Il Senso della Missione di Marco Ferrini

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Il Senso della Missione

di Marco Ferrini

Il tema di cui vorrei parlarvi attiene ad un concetto estremamente complesso, difficile da veicolare in tutta la sua profondità e nelle sue tante e variegate sfaccettature. Ma è talmente rilevante per la vita di uno spiritualista che, con umiltà, dovremmo essere soddisfatti con la parte che di esso riusciamo ad esprimere e a comprendere, senza quell’esosa presunzione di aver detto o compreso tutto. Provo ad esprimerlo in maniera succinta, essenziale, dunque con tutti i pro e i contro che ci sono quando si fa una sintesi.

La vita spirituale può cominciare in tanti modi, nelle maniere più svariate. Può cominciare quando abbiamo raggiunto il vertice della piramide sociale e, pur avendo ottenuto il successo, si prova un’intima insoddisfazione che non riusciamo a spiegarci né a comprenderne le cause, perché non scaturisce da niente in particolare.

Tutti gli obiettivi possibili (fama, successo, ricchezza, potere…) sono infatti stati raggiunti, eppure, nonostante ci sia tutto, inclusa la salute, ci si accorge che in verità non c’è niente su cui possiamo veramente contare. Ciò accade quando scopriamo che tutto ciò che abbiamo conquistato è di natura effimera, transeunte, e che quindi questo genere di successo non può darci reale, duratura e profonda soddisfazione.

La sensazione che qui ho brevemente descritto non è molto comune, non la sperimentano tante persone, però la menziono perché rappresenta un estremo. Poi c’è l’altro estremo: una persona che non è riuscita a conseguire nulla di socialmente rilevante nella vita, che non è stata in grado di esprimere i suoi talenti, che ha fallito in campo professionale, in famiglia, nelle relazioni, che è sola e sofferente, e in questa condizione sente l’impulso e la necessità di trovare risposte e soluzioni al suo malessere.

Quale delle due categorie pensate sia la migliore?

Dal punto di vista evolutivo, nessuna delle due è a priori migliore dell’altra.

Che uno abbia conseguito tanto oppure nulla, o che uno abbia raggiunto dei gradini intermedi nella piramide sociale, non fa differenza alcuna. Se non si innesta la marcia trascendente, a prescindere dalla condizione o posizione in cui ci si trovi, si passa semplicemente da un’illusione ad un’altra. Dall’illusione alla delusione, dall’eccitazione alla frustrazione, da un’amarezza ad un’altra. Da una disgrazia ad un’altra.

Vita spirituale significa comprendere che niente di ciò che è impermanente, materiale,ci può soddisfare. Magari le persone, illuse e cieche come sono, cercano di far di tutto per accaparrarsi cose o conseguimenti mondani: se l’avessi io quella donna o quell’uomo,quella posizione sociale, quella casa, quel lavoro… Come se avendo quello che hanno gli altri, diventassero più felici di quanto non sono coloro che quei possessi già li hanno. No, è un’illusione! Fino a che si ha l’illusione di trovare appagamento nel turbinio di cose materiali, quel che Parmenide o il Samkhya definivano “ciò che non è”, non si può esser felici. La varietà della prakriti (Natura) non può dare soddisfazione permanente, perché l’essere può trarre soddisfazione solo dall’essere, non dal “non essere”. Come afferma la Bhagavad-gita, il sé può esser soddisfatto solo in sé. Fuori dal sé non può esservi soddisfazione, perché fuori dal sé, dall’essere, non c’è l’essere, e se l’essere non c’è, come può esservi soddisfazione?

Abbiamo detto che la varietà della prakriti può temporaneamente eccitare, ma non può dare la felicità. E quando Shrila Prabhupada, grande Maestro della Tradizione Vaishnava della Bhakti, dice che la varietà è sorgente di felicità? Siamo di fronte ad una contraddizione? No,nessuna contraddizione perché qui si intende la varietà spirituale, quella che inerisce al sé. Quella che si può sperimentare se risvegliamo le nostre qualità ontologiche, le facoltà superiori dell’anima. E se una persona sente di non possedere una spiccata sensibilità per la devozione, la purezza, la fedeltà, l’umiltà, la pazienza, la tolleranza? Che fa? Si dispera? Se si dispera, non risolve niente e continua a penare. E se comincia ad invidiare coloro che tali virtù le hanno? Di male in peggio. La soluzione è risvegliare il forte desiderio e l’urgente necessità di raccogliersi, di centrarsi in sé, di ricercare la misericordia divina per risalire la china della inconsapevolezza, dirigendosi verso la consapevolezza. E allora la conoscenza e il bene cominciano a fluire, dentro e fuori di noi. Arrivano a noi attraverso canali diretti (cfr Shvetashvatara Upanishad VI.23: yasya prasadad bhagavat prasada…)

Quando desideriamo centrarci, e pratichiamo con sincerità la meditazione e la preghiera, con l’ispirazione arrivano anche le intuizioni. Arrivano quando desideriamo veramente capire cosa ci è accaduto, il perché siam stati così spesso in errore, oppure perché – pur avendo conseguito così tanti obiettivi- sentiamo che niente davvero ci soddisfa. Da qui ricomincia il cammino evolutivo: la marcia verso la perfezione.

E’ dell’amore per Dio e per ogni sua creatura, la Bhakti, e della conoscenza, Vedanta, che dobbiamo andare in cerca. Nient’altro può darci reale e duratura soddisfazione. E’ la Bhakti mezzo e meta del viaggio. La devozione e la conoscenza, Bhakti-Vedanta, possono perfettamente soddisfarci nell’anima.

Le nove vie del servizio d’amore a Dio, nava-Bhakti-marga, ci consentono di evolvere rapidamente se le percorriamo con un’unica motivazione: elevarci spiritualmente, fino alla realizzazione del puro Amore. Tutte le altre motivazioni potrebbero risultare fuorvianti. Non è facile tuttavia superare il livello di prakrita bhakta, di spiritualisti ancora identificati con le proprie caratteristiche psicosomatiche e ancora alla ricerca di altro rispetto alla Bhakti. Possiamo riuscirci solo se ci predisponiamo in modo tale da poter accogliere e ricevere gli insegnamenti e la misericordia del Sat-guru e di autentici spiritualisti, se ci impegniamo a metterla a frutto nella nostra vita, rimanendo sul sentiero che è stato tracciato dagli Acarya, i grandi Maestri, senza deviare e senza perderci da qualche parte nel labirinto della prakriti.

Che queste riflessioni siano sempre con noi. Non è difficile essere determinati, tolleranti o dire di no ad una tentazione se abbiamo ben chiaro in mente cosa stiamo a fare qui, qual è lo scopo di questa vita incarnata. Se invece non siamo ben centrati, le sollecitazioni esterne prima o poi ci travolgeranno. Per rimanere centrati occorrono il Mahamantra (la pratica della meditazione sui Nomi divini), il Sat-sanga (la compagnia di spiritualisti dedicati), lo studio degli insegnamenti spirituali, il servizio a Dio, praticare la compassione verso tutte le creature, l’attenzione costante per il bene nostro unitamente a quello altrui. Il modo migliore per aiutare le persone e dimostrare loro il nostro affetto è renderle coscienti dei pericoli che si corrono allontanandosi da una visione spirituale, far loro capire che non si costruisce niente se si inseguono solo obbiettivi di ordine mondano. Se il nostro comportamento non è convergente con gli insegnamenti sacri, se non ha come fine servire Dio e innamorarci di Lui, tutto quel che si consegue nella vita incarnata lo si perde. E infine ci accartocciamo su quella struttura corporea materiale che ci aveva illuso.

Che si abbia una bella presenza, una voce suadente, perspicacia e tanti altri talenti, se non ci si dedica al vero impegno, quello evolutivo, tutto si esaurisce con gran frustrazione.

L’unico vero successo è essere desiderosi di servire il Signore e i Suoi devoti. Dobbiamo coltivare questa motivazione nel profondo, qualsiasi cosa ci impegniamo a fare. La consapevolezza spirituale è il parametro con cui si misura la reale evoluzione di una persona.

Shrila Prabhupada diceva spesso: la pratica è la madre della perfezione. Senza praticare nessuno può diventare perfetto. La perfezione non si consegue al colpo di una bacchetta magica. Ecco perché la sadhana, la pratica spirituale, non è un optional. Il segreto del successo nel perseguire la perfezione è la pratica spirituale costante combinata con il distacco emotivo, abhyasa e vairagya. Con intenso desiderio e con la consapevolezza che la sadhana rappresenta uno strumento indispensabile per la nostra salvezza, diveniamo rapidamente entusiasti e fiduciosi nel successo spirituale.

Poiché non viviamo in un ambiente neutro,bensì spesso esposti a campi psichici tossici altrui, se vogliamo liberarci da questa sofferenza, dobbiamo praticare con metodo la vita spirituale.

Far nostra una missione da compiere può facilitarci non poco. Personalmente, dopo aver tanto cercato Dio, fin dai primi minuti in cui ho incontrato Shrila Prabhupada ho sposato la sua missione e ho sentito il desiderio di servirlo dedicandomi ad essa. Ed è stata la scelta più saggia di questa mia presente vita.

Il senso di “missione”, stempera le passioni e consente di sfuggire alla letargia.

Il senso di “missione”, quando la missione è genuinamente spirituale, come affermato nella Bhagavad-gita, consente di equilibrare la vita e di ottenere lo stato di Yoga in tutto quel che si fa.

Marco Ferrini (Matsyavatar das)

da www.marcoferrini.net/

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