IL RITMO NEL FENOMENO DEL TARANTISMO
di Pumpmoon
I riti della religione e del folklore, nella storia collettiva ci riportano essenzialmente ad
un’esperienza estetica, per certi versi simile a quella dei pittori e dei letterati, quasi alla
pratica di un’arte primitiva che si avvicina all’antica medicina magica. Con la neutralizzazione
della scienza che imprigiona le cose in una catena precostituita di significati privilegiamo il mito
come immagine e gesto vivente, vibrazione e ritmo della natura. “Questo gesticolare patetico, questo
cinema permanente, questo teatro di ombre che anima in segreto la nostra coscienza, questo alfabeto
di simboli e di riti definiscono una civiltà”. (L. Benoist)
Lo studio sul fenomeno del tarantismo così come ci è pervenuto dalle ricerche di E. De Martino, ha
offerto una grossa quantità di materiale per una lettura mitico-culturale delle situazioni
malinconiche e di crisi in generale. Le indagini a cui si fa riferimento, vennero condotte nel 1959,
nella città pugliese di Galatina in occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo dove i tarantati
si raccoglievano per ringraziare i Santi dell’avvenuta guarigione dallo stato di avvelenamento
attraverso il rituale della danza e della musica. La crisi malinconica, nelle sue varianti
profondità, presenta delle analogie con alcuni sintomi dello stato tossico provocato dal morso di
latrodectus, uno dei ragni velenosi che ha prestato figura al mostro mitico della taranta. Jervis
riporta gli effetti del veleno sul sistema nervoso: “Se i sintomi psichici dominano il quadro, il
paziente presenta per breve tempo, una depressione molto marcata dell’umore con angoscie e senso di
morte; quindi con il pieno esplodere della sintomatologia egli diviene confuso, agitato,
ansiosissimo, a volte allucinato”. (E. De Martino)
L’orizzonte significante della malinconia, presenta sorprendenti somiglianze anche con i costumi e i
comportamenti di questo ragno. Il latrodectus costruisce una tela irregolare molto tenace in cui la
vittima resta prigioniera oppure si lascia oscillare nell’aria e si fa trasportare dal vento. (E. De
Martino)
Il mito del morso della taranta sembrava innescarsi su di una crisi reale di latrodectismo,
abbastanza consueto nel mondo agricolo del sud, ma nella maggior parte dei, casi veniva fatta
l’ipotesi che insorgesse la crisi dell’avvelenato, come alto grado di realizzazione simbolica. (E.
De Martino) Il modello del latrodectismo come crisi da controllare ritualmente mediante l’esorcismo
della musica, della danza e dei colori, veniva utilizzato in determinati periodi critici
dell’esistenza, la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un
amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti
familiari, la miseria, la fame o le più svariate malattie organiche (E. De Martino). Questo mito
costituiva “l’occasione per evocare e configurare, per defluire e per risolvere altre forme di
avvelenamento simbolico cioè i traumi e le frustrazioni, tutta la varia potenza del negativo che
rivissuta nei momenti critici dell’esistenza si traduceva in altrettanti pericoli per l’anima”. (E.
De Martino)
Se in virtù di un’analisi culturale il tarantismo come mito e come rito era un dispositivo di
evocazione e di risoluzione di momenti di ansia e depressione, secondo una interpretazione
psicopatologica esso era inteso come malattia e processo di guarigione relativo ad un disordine
psichico. Dal 600 in poi, la medicina oscillava tra l’ipotesi di aracnidismo, colpo di sole o
disordine psichico: “Epifanio Ferdinando che per primo svolse sistematicamente la tesi secondo la
quale il tarantismo era un reale stato tossico derivante dal morso di un aracnide, ricordava come al
suo tempo la presenza di casi ostinati negava tale ipotesi, riferendosi a morbo chimerico o a
melanconia. Successivamente Tommaso Cornelio sosteneva l’ipotesi che i tarantati – per qualche
particolare indisposizione cadono in un delirio melanconico, persuadendosi secondo il volgare
pregiudizio di essere morsi dalla taranta”. (E. De Martino)
Nella prospettiva illustrata da De Martino, il fenomeno del tarantismo si mostra come una
elaborazione culturale che realizza nell’individuo un modellamento profondo riguardante il pensiero,
gli affetti e il corpo. Esso passa attraverso l’ordine formale del ritmico. In chiave psicomotoria,
possiamo affermare che attraverso la correlazione stretta tra fantasia, sequenza muscolare ed
emozione, il movimento presente nel rito consente un continuo passaggio da entità cristallizzate e
compatte a stati di dissoluzione; un effetto catartico, liberatorio delle emozioni attraverso
l’espansione e la contrazione continua del modello posturale del corpo; un tentativo riequilibratore
operante in un ordine psicosomatico. Questa realizzazione simbolica espressa nella ritmicità della
danza e della musica permetteva la compensazione alle frustrazioni e ai lutti della vita attraverso
un progetto socializzato e disciplinato dalla tradizione culturale. “Maria di Nardo a 18 anni si era
innamorata di un giovane, ma per ragioni economiche la famiglia di lui si era opposta al matrimonio,
e il giovane l’aveva lasciata. Maria soffrì molto per questo abbandono, poichè era il suo primo
amore: ed ecco che una domenica a mezzogiorno fu morsa dalla taranta e fu costretta a ballare”. (E.
De Martino)
La taranta assolve alla sua funzione di simbolo facendo rivivere e sciogliendo le oscure
sollecitazioni inconscie che rischiano nei momenti di crisi di sommergere la coscienza nella loro
indominabilità. Nel mito la taranta ha diverse grandezze e diversi colori; danza seguendo diverse
melodie. Essa ha una tonalità affettiva che si rileva nello stato d’animo e nell’atteggiamento di
chi è stato morso: “Vi sono così tarante ballerine e canterine, sensibili alla musica, al canto e
alla danza, e vi sono anche tarante tristi e mute che richiedono nenie funebri e altri canti
melanconici; vi sono poi tarante tempestose che inducono le loro vittime a far sterminio, o
libertine che le stimolano a mimare comportamenti lascivi; e infine tarante dormienti, resistenti a
qualsiasi trattamento musicale. Il simbolo della taranta presta figura all’informe, ritmo e melodia
al silenzio minaccioso, colore all’incolore, in una assidua ricerca di passioni articolate e
distinte lì dove si alternano l’agitazione senza orizzonte e la depressione che isola e chiude”. (E.
De Martino)
Attraverso l’ordine rituale della tradizione coreutica, in un quadro cerimoniale definito, nella
ritmicità del tamburello prendono corpo gli impulsi aggressivi od erotici che ricompongono
l’agitazione psicomotoria disordinata così come vengono abbandonati sotto la sollecitazione musicale
gli stati di inerzia, prostrazione e tedio della malinconia. De Martino constata come fosse diffusa
la componente depressiva nel tarantismo e come “spettasse di norma al ritmo della tarantella
sciogliere tale componente variamente affiorante”. (E. De Martino) La tonalità melanconica della
taranta è illustrata nel rito di Filomena Cerfignano: “Non era stata morsa da una taranta ballerina,
o canterina, o libertina e perciò non ballava, non si sentiva stimolata dai canti gai non si
abbandonava a mimiche lascive. Si trattava di una taranta triste e muta che disdegnava il ritmo
della tarantella e che induceva nella sua vittima una disposizione d’animo melanconica, al più
esprimibile con una lamentazione funebre”. (E. De Martino)
Lascia un commento