dai sensi e, i
secondi, le fantasie e le immagini simboliche grazie alle quali gli istinti
rivelano la loro presenza.

Gli archetipi rappresentano e segnalano, perciò, delle tendenze istintive
che Jung definisce tanto «marcate quanto lo è l’impulso degli uccelli a
costruire il nido, o quello delle formiche a dar vita a colonie
organizzate».

L’universalità del mandala è dimostrata da Jung attraverso numerosi esempi
che mettono in evidenza come forme mandaliche siano ravvisabili in diverse
epoche storiche e culture: secondo Jung l’arte cristiana europea, per
esempio, dispiega un’abbondanza di espressioni che, sia per le loro
caratteristiche formali, sia per il significato legato all’utilizzo di una
serie di forme geometriche, possono essere considerate dei mandala.

Jung ritrova elementi propri dei mandala nelle aureole che circondano la
testa di Cristo e dei santi, nelle ruote solari, nelle rappresentazioni di
Cristo circondato dai quattro evangelisti, nei rosoni delle cattedrali e
nella croce stessa.

Egli riconosce ulteriori forme mandaliche nei piani urbanistici sia di città
antiche quali Roma, sia delle città medievali, sia di città di più recente
edificazione quali Washington D.C. Per Jung anche le immagini di dischi
volanti ripercorrono l’iconografia del mandala.
.
Per ciò che concerne, invece, l’impersonalità, questa discende logicamente
dalla collocazione degli archetipi nell’inconscio collettivo, dunque in
quella regione della psiche di natura non individuale.

Fra le ulteriori caratteristiche degli archetipi, occorre ricordarne
l’autonomia e la dinamicità, sebbene la condizione sine qua non stabilita da
Jung per determinare la presenza di un archetipo sia il suo costituirsi
tanto come un’immagine quanto come un’emozione: la prima acquista, infatti,
un carattere numinoso e produce conseguenze di un qualche rilievo solo
laddove sia accompagnata dalla seconda.

Gli archetipi sono perciò ulteriormente definiti come «immagini
integralmente connesse con l’individuo vivente per il tramite delle
emozioni»8. Essi costituiscono il legame fra il mondo razionale della
coscienza, dove affiorano grazie ai sogni, e il mondo dell’istinto.

Jung osserva, infatti, l’insorgere spontaneo di raffigurazioni mandaliche in
pazienti soggetti a stati di disorientamento o di dissociazione psichica, e
in particolar modo in bambini, di età compresa fra gli otto e gli undici
anni, i cui genitori siano in crisi, o in adulti che, in seguito
all’insorgere di una nevrosi e al suo trattamento, si siano confrontati con
il problema degli opposti nella natura umana, rimanendone disorientati. O
ancora negli schizofrenici, la cui visione del mondo si sia alterata e
confusa per l’irruzione di contenuti inconsci incomprensibili.

In tutti questi soggetti Jung nota come l’ordine severo imposto da
un’immagine circolare compensi, attraverso la costruzione di un punto
centrale al quale ogni cosa sia correlata, il disordine e la confusione
dello stato psichico.

I mandala disegnati dai pazienti di Jung, pur presentando sensibili
differenze fra loro, sono accomunati dalla presenza di un centro, di un
cerchio e di una quaternità. L’organizzazione di queste forme geometriche in
rapporti e in relazioni che evocano la struttura dei mandala buddhisti e
hindu, ha portato Jung a ritenere che il mandala costituisca un fatto
psichico autonomo, caratterizzato da una fenomenologia che si ripete sempre
e che è identica ovunque.

I pazienti di Jung sono dunque ricorsi a delle risorse e a un sistema
implicito di conoscenze ereditato e, dunque, non acquisito attraverso la
propria esperienza personale in quanto individui storicamente e
culturalmente determinati.

I mandala, in virtù delle loro caratteristiche formali, per l’analisi delle
quali si rimanda alla nutrita bibliografia in merito, sono definiti degli
ordinatori di rappresentazioni, dei modelli di comportamento innati e dei
fattori di organizzazione che sono propri del genere umano in quanto tale.

Poiché consente la messa in forma dei differenti piani del reale, delle loro
reciproche relazioni e della totalità degli stessi piani, il mandala è
utilizzato in molteplici pratiche religiose come sostegno nella meditazione,
nella contemplazione e nell’ascesi.

Con scopi e forme diverse, il mandala è in uso sia presso gli induisti
tantrici sia presso i seguaci del Buddhismo Vajrayana tibetano. Quest’ultimo
si caratterizza come un complesso di tecniche e di dottrine salvifiche che
costituiscono il terzo veicolo liberatorio del Buddhismo, aperto agli
influssi e ai motivi delle scuole tantriche dell’Induismo.

Quello che comunemente si suole chiamare tantrismo risulta di innumerevoli
forme: una moltitudine di scuole e di correnti in perpetua osmosi o in
reciproca polemica, talune monistiche, altre dualistiche, con alcuni
principi fondamentali in comune.

La dogmatica tantrica procede dalla convinzione che l’uno è il tutto, che
essere umano, natura e trascendenza non sono dissociati ma, esistendo
un’armonia tra individuo e universo, i fattori del macrocosmo corrispondono
a quelli del microcosmo e, pertanto, a quest’ultimo è data la possibilità di
disporre delle forze dell’altro.

Il mandala rappresenta visivamente questa condizione: esso è uno
psico-cosmogramma, un’immagine tanto della psiche quanto dell’universo, la
cui iconografia rivela la fondamentale identità fra il corpo e la psiche
umani e la struttura del cosmo, un’identità che non coinvolge solo le forme
esteriori ma anche le dinamiche interne di mutamento e di mantenimento dei
due sistemi.

Gli elementi geometrici che costituiscono il mandala conservano una
pluralità di significati che investono tanto il dominio della psiche quanto
quello del reale, creando un preciso sistema di corrispondenze fra la vita
dell’individuo e quella dell’universo.

Il mandala può essere considerato tanto un quadro del cosmo nell’atto della
sua manifestazione, quanto un’immagine della psiche, e l’elemento di
continuità fra i due piani, universale e psichico, viene individuato nel
kama, il desiderio, a cui si attribuisce, nella tradizione hindu, l’origine
della manifestazione dell’universo13.
La constatazione empirica che queste immagini compaiono spontaneamente in
situazioni di disorientamento psichico, è interpretata come una sorta di
«tentativo di guarigione da parte della natura stessa»14, sforzo che non
deriva da una riflessione cosciente, ma da un impulso istintivo.

La comparsa spontanea di raffigurazioni mandaliche, laddove sia percepita la
necessità di ricondurre la propria percezione della realtà fisica e psichica
a un ordine armonico, definisce la natura del mandala, non solo simbolo del
sé, ma anche archetipo di individuazione e, cioè, immagine di quel processo
sintetico teso a integrare l’inconscio alla coscienza1

La lettura di un mandala, che coincide, dunque, con il processo di
individuazione junghiano, implica la partecipazione alla sistole e alla
diastole dell’universo, preludio alla palingenesi dell’individuo.

———————-

– Bibliografia –

C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Longanesi, 1980, Milano, pag. 51.
Ibidem, pag. 65.
Ibidem, pag. 58.
Ibidem, pag. 52.
Ibidem, pag. 52.
C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Longanesi, 1980, Milano, pag. 229.
Ibidem, pag. 79.
Ibidem, pag. 79.
C. G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri,
1997, Torino, pag. 381.
C. G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, 2006, Torino, pag.
182.
K. Vatsyayan, The Square and the Circe of the Indian Arts, Roli Books
International, 1983, New Delhi. S. Kramrisch, Il tempio indù, Luni, 1999,
Milano. G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Ubaldini, 1969, Roma. C. G.
Jung, Il segreto del fiore d’oro, Bollati Boringhieri, 1971, Torino. C. G.
Jung, La simbolica dello spirito, Einaudi, 1975, Torino. C. G. Jung, Aion:
ricerche sul simbolismo del sé, Bollati Boringhieri, 1982, Torino.
M. Falk, Il mito psicologico nell’India antica, Adelphi, 1986, Milano, pag.
29.
M. Albanese – G. Cella, Mandala, Xenia, 1997, Milano, pag. 50.
C. G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri,
1997, Torino, pag. 382.
M. Falk, Il mito psicologico nell’India antica, Adelphi, 1986, Milano, pag.
29.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *