di Ajahn Sumedo
Una difficoltà che si incontra con la parola nibbana è che il suo
significato va oltre la capacità di descrizione delle parole. E’
essenzialmente indefinibile.
Un’altra difficoltà è che molti buddhisti considerano il Nibbana come
qualcosa di irraggiungibile, talmente sublime e remoto che non vale
neanche la pena di tentare di arrivarci. Oppure vediamo il Nibbana
come una meta, come un qualcosa di sconosciuto e indefinito che
dobbiamo cercare di ottenere in qualche modo.
Molti di noi hanno questo tipo di condizionamento. Vogliamo ottenere o
raggiungere ciò che in questo momento non abbiamo. Perciò si considera
il Nibbana come un premio che si può ottenere impegnandosi a lavorare
duramente, a mantenere sila (i precetti), a meditare con diligenza, a
diventare un monaco, a dedicare la propria vita alla pratica; allora
si otterrà il Nibbana, pur non sapendo che cosa esso sia realmente.
Ajahn Chah usava definire il Nibbana come la “realtà del
non-attaccamento. Questo aiuta a inserirlo in un contesto, perché
l’accento va posto sul fatto di risvegliarsi al nostro attaccamento,
al nostro aggrapparsi perfino alle parole Nibbana o Buddhismo o
pratica o sila o qualsiasi altra cosa.
Spesso si dice che la via buddhista è quella del non attaccamento. Ma
questa definizione può diventare una prospettiva a cui ci attacchiamo,
a cui ci aggrappiamo. E’ un circolo vizioso. Più tentate di dargli un
senso, più la confusione si fa totale, a causa delle limitazioni del
linguaggio e della percezione. Bisogna andare oltre il linguaggio e la
percezione. E l’unico modo per andare oltre il pensiero e le solite
emozioni è quello di esserne consapevoli, consapevoli dei pensieri,
consapevoli delle emozioni. “L’isola oltre la quale non si può andare”
è una metafora per definire questo stato in cui si è svegli e
consapevoli, totalmente opposto al concetto di diventare svegli e
consapevoli.
Nei corsi di meditazione, spesso la gente comincia con un
atteggiamento sbagliato, che dà per scontate alcune esperienze
mentali. Infatti può esservi l’idea che c’è un “io che si attacca e
che ha un sacco di desideri. Perciò bisogna praticare per liberarsi da
questi desideri, per smetterla di attaccarsi e aggrapparsi alle cose.
Non bisogna attaccarsi a nulla”. Spesso è da qui che si comincia.
Cominciamo a praticare partendo da questa base e molte volte si
finisce con l’essere disillusi e frustrati, perché basiamo la pratica
stessa sull’attaccamento a un’idea.
Infine comprendiamo che, per quanto cerchiamo di liberarci dai
desideri, per quanto cerchiamo di non attaccarci a nulla, qualsiasi
cosa facciamo – diventare monaci, asceti, sedere ora dopo ora, fare
ritiri uno dietro l’altro, fare tutto il possibile per liberarci da
questa tendenza ad attaccarci – finiamo con l’essere frustrati, perché
non abbiamo mai riconosciuto l’illusione che sta alla base di tutto
ciò.
Per questo la metafora “L’isola oltre la quale non si può andare” è
così potente, perché indica il principio di una consapevolezza oltre
la quale non si può andare. E’ semplicissimo, è diretto, e non lo si
può concepire. Dovete solo fidarvi, fidarvi di questa semplice
capacità, che tutti abbiamo, di essere completamente presenti e
completamente svegli, e cominciare a prendere atto dell’attaccamento e
delle idee che abbiamo su noi stessi, sul mondo che ci circonda, sui
pensieri, le percezioni e le sensazioni.
La via della consapevolezza passa per il luogo in cui si riconoscono
le condizioni così come sono. Semplicemente le riconosciamo e
prendiamo atto della loro presenza, senza biasimarle o giudicarle,
senza criticarle o approvarle. Sia positive che negative, lasciamo che
siano come sono. E man mano che proseguiamo fiduciosi su questa via di
consapevolezza, cominceremo a capire la realtà dell’ “Isola oltre la
quale non si può andare”.
Quando cominciai a praticare la meditazione sentii che avevo molta
confusione, e volevo uscire da questa confusione, liberarmi dei miei
problemi, e diventare uno senza confusione, uno che sapeva pensare
chiaramente, uno che forse un giorno sarebbe diventato un illuminato.
Questo fu l’impulso che mi portò verso la meditazione buddhista e la
vita monastica.
Ma poi, riflettendo su questo punto, comprendendo che “io sono
qualcuno che ha bisogno di fare qualcosa”, cominciai a vedere che era
una condizione creata da me. Era un presupposto, una teoria che io
avevo creato. E se avessi agito da questa prospettiva, avrei
senz’altro potuto sviluppare molte capacità e avrei senz’altro potuto
vivere una vita meritevole, buona e benefica per me e per gli altri,
ma, alla fine, sarei rimasto frustrato di non aver raggiunto il
Nibbana.
Per fortuna l’intera vita monastica è basata sul fatto che tutto è
diretto verso il presente. Impariamo continuamente a riconoscere e a
confrontarci con le teorie che abbiamo su noi stessi. L’assunto che
“io sono uno che deve fare qualcosa per diventare illuminato nel
futuro” è la sfida più importante con cui confrontarci. Solo
riconoscendolo come un pregiudizio creato da noi, la consapevolezza sa
che è creato dall’ignoranza, dalla mancanza di comprensione. Quando
vediamo e riconosciamo ciò totalmente, smetteremo di creare tali
assunti.
Consapevolezza non vuol dire giudicare i pensieri o le emozioni, le
azioni o le parole. Consapevolezza vuol dire conoscere queste cose
completamente, che sono cioè ciò che sono, in questo preciso momento.
Per questo ho trovato molto utile imparare ad essere consapevole delle
condizioni senza giudicarle. In questo modo, viene riconosciuto
pienamente il karma risultante dalle passate azioni e parole, così
come si manifesta nel presente, senza aggiungerci nulla, senza farne
un problema. Ciò che sorge, cessa. Nel momento in cui riconosciamo ciò
e lasciamo che le esperienze cessino secondo la loro natura, la
realizzazione della cessazione aumenta la fede nella pratica del
non-attaccamento e del lasciare andare.
L’attaccamento che abbiamo, anche verso le scelte positive come il
buddhismo, può essere considerato anch’esso un attaccamento che ci
acceca. Ciò non significa che dobbiamo liberarci del buddhismo.
Semplicemente riconosciamo l’attaccamento come attaccamento e vediamo
che lo stiamo creando a causa dell’ignoranza. Man mano che si continua
a riflettere su ciò, la tendenza verso l’attaccamento svanisce e la
realtà del non-attaccamento, del non aggrapparsi, si rivela in ciò che
possiamo considerare il Nibbana.
Se lo vediamo in questo modo, il Nibbana è qui e ora. Non è qualcosa
da raggiungere in futuro. La realtà è qui e ora. E’ molto semplice, ma
va oltre qualsiasi descrizione. Non può essere dato né trasmesso, può
solo essere conosciuto da ogni persona individualmente.
Quando uno comincia a realizzare o a conoscere che il non-attaccamento
è la Via, può capitare che uno senta un forte senso di paura. Sembra
quasi che ci sia una specie di annullamento: tutto ciò che penso di
essere nel mondo, tutto ciò che considero stabile e reale, comincia a
cadere in pezzi; può essere veramente spaventoso. Ma se abbiamo
abbastanza fede da sopportare queste reazioni emotive e se lasciamo
che le cose sorte svaniscano secondo la loro natura, allora troveremo
stabilità non nell’ottenere o nel raggiungere, ma nell’essere – essere
svegli, essere consapevoli.
Anni fa, in un libro di William James, The Varieties of Religious
Experience, ho trovato una poesia di Charles A. Swinburne. Pur avendo
– come alcuni hanno detto – una mente turbata, Swinburne ci ha
lasciato riflessioni molto pregnanti.
“Qui comincia il mare che finisce solo con la fine del mondo.
Da dove stiamo,
Se potessimo conoscere il segno della prossima alta marea posta oltre a queste
onde che luccicano
potremmo conoscere ciò che nessun uomo ha conosciuto,
ciò che nessun occhio umano ha scrutato…
Ah, ma qui il cuore umano fa un balzo, struggendosi per quell’oscurità con
temeraria baldanza
dalla riva che non ha altra riva più oltre, posta in tutto il mare.”
(da On the Verge in A Midsummer Vacation)
Ho trovato in questa poesia un eco della risposta che il Buddha dette
alla domanda di Kappa nel Sutta-Nipata:
Poi ci fu lo studente bramino Kappa:
“Signore, disse, c’è gente che sta in mezzo alla corrente terrorizzata
e piena di paura per lo scorrere del fiume dell’esistenza, mentre la
morte e il decadimento incombono su di essa. Per il suo bene, Signore,
ditemi dove posso trovare un’isola, ditemi se c’è una terraferma, su
cui non possa giungere tutto questo dolore”.
“Kappa, disse il Maestro, per il bene di quelli che stanno in mezzo
alla corrente dell’esistenza, sopraffatti dalla morte e dal
decadimento, ti dirò dove puoi trovare terraferma.
C’è un’isola, un’isola oltre la quale non puoi andare. E’ un luogo di
non-esistenza, un luogo di non-possesso e di non-attaccamento. E’ la
fine assoluta della morte e del decadimento, e per questo lo chiamo
Nibbana [estinto, fresco o calmo].
C’è gente che, in piena consapevolezza, lo ha realizzato e si è
estinta completamente qui e ora. Queste persone non diventano schiave
che lavorano per Mara, per la Morte; non possono più cadere in suo
potere”.
(da Sn 1092-95, traduzione inglese del Ven. Saddhatissa)
La parola non-esistenza può suonare come annichilimento, annullamento.
Ma sottolineando “esistenza” diventa solo “non-esistenza”, per cui il
Nibbana non è una esistenza da trovare. E’ il posto della
non-esistenza, del non-possesso, un luogo di non-attaccamento. E’ un
luogo in cui, come diceva Ajahn Chah, si sperimenta “la realtà del
non-attaccamento”.
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