IL PARADIGMA sistemico 3

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IL PARADIGMA sistemico 3

da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

APPENDICE – La visione sistemica nell’ambito delle scienze umane e sociali

Nonostante che sociologi e psicologi di questo secolo siano stati attratti in massa dal fascino del
meccanicismo, é proprio all’interno di tali ambiti disciplinari che si può riscontrare uno dei primi
significativi esempi di pensiero sistemico, e più precisamente negli studi sull’interazione umana
avviati negli anni ’30 da Kurt Lewin. La teoria del campo formulata da tale studioso, a differenza
delle teorie psicologiche e sociologiche allora dominanti, vedeva infatti il rapporto tra l’uomo e
l’ambiente non in modo dicotomico, quali entità distinte, se non contrapposte, ma piuttosto quale
“sistema globale dinamico che li comprende e li definisce come elementi necessari e qualificanti del
campo” (Amerio, 1973: 129). Il concetto di campo rappresenta il costrutto centrale della teoria di
Lewin . Come era stato evidenziato in fisica, ambito dal quale il concetto fu mutuato, i fenomeni
che avvengono all’interno di un campo (ad es. elettromagnetico) non sono spiegabili a partire dalle
proprietà dei singoli oggetti che interagiscono, ma solo considerando la configurazione e la
dinamica del sistema globale. Passando dall’ambito della fisica a quello della sociopsicologia, è
possibile spiegare il comportamento dell’uomo, sostiene Lewin, solo conoscendo le “leggi” del campo
psicologico (spazio di vita) in cui egli si trova, o meglio, che egli stesso contribuisce a
definire: “campo” non è quindi sinonimo di “contesto” o di “ambiente”, poiché, diversamente da
questo, esso non è esterno all’individuo, che ne è anzi – con l’atto stesso di percepirlo – un
fattore generante. Certo, ogni azione è influenzata dal contesto-ambiente, ma non inteso come sede
di forze oggettive in grado di agire più o meno direttamente sull’individuo, secondo meccanismi
behavioristici del tipo S-R o S-O-R, bensì visto come uno degli elementi che costituiscono il campo
psicologico. Fanno infatti parte del campo solo quegli oggetti, eventi, relazioni e relativi aspetti
che hanno significato e rilevanza soggettiva per l’individuo e che pertanto egli percepisce .

Tornando alla questione di partenza, al rapporto di interdipendenza dinamica tra l’uomo, l’ambiente
e l’agire in esso, essa può essere sinteticamente affrontata, secondo Lewin, nei termini delle
seguenti equazioni:

C = f(SpV)

Vale a dire, il comportamento (C) è funzione dello spazio di vita (SpV – cioè del campo
psicologico), costituito a sua volta dalla interazione tra la persona (P) e l’ambiente (A):

SpV = f(P, A)

Attraverso le suddette equazioni Lewin si pone medianamente tra le posizioni dicotomiche su cui si
dividevano sia gli psicologi che i sociologi suoi contemporanei: quella ambientalista, che vede
l’agire dell’individuo come funzione dell’ambiente: C = f(A) e quella individualista/psicologistica,
per la quale C = f(P); vale a dire l’agire visto interamente funzione dell’individuo. La risposta
che ci fornisce la teoria del campo è che l’individuo e l’ambiente si definiscono e integrano
reciprocamente nell’ambito di una situazione totale.

Tale approccio, tuttavia, era evidentemente troppo avanzato e controcorrente per quel periodo, e
pertanto influenzò solo marginalmente e con ritardo l’ottica psicosociale. Molti dei concetti
formulati da Lewin saranno addirittura riscoperti autonomamente da altri studiosi anni più tardi,
partendo da basi e premesse del tutto diverse.

Bisogna arrivare appunto agli anni ’50 e all’emergere della teoria generale dei sistemi e della
cibernetica per vedere una prima penetrazione dei concetti sistemici all’interno delle scienze umane
e sociali, senza che ciò riuscisse peraltro minimamente a scalfire il dominante meccanicismo. Anzi,
i concetti sistemici vengono interpretati con mentalità lineare e meccanicista e dunque compresi in
modo parziale e fortemente distorto. Emblematico, in sociologia il modello macro-sistemico di
Parsons o, più tardi, quello di Luhmann. Paradosso dei paradossi, un approccio così innovativo e
“liberale” come quello sistemico dava luogo a modelli di oscuro conservatorismo, vere e proprie
apologie del controllo sociale. Solo oggi sta diventando chiaro che ciò era dovuto ad una lettura
ideologicamente distorta e parziale dei concetti e delle dinamiche sistemiche, ma tanto bastò a
mantenere per decenni lontani e ostili da tale paradigma coloro che si interessavano al cambiamento
sociale più che alla conservazione, alla libertà più che al controllo.

In campo psicologico le cose non andarono molto meglio: qui fu la cibernetica il fattore di maggiore
influenza. Essa forniva infatti, grazie anche ai rapidi sviluppi della tecnologia dell’intelligenza
artificiale, interessanti modelli applicabili anche allo studio dell’intelligenza umana. Il campo
era tuttavia ancora saldamente contrassegnato da una egemonia behaviorista o al più neobehaviorista,
che lasciava ben poco spazio a tali suggestioni, salvo il riassorbirle nei propri schemi limitati
del tipo “scatola nera” e simili. Solo una ristretta minoranza di studiosi si dedicò ad approfondire
la questione, con risultati comunque tutt’altro che disprezzabili, anche se lenti ad affermarsi.
Oltre alla questione della scarsa diffusione, pesò poi anche qui, come in sociologia, quella
dell’accento sul controllo: il cognitivismo infatti, ha risentito a lungo e ancora risente di una
impostazione che dà eccessivo risalto alle capacità omeostatiche del sistema cognitivo di
riassorbire la novità, di ricondurre il nuovo al familiare, di mantenere intatto il suo equilibrio,
ignorando o comunque minimizzando l’altra faccia della medaglia, e cioè la capacità (e il desiderio)
del sistema di modificare i propri schemi, di cercare e trovare una nuova strutturazione interna, un
diverso e più armonico assetto: quella che abbiamo chamato la funzione evolutiva.

Il campo dove i concetti sistemico-cibernetici ebbero maggiore fortuna fu forse quello psichiatrico
e psicoterapeutico, grazie sopratutto ai lavori pionieristici compiuti al Mental Research Institute
di Palo Alto a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Si trattò di studi compiuti su un genere
assai particolare di sistema: le famiglie di persone affette da problemi psichiatrici, in
particolare da schizofrenia; studi che portarono non solo a una diversa e per certi versi
rivoluzionaria concezione delle possibili cause di tali patologie, ma anche ad un nuovo metodo
terapeutico, basato sul principio che l’intervento doveva coinvolgere l’intero sistema familiare e
non solo il paziente designato. In pieno accordo con lo spirito teorico-applicativo che aveva visto
svilupparsi assieme cibernetica e teoria dei sistemi, emergevano in questo ambito al contempo una
teoria e una prassi operativa. Determinante fu, in proposito, il contributo dell’antropologo ed
epistemologo Gregory Bateson, forse il più lungimirante e profondo tra i pensatori sistemici, certo
il più attento alle implicazioni ecologiche ed etiche del nuovo paradigma.

Problemi, soluzioni, complicazioni. Ovvero, come trasformare le situazioni in problemi

Una dei contributi più interessanti della “scuola” sistemico-relazionale di Palo Alto risiede nella
elaborazione di una teoria del cambiamento abbastanza generale da poter essere estesa – mutatis
mutandis – anche ad altri ambiti, diversi da quello clinico-psicoterapeutico in cui si è originata
(cfr. Watzlawick et al., 1974; Watzlawick, 1987). L’assunto di fondo su cui tale teoria si basa è
che in origine non esistono problemi, ma solo situazioni, eventi con cui il sistema si trova a
confrontarsi nel corso della sua esistenza. Una situazione/evento diviene un problema solo se e
quando il sistema si percepisce incapace di accettarne l’esistenza e/o di affrontarla efficacemente,
incapace cioè di trasformarla creativamente in una occasione di esperienza, di apprendimento, di
maturazione. Se prendiamo come esempio il sistema “uomo”, vediamo con chiarezza quanto, sin
dall’infanzia, egli si trovi continuamente di fronte a situazioni/eventi nuovi, sconosciuti, spesso
rischiosi e come tuttavia sia in grado, nella grande maggioranza dei casi, di reagirvi con
creatività ed efficacia. Possiamo anzi dire che oltre a trovarvisi coinvolto, molto spesso il
bambino ricerca attivamente e/o crea lui stesso situazioni nuove da affrontare. Il gioco è lo
strumento principe di tale attività, attraverso la quale egli viene a conoscere ed utilizzare le
proprie potenzialità. Ognuno di noi è ciò che è, grazie alle esperienze che ha fatto fino a questo
momento: più uno ha esplorato con successo le realtà possibili, più si sente armonico, sano,
realizzato, potendo contare su una collaudata capacità di autoriorganizzazione. Viceversa, meno si è
avventurato nelle realtà possibili, meno ha esercitato le proprie potenzialità, e meno è in grado
adesso di far fronte all’imprevisto, alle novità, al mutare delle condizioni esterne e interne. E’
ben noto il fatto che ciò che per alcuni individui è fonte di sgomento, frustrazione, crisi, per
altri può rappresentare un’opportunità di crescita e soddisfazione, magari perfino intenzionalmente
ricercata.

Ma allora si nega forse l’esistenza di problemi? Assolutamente no, solo che è indispensabile
distinguere tra problemi, da un lato, e situazioni/eventi/fenomeni, dall’altro; termini troppo
spesso usati impropriamente come sinonimi. Nella prospettiva che qui seguiremo, un problema è
qualcosa di più complesso e intricato, qualcosa che nasce dal perdurare di un approccio inadeguato
ad una data situazione; è, insomma, il prodotto tra la situazione e il modo (sbagliato) in cui il
sistema intende affrontarla (o anche evitarla, negarla, ignorarla). Abbiamo già accennato ad un caso
emblematico parlando della questione della sovrappopolazione, e molti altri ne potremmo evidenziare;
ad esempio quello del proibizionismo in America durante gli anni ’30, quando, per affrontare la
questione dell’alcolismo, si finì per creare un problema ancor più grande, senza peraltro ridurre
affatto il fenomeno di partenza. Un caso quasi analogo, e molto più vicino a noi, è quello della
tossicodipendenza, che, affrontata con mezzi prevalentemente repressivi, ha finito per produrre uno
sviluppo enorme della delinquenza organizzata, senza affatto risolvere la situazione originale.

Qualcuno potrebbe forse obiettare: “D’accordo, il proibizionismo ha aggravato il problema, ma
l’alcolismo esisteva già, c’era già un problema”. Potremmo rispondere: “E’ vero, ma anche
l’alcolismo è a sua volta il frutto di precedenti approcci controproducenti a date situazioni, sia a
livello individuale che collettivo. A livello individuale l’assunzione eccessiva di alcool è spesso
interpretabile, nella nostra prospettiva, come la risposta (errata) che certi soggetti danno a
situazioni, bisogni, paure che non sanno o non si sentono di affrontare in altro modo: invece di
modificare creativamente e flessibilmente il proprio modo di essere e di rapportarsi agli altri e al
mondo, essi preferiscono colmare le loro paure relazionali affidandosi al momentaneo senso di
potenza fornito dall’alcool oppure servirsi del suo effetto soporifero per fuggire, occultare,
rimuovere qualcosa di spiacevole. E’ un approccio perdente alla realtà, molto simile a quello di
gran parte dei tossicodipendenti: laddove per secoli l’unica risposta possibile alle masse era
l’alcool oggi si sono aggiunte ulteriori e più micidiali sostanze. E anche a livello collettivo
possiamo individuare responsabilità analoghe: poiché affrontare la situazione alla radice avrebbe
richiesto un cambiamento rilevante della struttura sociale e culturale, in quegli aspetti che sono
da sempre alla base dello sfruttamento economico e del condizionamento delle coscienze, i governi
hanno preferito tollerare il fenomeno senza realmente affrontarlo, salvo alcuni casi in cui lo si è
affrontato in modo moralistico, ignorante e arrogante – con la repressione appunto – scaricando
tutta la responsabilità sull’individuo, senza curarsi di comprendere lo stato di difficoltà che sta
dietro a tale comportamento e soprattutto senza riconoscere il ruolo che la società svolge, a vari
livelli, nel creare o comunque favorire l’emergere di tali difficoltà.

In tutti questi casi, e in molti, molti altri, meno estremi e quindi meno evidenti, il problema vero
– quello che ci troviamo di fronte nel qui ed ora – non ha più i contorni della situazione
originale, ma della nuova situazione che si è venuta a creare a seguito delle grandi energie profuse
in direzioni sbagliate; una nuova situazione assai più complessa, intricata, problematica.

Come recita un noto proverbio: “La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni!

In altri termini, non solo certe presunte soluzioni si rivelano, alla luce dei fatti, assolutamente
inefficaci, ma addirittura possono aggravare il problema. L’equazione è quindi così impostabile:
situazioni + soluzione errata = problema.

Gran parte dei problemi che affliggono l’individuo e la società appartengono a questa categoria:
sono problemi creati da noi stessi, dalla nostra rigidità, dal voler dare risposte ideologiche e non
scientifiche alle situazioni. Un approccio realmente scientifico, una volta constatata l’inefficacia
di una certa soluzione, passerebbe immediatamente a provarne un’altra, e poi un’altra ancora,
riflettendo ogni volta sull’insuccesso fino ad individuare la strada giusta. Al contrario, la
società tende troppo spesso a pre-orientare l’intervento nelle direzioni compatibili con i propri
tabù, dogmi, ideologie, e così pure agisce l’individuo. Si pretende di risolvere il problema ponendo
però rigide condizioni preliminari: sì al controllo delle nascite, purché senza l’uso di
anticoncezionali; sì alla riduzione del fenomeno tossico-dipendenza purché non si ammetta la liceità
dei comportamenti e sostanze in oggetto e purché non si tocchino certi tratti dell’assetto
socioculturale, e via dicendo. Ogni “purché” che noi poniamo limita, come è ovvio, la capacità di
intervento, spesso eliminandola del tutto. Questo distogliere l’attenzione e le energie dal centro
reale del problema, focalizzandole su aspetti periferici, sintomatici, non determina solo
inefficacia ma in molti casi aggrava il problema, crea anzi un vero PROBLEMA, laddove in precedenza
esisteva una situazione da affrontare. Questo approccio “perverso” e tutt’altro che creativo,
dipende non soltanto dal porre vincoli rigidi a priori, ma spesso anche dall’ottusità, dalla cecità,
nel senso che di fronte all’evidente insuccesso non si prende neppure in considerazione
l’eventualità che possano esistere altre risposte, altre soluzioni oltre a quelle tentate, ma anzi
si insiste a perseverare in quell’unica direzione con intensità maggiore, come se fosse solo una
questione di quantità, un po’ come l’asino del proverbio che voleva entrare nella stalla dalla parte
sbagliata e, invece di spostarsi di lato e cercare più in là la porta, insisteva a sbattere la testa
nel muro ancora più forte.

Si tratta, insomma, di un modo di porsi profondamente ascientifico, antiscientifico, oltre che del
tutto ideologico, nonostante che, specie a livello politico e sociale, si tenti assai spesso di
legittimarlo con l’opinione di autorevoli “scienziati”, certo più autorevoli che scienziati. E
ovviamente, finché non lo si abbandona, avremo assai poche carte da giocare in qualsivoglia partita,
essendo le migliori già ipotecate in partenza, escluse a priori.

Molti problemi – individuali, economici, sociali – appaiono di difficile o impossibile soluzione
semplicemente perché ormai sono incrostati dalle conseguenze dei prolungati tentativi sbagliati di
affrontarli. Se si vuole realmente e onestamente risolverli, bisogna in primo luogo riconoscerli per
quello che sono e liberarli (iniziando a liberare l’immagine che se ne ha) dalla pesante e
offuscante sovrastruttura di pregiudizi, vincoli ideologici, assunti aprioristici, soluzioni
intensamente perseveranti ma qualitativamente inadeguate. Ciò fatto, gran parte dei problemi si
rivelano assai meno complessi e di più semplice e chiara soluzione.

Una logica di intervento realistica ed efficace deve quindi proporsi di non introdurre nel sistema
ulteriori tentativi di soluzione prima di aver sgombrato adeguatamente il campo e di avere quindi
individuato le radici effettive del problema. Quando esse sono state individuate è allora possibile
progettare e realizzare un intervento che abbia qualche probabilità di riuscita. Non prima!

www.globalvillage-it.com/enciclopedia

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