Il messaggio di Krishnamurti

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Il messaggio di Krishnamurti

(Conversazione di Gian Carlo Calza del 15 aprile 1986, in occasione della
scomparsa di Jiddu Krishnamurti)

QUADERNI DI MAIEUTICA

Lo scopo di questa conversazione è di avvicinare a noi Krishnamurti
penetrando nel tessuto umano delle sue scelte di vita, inscindibili dalle
testimonianze di pensiero. Allora, dalle lontananze del grande mistico
orientale o del grande pensatore da ammirare e fors’anche da analizzare
intellettualmente, egli ci si presenta nella più vicina veste del maestro di
vita.

Invece di celebrare come qualcosa di obiettivo le facoltà e la produzione di
una personalità nota proviamo a muovere dal sentimento che ci porta a
ricostruire il processo da lui compiuto per realizzare se stesso e offrire
al mondo la propria esperienza nella sua originalità e universalità. E
questo per alimentare la nostra stessa esperienza, e le scelte che a
ciascuno, anche nella vita più oscura, è dato di sviluppare in sé su
analoghe basi, purché lo voglia. È questa la linea che vogliamo tentare di
seguire, secondo la tradizione del Centro di Cultura Spirituale, in
occasione della scomparsa di Krishnamurti. Accogliamo la sua testimonianza
di pensiero, di sentimento e d’azione come ulteriore indizio di un bisogno
di sviluppo che la nostra civiltà occidentale contemporanea denuncia da più
parti e in toni sempre più impellenti.

Nella grande confusione tra l’essere e il possedere che caratterizza la
nostra epoca, il condizionamento del materialismo e il perseguimento del
benessere esteriore creano, come per contrappasso, una sete dello spirito:
le sue esigenze sembrano oggi essere state troppo a lungo trascurate nella
corsa appassionata verso la conoscenza e la conquista del fenomeno. Sono
molti i movimenti religiosi di tipo orientale radicatisi da noi negli ultimi
anni, soprattutto quelli di ispirazione indiana e facenti capo a qualche
santone o capo carismatico. Loro caratteristica comune sembra l’offerta di
una qualche panacea liberatoria dalle ansie e dagli affanni prodotti dalla
vertiginosa routine quotidiana in cui l’uomo moderno vive immerso. C’è chi,
conscio dei valori delle conquiste occidentali, diffida a priori di queste
attrazioni e c’è chi, avendo avvertito dolorosamente l’inabilità spirituale
di un mondo giunto al massimo della razionalizzazione, vi si rivolge come a
una salvezza certa. In queste considerazioni prescindiamo dal fenomeno di
una moda che spinge molti a cercare un’aggiunta esotico-magica al proprio
vivere quotidiano ed esaminiamo invece il sintomo che quest’antitesi rivela
nell’umanità del nostro tempo.

Dietro la diffusione di sette, di guru, di comuni, di estasi reali o
illusorie, di rinunce alla vita consueta per esotiche esistenze di rifiuto
delle tradizioni occidentali, si può riconoscere, forse, il segno di un
antico richiamo che l’Oriente ha ciclicamente esercitato sulla nostra
civiltà.

È un richiamo che sembra farsi particolarmente intenso ogni volta che la
nostra società si concentra nel perseguimento del benessere materiale,
quando i valori che hanno rappresentato una conquista per le epoche
precedenti, e ne hanno retto gli sviluppi umani, tendono a essere
razionalizzati e trasformati in strumenti per il procacciamento di beni e
soddisfazioni personali. Avviene allora che l’eccessiva obbiettivazione dei
rapporti crea un grande apparato statico e burocratico che tutto pretende di
programmare, ma che, in realtà, uccide la linfa creativa dell’esistenza
perché toglie all’individuo le prove su cui si fondano le scelte
esistenziali. È in questi momenti che l’Occidente viene invaso da un Oriente
magari da poco geopolitica-mente assoggettato.

Tutti sappiamo che un fenomeno del genere si è verificato anche nella Roma
imperiale, pervasa da innumerevoli culti orientali con cui i romani
speravano di compensare l’oppressione che l’immenso e capillare apparato
dello stato burocratico determinava negli esseri più aperti e sensibili.
Eppure ben poco è rimasto di tutti quei tentativi; solo poche tracce
nell’arte o nei documenti letterari. Anche di quei movimenti che, come la
religione di Mitra, parvero a un certo momento doversi affermare su tutti.
Essi erano solo il sintomo e il preludio d’una via che non poteva
presentarsi alla coscienza dell’umanità come recupero di forme del passato,
ma come nuova sintesi da intraprendere, nuovi valori da incarnare.

Infatti a quell’epoca fu un grande messaggio, partito dal più oscuro e
frainteso di quei gruppi, i seguaci di Cristo, a far compiere un nuovo passo
all’umanità. Non mirava a sostituire il credo tradizionale con un altro più
esotico, ma a creare le condizioni per una trasformazione interiore
dell’uomo. Non si presentava come una delle tante dottrine o culti, ma come
la testimonianza d’un evento divino-umano per chi ne penetrasse il messaggio
di risveglio delle potenzialità dell’anima. Si rendeva tangibile, perché chi
lo incarnava nella vita compariva libero dai condizionamenti esterni che,
nella società di allora, soffocavano l’individuo. Per ciò stesso questo
movimento si affermò.

Oggi nella marea piuttosto confusa di movimenti, dottrine, fedi orientali
coi relativi guru che le obbiettivano e le diffondono, la figura di
Krishnamurti, scomparso alla vigilia dei novant’anni, è un punto di
riferimento ristoratore. Interroghiamoci su questa vita spesa fino
all’ultimo a girare il mondo; per che cosa? Forse per diffondere una
dottrina, o per offrire una panacea della felicità, o per costruire una
setta? Rispondiamo ricostruendo la sua esistenza che ha un inizio
eccezionale e che poteva svolgersi lungo un futuro già tutto prestabilito.
Un destino preparato dalla potente Società Teosofica.

La Società Teosofica era stata fondata a New York nel 1875 da una russa,
Helena Blavatsky, e da un americano, Henry Olcott, e traeva ispirazione da
sollecitazioni orientali nella sua concezione panreligiosa che si basava
sull’esistenza di una conoscenza superiore tramandata di età in età da
grandi iniziati per via esoterica. Mala Società Teosofica si era assegnata
un compito particolare e prioritario: preparare le condizioni favorevoli per
la venuta del Signore del Mondo, l’atteso Messia della tradizione buddhista,
Maitreya. A questo scopo, fra l’altro, la sede era stata trasferita presso
Madras nel sud dell’India: dall’Oriente sarebbe giunto il nuovo Salvatore.
Una mattina di primavera del 1909, mentre un gruppo di ragazzetti faceva il
bagno su una spiaggia di Madras, uno dei capi della Società Teosofica,
Charles Leadbeater, notò l’intensa carica spirituale di uno di essi, il
figlio assai male in arnese di un povero bramino vedovo che svolgeva modeste
mansioni per la società medesima. Nel tredicenne fanciullo sulla spiaggia di
Adyar, Krishnamurti, fu identificato il futuro Istruttore del Mondo.

Era allora presidente della Società un’ardente teosofa inglese, Annie
Besant, che si fece affidare il giovane e un fratello, Nityananda, dal padre
e procedette alla loro formazione spirituale e culturale. Solo due anni dopo
nasceva il gruppo più centrale e importante della Società Teosofica,
l’Ordine della Stella d’Oriente, che aveva l’unico scopo di aprire la strada
all’opera di Krishnamurti che ne fu nominato capo. Dopo qualche anno
l’Ordine contava già trentamila iscritti in tutto il mondo.
Nel 1913 i due giovani si stabilirono in Inghilterra per proseguire negli
studi, ma non fu possibile a Krishnamurti di entrare al Balliol College di
Oxford dove era stato iscritto: si può comprendere la riluttanza
nell’antico, tradizionalista istituto a educare, sotto gli occhi del mondo,
un ragazzo proclamato Messia. La formazione dei due fratelli procedette,
così, privatamente, ma con ben diversi risultati. Mentre Nityananda si
laureò e divenne avvocato, Krishnamurti non riuscì mai a superare gli esami.
Un fatto che allora gli dispiacque molto, ma che più tardi riconobbe come un
segno.

Che cosa gli indicava questa sua difficoltà a inserirsi nei binari di una
cultura precostituita? Gli dava la conferma che la sua esistenza non poteva
essere predestinata e programmata in modo conformistico e che, sia sul piano
spirituale sia su quello pratico, doveva essere una conquista continuamente
rinnovata. Tutta la sua giovinezza fu contraddistinta da scompensi. Non
dimentichiamo che già a quindici anni era messo nella posizione del santo,
addirittura del Messia e in Europa comparve a soli ventisei anni come
portatore di un insegnamento quando, a Parigi, dovette parlare a un pubblico
di duemila persone appositamente convenuto. In quegli anni la sua figura
pubblica era assai simile a quella di tutti i guru d’Oriente, grandi e
piccoli. Era preda di sconvolgimenti: aveva visioni, estasi, che lo facevano
soffrire a volte in modo terribile fisicamente come pure psichicamente e
intellettualmente.

Una grande lotta, iniziata fin dalla fanciullezza, stava avvenendo dentro di
lui e ne metteva a confronto i mezzi umani con la grandiosità del compito
assegnatogli. Era una lotta lacerante e gaudiosa al tempo stesso, ma che
sarebbe stata solo di preparazione a un’altra prova, più avanti, che lo
condusse alla scelta della sua vita. In quegli anni anche il suo
insegnamento era quello caratteristico dei guru orientali: avrebbe portato
la felicità a tutti coloro che lo avessero seguito con fede e precisione.
Sollecitava tutti a concentrarsi nelle discipline spirituali, utilizzando il
pensiero e sforzandosi di capire con la propria mente:

Voglio farvi bere tutti alla mia fontana, voglio farvi respirare quell’aria
Profumata in modo che voi stessi diveniate creatori, geni che rendono il
mondo felice … Per questa ragione vi dovete svegliare, dovete camminare
con me e seguirmi.(*)

Come vedete bisognava seguire lui e fare con lui un salto nell’aura felice,
non intaccata da alcuna emozione o passione turbatrice. Eppure già a
quell’epoca c’erano segni premonitori: l’insofferenza per i rituali
nell’Ordine della Stella, ad esempio, che finì per proibire. Ma è la morte
dell’amato fratello Nityananda, cresciuto ed educato con lui, che deve aver
innescato un processo di revisione della sua stessa esistenza in rapporto al
dolore e alla conoscenza che esso apre nell’uomo. Dirà di se stesso più
tardi:

Come tutti anche Krishnamurti, in passato, cercò, obbedì e adorò, ma col
trascorrere del tempo venne la sofferenza, volle scoprire la realtà che si
nasconde dietro il quadro, dietro il tramonto, dietro l’immagine, dietro
tutte le filosofie, dietro tutte le religioni, tutte le sette, tutte le
organizzazioni, e scoprire e capire che viveva sospeso nell’irrealtà, nella
falsità, finché, a poco a poco, fu in grado di superare tutti quei mostri
sacri che limitano, legano, tutti quegli idoli che vogliono essere adorati.

Altri segni premonitori del grande mutamento che stava prendendo forza in
lui compaiono dai discorsi degli anni ’27 e ’28 sia nel quartier generale
dell’Ordine, il castello di Ommen che un nobile olandese gli aveva donato,
sia alle convenzioni della Società Teosofica:

Dato che siete stati abituati per secoli alle etichette, volete che la vita
sia etichettata. Volete che Krishnamurti sia etichettato, e in maniera
definita cosicché possiate dire: Ora posso capire – e poi pensate di essere
in pace con voi stessi. Ma temo che non andrà così.

E non andò così veramente perché il 3 agosto 1929, con un discorso a tremila
persone, fra la costernazione dei seguaci, e l’incredulità di chi con ironia
aveva guardato al presunto Messia, Krishnamurti sciolse l’Ordine della
Stella d’Oriente e restituì ai benefattori le donazioni ricevute.

Krishnamurti attraverso la sua ricerca era arrivato là “dove termina il
culto”. Come poteva non sentirsi in contraddizione con se stesso di fronte a
tutti coloro che lo adoravano?

… imporrete regole alle vostre menti perché l’individuo Krishnamurti ha
rappresentato per voi la verità. Così innalzerete un tempio, istituirete
cerimonie; inventerete frasi, dogmi, sistemi di fede, credo, e creerete
filosofie. Se costruite delle grandi fondamenta su di me, sull’individuo,
sarete intrappolati in quella costruzione … Vi siete preparati per
diciassette anni e siete intrappolati dalla vostra stessa creazione . . .
cosa importerebbe alla gente di tutto il mondo degli insegnamenti della
Teosofia, del suo ruolo e dell’identità alle quali i suoi seguaci danno
tanta importanza? … Ciò che diranno è: soffro. Ho i miei piaceri effimeri
e i dolori mutevoli. Avete qualcosa d’altro da offrire?

Krishnamurti era così giunto al senso ultimo della propria esistenza: lui il
predestinato, il preparato, l’osannato, aveva scoperto la libertà interiore.
Ma, prima, il suo destino lo aveva veramente accettato senza ribellioni e
senza condizioni e ne aveva fatto la via della maturazione, soffrendone
anche le conseguenze. Ora era giunto alla prova, che non può mai essere
anticipata e che contraddistingue come i grandi esseri pervengono alle
scelte di vita. Contro tutte le aspettative che gravavano su di lui, contro
tutti i possibili sensi di colpa presenti e futuri nei confronti di chi,
addirittura, l’aveva sostenuto e avviato verso una grandiosa via di
salvazione e si aspettava ora da lui che la perseguisse in radioso avvenire,
contro tutto ciò aveva compiuto la sua scelta in fedeltà a se stesso.

Da allora Krishnamurti divenne quello che fu poi definito l’ “anti-guru” per
il costante rifiuto di ogni connotazione carismatica. Per l’insistenza con
cui proclamò che non esistono maestri, insegnanti che possano dire quel che
per ciascuno è o non è esatto fare. Proprio all’opposto di molti maestri
indiani che oggi fanno proseliti in Occidente sbandierando una più o meno
esoterica sapienza, egli allontana da sé ogni immagine di verità rivelata
perché può diventare asservimento della coscienza individuale a una
dottrina, rinuncia alla propria originale ricerca di sé che ciascuno deve
compiere. A tale conquista si può giungere:

… solo liberandovi veramente dei vostri preconcetti, non col cercare
un’autorità o uno scopo. Voi invece state surrettiziamente, ostinatamente
cercando un’autorità e quindi vi state riducendo a una nuova serie
d’ingranaggi, una nuova serie di macchine.

Principi sempre veri che egli riprese di continuo e drammaticamente
profetici in quel discorso di Alpino e di Stresa fatto nel 1933, l’anno in
cui Hider prese il potere. Perciò alle coscienze più sensibili Krishnamurti
offre una concezione di conquista della libertà interiore che non concede di
ripararsi nella confortante, ma ingannevole, immagine di qualcuno che ci
risolva i problemi.

A questo punto possiamo chiederci come possa essere indirizzata la forza
positiva che attrae verso una guida, senza la suPina pretesa che i propri
problemi siano risolti dai poteri spirituali altrui. Ci fu infatti chi gli
chiese perché mai percorresse il mondo a incontrare persone di ogni genere,
se era vero, come affermava, che nessuno può aiutare. A tale genere di
obiezioni rispondeva in genere su questo tono:

I più di voi vogliono essere trasformati in pittori: nessuno può farri
pittori salvo voi stessi (. . . ). Questo è tutto quello che posso dirvi. Io
posso darvi i colori, il pennello, la tela; ma pittori avete da diventare
voi, io non posso farvi.

E Tullio Castellani, che ha fondato l’ambiente del Centro di Cultura
Spirituale, ci dà analogo avvertimento:

Pretendere di dare un metodo per l’autoeducazione è una contraddizione nei
termini stessi. IL metodo c’è, ma è il tuo, cioè quello che andrai scoprendo
e determinando a mano a mano che il tuo lavoro procederà … L’unico aiuto
che ti può essere dato è solo un avviamento verso questo processo di
scoperta del tuo metodo … Anch’io ti darò delle indicazioni, ma saranno
indicazioni da provare, poiché il loro valore dipenderà dagli effetti che ne
ricaverai e di cui tu stesso giudicherai l’importanza.(1)

Non sono, queste, voci poi tanto uniche perché ne rievocano altre di ogni
tempo in cui l’uomo ha perseguito la conquista di sé. Dice Socrate, il
fondatore della ricerca dialogica:

Hai mai sentito dire ch’io sono figlio di un’abile ostetrica? Ora la mia
arte è in tutto simile alla sua; io sono dunque in me tutt’altro che
sapiente, e quelli che amano stare con me è chiaro che da me non hanno
imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno
trovato e generato.(2)

La via perseguita da Krishnamurti dopo la scelta del ’29, risale, quindi, a
una tradizione che va oltre le barriere del tempo e dello spazio e si fonda
sulla ricerca individuale. In Krishnamurti, nel suo parlare, nel suo
dialogare con individui e con gruppi, si avverte un sapore tutto indiano. E
questo anche se ben poco uso, per non dire nessuno, faccia di elementi della
sua cultura patria. Questo stile tutto indiano lo si ritrova nel costante
ritornare sul tema, arricchendone ogni volta ciascun passaggio di nuovi
attributi qualificanti, cosicché è il ritmo stesso delle reiterazioni
apparenti che finisce per penetrare in noi. È nei discorsi di Buddha che
possiamo riconoscere l’archetipo di questo tipo di pensiero. O anche il
rigore assoluto dei termini della ricerca, senza mai l’ombra di un
compromesso o anche di semplici concessioni, tagliente come una lama, a
volte fino all’apparenza dello sprezzo e dell’indifferenza più totale per i
sentimenti dell’interlocutore. Ma quella che a noi può apparire come
insensibilità, è, per il ricercatore indiano, concentrazione sulle
discipline dello spirito senza concessione alcuna ai moti dell’anima, che
noi invece rendiamo obbiettivi.

Sono due vie, quella orientale e quella occidentale, i cui valori e limiti
sono reciprocamente evidenti, ma che richiedono entrambe di trattare le
questioni dello spirito con la stessa precisione e rigore delle scienze
esatte. Anche il totale, annichilente disinteresse che Krishnamurti
testimonia per chiunque non ponga la ricerca della propria libertà interiore
come meta prima dell’esistenza, è sì un tratto tipicamente orientale, ma è
anche caratteristica di tutti coloro che ovunque nel mondo e nel tempo
l’hanno conquistata veramente. Fondamentale, dunque, è la ricerca
individuale, che nessuno può fare per noi; ma che ricerca? Ricerca della
libertà interiore, appunto, quella, cioè, che rende autonomi da qualsiasi
influsso esterno. L’avversario più temibile in questa via è la mente
razionale che etichetta, organizza, classifica: il sapere nei due aspetti
dell’erudizione e dell’intellettualismo senza centro spirituale e morale.

Dio e il Diavolo, racconta Krishnamurti, osservano l’uomo. A un certo punto
lo vedono trovare e raccogliere qualcosa di mirabile e fulgente. Grande è la
gioia di Dio quando scopre che l’uomo ha trovato la verità e l’ha fatta
propria: il diavolo avrà finalmente il fatto suo e ne verrà mortificata
l’arroganza. Ma il diavolo replica: “niente affatto: io aiuterò l’uomo a
classificare e catalogare la verità”. La nostra schiavitù nasce così dai
pensieri già confezionati e conformati che orientano la nostra vita
producendo in noi ambizioni, aspirazioni, paure, desideri, perché ci
relegano nell’idea di un io separato e autodifeso. Krishnamurti rinnega la
distinzione tra Es, Io e super Io della psicologia:

… esiste un solo stato, non due stati come il conscio e l’inconscio; c’è
un solo modo di essere: la coscienza. Se la coscienza è costituita dalla mia
disperazione, dalla mia ansia, dalle paure, dai piaceri, dalle innumerevoli
speranze, dalle colpe e dalla vasta esperienza del passato, allora ogni
azione che scaturisce dalla coscienza non può mai liberare la coscienza dai
suoi limiti.

Compare come il metodo di Krishnamurti sia eminentemente “negativo”: non
battersi per conquistare, il che presuppone scopo, tensione, brama e,
infine, asservimento anche se nobilissimo; ma eliminazione ciel “non così”
cioè del pensiero che vincola ai concetti, per giungere a un modo di pensare
che sia di pura osservazione senza giudizi di valore. Come spiegava a un
gruppo di giovani allievi:

Dovete osservare come osservate una lucertola che passa strisciando lungo il
muro, dovete osservarla, e mentre la osservate, guardate tutto il movimento,
la delicatezza dei suoi movimenti. Così, nella stessa maniera, osservate il
vostro pensiero, non correggetelo, non reprimetelo, non dite è troppo
difficile, osservatelo solamente, ora, questa mattina.

Questo processo, che Krishnamurti chiama meditativo, porta verso la libertà
perché cancella i pensieri automatizzati che ci condizionano. Non ne dà però
che accenni indicativi, distogliendoci da ogni finalità che possa vincolare
alla sete di definizioni. Ne dà indicazioni in negativo: non è una fuga dal
mondo, non è preghiera, né l’avvolgersi in pensieri, non è una via verso
risultati tangibili. Poi ci soccorre con un’immagine, anche questa in
negativo:

Tra due pensieri c’è un attimo di silenzio che non è collegato al processo
intellettivo. Se fate attenzione; vedrete che quell’attimo di silenzio,
quell’intervallo, non appartiene al tempo, e la scoperta di
quell’intervallo, il vivere quell’intervallo è il significato della
meditazione.

Incontro tra Occidente e Oriente, dunque, poiché con la sua ricerca
Krishnamurti costituisce una vivida testimonianza di sintesi tra alta
speculazione indiana e azione occidentale. I nostri infiniti desideri,
paure, attaccamenti, fanno parte della nostra natura elementare, ma
diventano una catena vincolante se non apprendiamo a trattarli come
meccanismi: è quella sosta, quell’intervallo, che ci consente di vederli,
come già fece e disse Leonardo, quali “mirabili meccanismi dell’uomo”; di
assumerne l’energia vitale e trasformarla creativamente. E anche
Krishnamurti esorta a non sfuggire dalla nostra realtà riparando in tipi di
esistenza alternativi, perché tutto ciò, lungi dall’affrancare, asservisce e
indebolisce sempre più, rendendoci incapaci di adempiere al nostro compito
nel mondo, grande o piccolo non ha importanza.

Abbiamo cercato di ricostruire in noi il processo compiuto da Krishnamurti
che ci illumina sull’incontro tra Occidente e Oriente nella via che ciascuno
dei due mondi deve aprire. Se volessimo però attenerci allo stile e al
metodo seguiti da Krishnamurti, ci troveremmo di fronte a un percorso
assoluto, totale, ascetico; antitetico perciò ai valori storici intessuti
nella nostra civiltà. La nostra storia è tramata sull’ordito della
formazione dell’individualità creatrice di strutture sociali e attenta a
tutti i diversi gradi di sviluppo, non solo ai massimi. Perciò noi sentiamo
il bisogno di una via dove la componente sociale sia maggiormente
considerata perché anche a chi non intende praticare il sesto grado
dell’ascesi sia aperta la partecipazione a quella cordata che ascende alle
vette dello spirito.

E lo sforzo che si compie qui, al Centro di Cultura Spirituale, offrendo le
condizioni perché ciascuno possa provarsi nel realizzare al meglio di sé il
proprio processo di sviluppo e contribuire a quello degli altri che
ugualmente vi aspirano. Questo comporta l’accettazione del diverso senza
subirne le mutevolezze, ma assorbendone e sostenendone la creatività.

Così possiamo fare di Krishnamurti un nostro maestro di vita, come
potrebbero esserlo Gandhi o Gurdjeeff o altri ricercatori del nostro tempo
che, con diversi accenti, ci riconducono al processo di conoscenza e
realizzazione di sé come indipendenza da qualsiasi dogmatismo sia esso
pratico o spirituale.

(*) Tutti i brani di Krishnamurti citati sono tratti da: Stuart Holroyd,
L’antiguru, Ubaldini Editore, Roma 1981
(1) Tullio Castellani, Avviamento all’autoeducazione, “Maieutica”, gennaio
1950, n.19, p.18
(2) dal Teeteto di Platone

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