di Francesco Lamendola – 01/07/2008
A lungo ci siamo chiesti quale sia l’elemento che fa la differenza tra l’atmosfera fascinosa di
certi sogni e quella piatta, banale, che caratterizza – nello stato di veglia – gran parte delle
giornate cosiddette comuni.
Senza alcuna pretesa di farne una legge e con buona pace di psicologi e psicanalisti, siamo giunti
alla conclusione che esso non consiste affatto nel diverso contenuto dei sogni rispetto a quello
della vita desta ordinaria. A parte il fatto che molti sogni non vengono percepiti, mentre si sta
sognando, né come interessanti, né come piacevoli, il fatto decisivo che ci ha condotti a una tale
conclusione è che molti dei sogni che generano un più intenso benessere nel sognatore non presentano
situazioni eccezionali o, comunque, fuori dell’ordinario. Non realizzano desideri più o meno
proibiti; non soddisfano pulsioni represse o rimosse; non vengono a compensare frustrazioni e
delusioni, addolcire amarezze, confortare scoraggiamenti e via dicendo.
I loro contenuti sono assolutamente ordinari o si discostano solo di poco dalla normalità
(relativamente al soggetto, s’intende); e invano vi si cercherebbe quella caratteristica
soddisfazione dei bisogni o dei desideri della vita cosciente, che, secondo le teorie oggi più
accreditate in materia, costituirebbe la vera e ultima ragion d’essere dell’attività onirica.
Premesso che è cosa un po’ azzardata voler parlare del sogno, senza prima averne tentata una
definizione – cosa che richiederebbe una trattazione a parte, se non altro per controbattere certi
consolidatissimi luoghi comuni, ci quali ormai hanno acquisito lo statuto di veri e propri dogmi
popolari -, riteniamo che il fascino strano e assolutamente indefinibile di certi sogni non risieda
nel loro contenuto, ma nella loro tonalità emozionale. Vogliamo dire che la ragione per cui certi
sogni ci procurano un intenso godimento, o, per dir meglio, un intenso coinvolgimento emotivo ed
estetico, scaturisce dalla particolare, inusuale coloritura con cui la nostra coscienza li vive, nel
momento stesso del sogno.
I luoghi, le cose e le situazioni possono discostarsi di poco, quanto ai contenuti, da quelli della
vita cosiddetta reale (come se il sogno non fosse qualcosa di perfettamente reale); si tratta di
luoghi, cose e situazioni possibili o, quanto meno, verosimili; eppure da essi si sprigiona un quid
particolare, inesprimibile, che ha la particolarità di toccarci nel profondo. Quello che la nostra
coscienza onirica percepisce – e che la coscienza desta rimpiange caldamente, al momento del
risveglio – è un senso di aderenza ineffabile tra l’io e le cose; una brillantezza, una intensità,
una pregnanza emotiva, per cui non ci troviamo a recitare la parte di semplici spettatori, ma ci
sentiamo parte consapevole di un tutto vasto e armonioso.
Non c’è bisogno di tramonti da cartolina, di balconi fioriti o di altre immagini sdolcinate; una
casa, una strada, un albero, sono quelli di sempre, o di poco differenti: quel che è cambiato, è la
vibrazione dell’essere di cui noi e loro siamo manifestazioni. Il mondo opaco del tran tran
quotidiano si è eclissato e al suo posto, caldo di vita e denso di partecipazione, è emerso un mondo
tutto nuovo, misterioso, talvolta perfino inquietante, eppure – prodigio! – tale da esercitare su di
noi, più forte di ogni inquietudine, un fascino irresistibile, coinvolgente, dolcissimo. È come se
vedessimo il mondo per la prima volta – e ci accorgessimo che esso è, anche nei suoi aspetti più
comuni, assolutamente straordinario.
Anzi, no: non come se lo vedessimo per la prima volta; piuttosto, come se lo vedessimo come lo
vedevamo nella prima infanzia: con quello stupore, con quella freschezza e con quella ammirazione
che formavano come un alone di luce intorno a ogni cosa. Non c’è, in realtà, un singolo momento in
cui il bambino riceve la rivelazione del mondo per la prima volta; in effetti, egli lo percepisce a
poco a poco, fin dal momento della nascita; meglio ancora, fin da quando comincia a udirlo e a
intuirlo là, dentro il grembo materno. Eppure, nella prima infanzia – e, in parte, ancora per
qualche altro anno – le cose appaiono nuove e, perciò, circonfuse di luce di bellezza.
Quando diciamo “bellezza”, non parliamo di una ben precisa categoria estetica; intendiamo piuttosto
l’attrazione irresistibile che promana dalle cose e che coinvolge in profondità lo stato d’animo di
colui al quale esse si rivelano. Bellezza, quindi, come intima armonia; e, al tempo stesso, come
fascino arcano e aurorale che lega le cose fra loro e alla coscienza che le percepisce e che ne fa
l’esperienza integrale, al di là dei sensi ordinari.
Lasciamo perdere, in questa sede – perché ci porterebbe troppo lontano – se nel sogno non vi siano
anche una dimensione preternaturale ed una soprannaturale. Della prima sono convinte certe filosofie
orientali, e non solo orientali (pensiamo all’antroposofia di Rudolf Steiner), secondo le quali il
corpo astrale può viaggiare, nel sogno, fino ai più lontani pianeti celesti, e poi tornare –
mediante il filo d’argento – a contatto del proprio corpo fisico. Alla seconda credevano fermamente
i popoli antichi (compresi greci, etruschi e romani) e tutti quelli di livello etnologico: per loro,
nel sogno avveniva l’incontro con le divinità e con gli spiriti, i quali trasmettevano messaggi,
profezie e particolari istruzioni al soggetto dormiente.
Lasciamo stare tutto ciò, e limitiamoci alla dimensione puramente naturale del sogno – l’unica
ammessa dalla scienza occidentale moderna. Ebbene: lo stesso fascino, lo stesso coinvolgimento, lo
stesso calore emozionale che possono destare in noi i sogni ordinari dei quali abbiamo detto
poc’anzi, può caratterizzare giorni, ore ed istanti della nostra vita allo stato di veglia,
contrapponendoli nettamente a giorni, ore ed istanti di realtà grigia ed opaca, di pesantezza e noia
esistenziale, di squallore interiore.
S’intende che parliamo di giorni, ore ed istanti in senso figurato e non materiale: perché, in
realtà, non si tratta per nulla di esperienze circoscrivibili in un tempo preciso, scandito dalle
lancette dell’orologio. No di certo: si tratta di stati d’animo che sfuggono a ogni categorizzazione
concettuale e dei quali è possibile fare esperienza, ma non già quantificarla ed esprimerla per
mezzo del linguaggio ordinario; ma ai quali si può alludere, semmai, per mezzo del linguaggio
poetico, nel senso più ampio del termine (musica, pittura e scultura incluse).
Nn si tratta di misticismo. La verità è che ciascuno di noi, indipendentemente dalla eventuale
rielaborazione intellettuale che può farne a posteriori, sperimenta, nel corso di tutta la propria
vita, queste due modalità della coscienza: quella opaca e quella luminosa. Nella modalità opaca,
stanchezza e forza dell’abitudine prendono il sopravvento sul prodigio quotidiano dell’essere che si
rivela, ottundono i nostri sensi e la nostra immaginazione e, alla lunga, producono sintomi di un
disagio profondo, che i medici e gli psichiatri chiamano angoscia, nevrosi, depressione,
esaurimento, in genere accompagnati da disturbi fisici di vario genere (ipertensione arteriosa,
emicranie, insonnia, ulcere, emorroidi e così via).
Quando, invece, sperimentiamo la modalità luminosa della coscienza, il mondo ci appare vivido e
infinitamente ricco e affascinante, come se ogni cosa fosse circonfusa da un alone di gloria e come
se ogni singolo filo d’erba e ogni singola goccia di pioggia avessero uno speciale messaggio da
comunicarci.
Vi sono degli individui infelici che, pur di evadere dalla modalità opaca della coscienza, ricorrono
all’uso sistematico di droghe, cercando nell’assunzione di sostanze chimiche quel senso di incanto,
di armonia e di benessere, che non riescono a raggiungere nella loro vita quotidiana, ma di cui
avvertono dolorosamente l’estrema necessità. E, così facendo, riducono la propria forza di volontà e
le proprie difese organiche, finendo per diventare schiavi di un rimedio peggiore del male, che non
risolverà alcuno dei loro problemi, ma che li trasformerà in poveri esseri svuotati e tremebondi,
alienati dal mondo circostante e da se stessi, prigionieri nel cerchio implacabile di una
assuefazione degradante.
Quando noi incominciamo la giornata con un atteggiamento positivo, conciliante, benevolo ed aperto,
siamo in prossimità di quella che abbiamo definito la modalità di coscienza luminosa,. Non bisogna,
tuttavia, confondere tale concetto con quello di semplice entusiasmo, ottimismo o buon umore, benché
questi possano esserne alcuni degli effetti. E la modalità luminosa non ha a che fare nemmeno con le
prime ore del mattino, con il risveglio primaverile, con il sole dopo la pioggia e cose simili; né
con circostanze particolari, quali la visita inattesa di un vecchio e caro amico, una soddisfazione
professionale, un momento di intimità con la persona amata.
La modalità di coscienza luminosa non è il risultato di circostanze accidentali ed esterne, le
quali, così come sono venute, possono dileguare; non è legata da un rapporto causale ad alcun evento
specifico; e non è neppure il risultato di un buon carattere o di una buona digestione, benché tali
fattori possano spianarle la via. In realtà, si tratta di una rivelazione che ha luogo nel bel mezzo
della quotidianità, e deriva da una convergenza fra la disposizione al dono di sé da parte del
soggetto, e una forza benevola sovra-umana, che può essere evocata con speciali tecniche di
meditazione, con la preghiera, ma che, nella sua essenza, è misteriosa e giunge a noi sotto forma di
dono gratuito e imperscrutabile.
Viceversa, la modalità di coscienza opaca è quella che deriva da una resa alla forza d’inerzia che
insidia la bellezza e la freschezza della vita. Essa si nutre di rassegnazione, scetticismo e
rancore, e spegne ogni forma di creatività e di espansione interiore, facendo valere le ragioni
della routine, magari dopo averle ammantate di nobili ma pretestuose giustificazioni, quali il senso
del dovere e della responsabilità, lo spirito di sacrificio, il sano realismo necessario nelle cose
d’ogni giorno, e magari, specialmente nella odissea del rancore, il sentimento offeso della
giustizia. Il risultato, comunque, è sempre lo stesso: un ottundimento coscienziale che fa
scomparire ogni slancio generoso, ogni tensione verso l’armonia e la pienezza, e piomba l’individuo
in un tunnel senz’aria e senza luce, popolato da creature spettrali e da malevoli fantasmi.
È nel nostro interesse, evidentemente, passare per quanto possibile da una modalità opaca della
coscienza ad una modalità luminosa, anche se non esistono garanzie di successo indefinito o di
permanenza inattaccabile nella seconda. La sensazione di incanto, di benessere e di felice
consapevolezza ci rende più creativi, più disponibili, più pazienti, più tolleranti e più inclini a
godere anche delle cose più semplici. Inoltre, la modalità luminosa purifica i nostri pensieri e i
nostri desideri, ridimensiona le esagerate pretese del falso Ego, mette un freno alle nostre
tendenze narcisiste nello stesso tempo che ci dona energie insospettate, lucidità di pensiero,
intuizione delle convergenze e dell’armonia, capacità di ascolto quasi insospettate, gratitudine
verso la vita e verso l’essere dal quale promana.
Non esistono tecniche specifiche per acquisirla, si tratta piuttosto di un abito mentale che
discende da un insieme di buona volontà, meditazione, preghiera, azione disinteressata e benevolenza
verso il mondo, nonché dall’intervento di quella poderosa forza extra umana alla quale abbiamo
accennato in precedenza, e senza la quale potremmo fare ben poco. Possiamo, però, osservare e cercar
di imparare dalle tre categorie di persone che più si avvicinano, nel loro approccio al reale, alla
modalità luminosa: i bambini, gli artisti e i santi. Lo stupore infinito del bambino, la creatività
inesausta dell’artista e l’abbandono totale del santo, in misura diversa e su piani di realtà ben
distinti fra loro, presentano le caratteristiche più prossime ad essa.
Di queste, la più importante crediamo sia l’abbandono: perché il suo contrario, ossia l’attaccamento
al falso Ego e alle cose del mondo, trasformate in strumenti del nostro piacere, è l’elemento che
più di ogni altro preclude la strada verso la modalità luminosa e tende a rinchiuderci in quella
opaca, grigia e rassegnata.
Forse per questo è stato detto che chi vorrà salvarsi ad ogni costo, finirà per perdersi; mentre chi
sarà disposto a perdersi, alla fine sarà salvo.
In sostanza, una cosa sola manca alla bellezza assoluta del mondo: che l’occhio che lo contempla la
sappia scorgere e apprezzare, divenendo più bello esso stesso, in un circuito virtuoso che non ha
mai fine, sino a quando ogni cosa verrà reintegrata nella sua dimora originaria: la casa
dell’Essere, della quale, per ora, ci è dato appena di intravedere qualche debole e confuso
riflesso, come un bellissimo palazzo che si specchia in un torbido stagno.
Fonte: www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=20029
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