Il senso della pratica nel cammino di illuminazione

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Il senso della pratica

di Achaan[1] Thanavaro

Un discepolo chiese al maestro: “Dove posso cercare l’illuminazione?”. Il
maestro rispose: “Qui”. “E quando accadrà?”. “Sta accadendo proprio ora”.
“Allora, perché non la percepisco?”. “Perché non guardi”. “Per cercare
cosa?”. “Niente. Guarda e basta”. “Che cosa?”. “Qualunque cosa su cui si
posano i tuoi occhi”. “Devo guardare in modo speciale?”. “No, il modo solito
va bene”. “Ma non guardo sempre nel solito modo?”. “No”. “E perché mai?”.
“Perché per guardare devi essere qui, e tu il più delle volte sei altrove”.

Questo passo del libro Un minuto di saggezza, di Anthony De Mello, descrive
un po’ la nostra situazione. Pensiamo che l’illuminazione sia molto lontana,
pensiamo che la pace e la felicità che stiamo cercando, anche se in modo
confuso, siano irraggiungibili. Invece, si tratta soltanto di aprire gli
occhi. è difficile aprirli perché sono ben serrati, e la tensione che ci
portiamo appresso come accumulo di reazioni emotive non ci permette di
apprezzare il momento presente. Quando siamo in grado di apprezzare il
momento presente ci rendiamo conto di determinate verità, e questa
comprensione porta un’apertura del cuore, un senso di gratitudine per la
ricchezza della vita.

Ricordo che una delle cose più difficili da apprezzare nella mia infanzia
era la bontà dei miei genitori, il loro impegno nel farmi crescere,
nell’educarmi, nell’incoraggiarmi a fare il bene. Purtroppo, come in molti
rapporti, il conflitto nasceva nel momento in cui il loro concetto di bene,
e quindi le loro aspettative, venivano a cozzare con le mie idee. Oggi
invece so che, prescindendo dalle opinioni personali, possiamo aprire sempre
il cuore all’altro, apprezzarne le qualità e le virtù, condividere con lui
la nostra gioia, renderlo partecipe della nostra vita comunicando, e questo
è vero e importante soprattutto nel rapporto tra genitori e figli.

Credo che tutti abbiamo sofferto, in un modo o nell’altro, per la mancanza
di un rapporto profondo con i genitori e, con il passare degli anni, la
possibilità di recuperare questo rapporto ci sembra sempre più difficile.
Forse i nostri genitori sono morti, forse ci siamo allontanati, ma senza
dubbio quel rapporto ha condizionato sin dall’inizio la nostra vita, ma
quando incominciamo a fare chiarezza sul nostro mondo emotivo incominciamo a
fare chiarezza anche sul passato, e comprendiamo come il passato influisca
sul presente. Potremmo dire che il passato è morto, e di fatto lo è, ma
spesso ce lo trasciniamo dietro, lo teniamo stretto, così che il più delle
volte diventa un cadavere puzzolente. Nonostante costituisca le nostre
fondamenta, sarebbe bene prendere le distanze dal passato mediante un
cambiamento dei rapporti che si sono formati come effetto del nostro
passato. Attuare un cambiamento significa trasformare un peso in un
trampolino, prendere lo slancio per orientarci in modo nuovo e fiducioso nei
confronti della vita.

Osservando la mente vediamo come i ricordi rivestano un ruolo molto
importante nel paesaggio interiore, sono come i monti e le colline che ci
impediscono la vista del sole che sorge. Forse non abbiamo ancora fiducia e
speranza nei frutti della pratica, perché i raggi del sole appena spuntato
non ci scaldano ancora. Forse ci chiediamo: “A cosa serve tutto questo? Se
la mia pratica è solo una scalata, una salita, se è solo fatica senza
ricompensa, senza un momento di serenità, a che serve?”.

Con che finalità pratichiamo? Potremmo cercare la risposta nei libri, nella
dottrina, e a questo proposito ricordo il momento in cui decisi di seguire
una dieta esclusivamente vegetariana. Le difficoltà nacquero quando mi
chiesero le ragioni della mia decisione e io, non avendo le basi concettuali
per formulare una risposta, dovetti ricorrere ai testi che illustrano le
molteplici ragioni di quella scelta. Potremmo fare così, potremmo usare i
testi dottrinali per spiegare agli altri le ragioni della nostra pratica, ma
se facessimo così dimenticheremmo l’impulso spontaneo, il desiderio che
nasce naturalmente dal cuore e che è stato la scintilla che ci ha portati a
una prima apertura, a un primo momento di chiarezza, alla ricerca di un
cambiamento.

La nostra pratica, e il nostro impegno verso la pratica, non hanno bisogno
di essere giustificati o razionalizzati, ma di tanta perseveranza e
soprattutto di tanta pazienza, perché il lavoro, pur non essendo né facile
né difficile, richiede un impegno costante. Per coloro che si sono
avvicinati alla meditazione è importante aver chiaro, anche se a grandi
linee, che cosa stiamo facendo, in che direzione stiamo camminando.

La nostra mente è agitata. Questa agitazione è fatta di desiderio: desiderio
di avere, di afferrare un oggetto e tenerlo stretto, come pure il desiderio
di liberarci, di allontanare un oggetto mentale che non ci è gradito.
Oppure, invece di essere agitata, la mente può trovarsi in uno stato di
torpore, di sonnolenza, più o meno duraturo e indotto da una molteplicità di
cause. La cosa importante è notare la difficoltà a mantenere la vigilanza
quando la mente è sonnolenta. Spesso opponiamo resistenza alla sonnolenza,
nel tentativo di riportare la mente alla sua chiarezza. Molto spesso la
sonnolenza è causata da una mancanza di chiarezza, cioè il raggio
dell’attenzione non mette bene a fuoco l’oggetto, mentre la mente, senza per
altro seguire nessun nesso logico, riempie tutto il suo spazio con immagini
e pensieri disordinati che la offuscano. Se abbiamo una mente portata al
razionalismo e alla concettualizzazione, possiamo riempirci di dubbi circa
noi stessi e tutto quanto. Ma proprio questa forma di ‘squilibrio mentale’,
per usare un’espressione un po’ forte, può diventare uno strumento efficace
per sfoltire tutte quelle elaborazioni concettuali che non fanno che
appesantire la pratica.

La pratica, essenzialmente, richiede grande fiducia, grande abbandono e la
capacità di lasciarsi andare, perché è proprio l’incertezza, il saper stare
con l’incertezza e con l’instabilità di tutte le cose che ci permette di
andare al di là dell’irrigidimento concettuale di tipo dualistico. In questo
modo entriamo in spazi mai conosciuti: lo spazio della consapevolezza.

In questi spazi hanno la possibilità di riemergere situazioni del passato
che si erano sedimentate, perché la capacità di osservazione permette ai
materiali rimossi di emergere nella coscienza. E sarà quella stessa energia
repressa dalla mancanza di accettazione che ci darà la forza di praticare e
una più salda convinzione sugli effetti della pratica.

Preoccupazioni e paure non mancano e non mancheranno, perché stiamo
esplorando spazi sconosciuti, ma, ancora una volta, è nella consapevolezza
che possiamo trovare rifugio. Prendere rifugio nel Buddha significa
essenzialmente prendere rifugio nella consapevolezza, nella capacità di
essere presenti, nella capacità di conoscere le cose per ciò che sono al di
là dell’identificazione, al di là del coinvolgimento, della reattività, dei
travisamenti e delle interpretazioni. Le cose così come sono.

Osservandole, incominciamo a notare che la loro apparente realtà è comunque
transitoria. Poi, portando l’attenzione un po’ più a fondo, scendendo un po’
più in profondità, vediamo che l’apparente realtà dell’oggetto, del
fenomeno, dell’avvenimento o del ricordo è priva di sostanzialità, che
niente esiste indipendentemente da una causa o una condizione che lo
produce. Questa continua interdipendenza e interrelazione è la sostanza
stessa dell’universo. Questo nostro universo si rivela allora ‘vuoto’, privo
di una sostanzialità a sé stante, e anche il nostro io, il centro da cui
osserviamo il mondo, si rivela della stessa natura.

Questa considerazione può spaventare. Forse, durante l’immersione
meditativa, avete vissuto momenti di panico o di paura, momenti in cui vi
sembrava di perdere il controllo. Forse i pensieri si accavallavano in modo
irrazionale, forse ci siamo sorpresi davanti alla loro forza e ai loro
contenuti. è un po’ come aprire una botola e scoprire che tutto ciò che
avevamo messo in cantina perché si conservasse è marcito. Il piano superiore
della casa si riempie di odori nauseabondi. A questo punto potremmo chiudere
la botola, aprire le finestre, fare una passeggiata e, al ritorno,
dimenticare tutto. Ma una casa è fatta di un piano superiore e una cantina,
e così la mente, la mente ordinaria, conscia, poggia su contenuti che non
vengono lasciati emergere ma che costituiscono la base del nostro modo di
vivere.
Penso sia opportuno fare una profonda pulizia dei contenuti mentali, proprio
per eliminare le cause della sofferenza.

Un discepolo chiese al maestro quali fossero le cause della sofferenza. Il
maestro rispose: “è la tua incapacità a restare seduto in silenzio”. Con
questa risposta voleva sottolineare l’importanza della meditazione,
l’importanza del silenzio mentale per far luce sulle cause della sofferenza.
Durante i primi giorni di questo ritiro abbiamo fatto un certo tipo di
lavoro che ci ha permesso di tranquillizzare la mente. Questo lavoro
preliminare ci permetterà adesso di penetrare nelle cavità, nella miniera
della mente. Per immergerci in questo lavoro dobbiamo avere coraggio, forza
e anche capacità di astinenza. Sappiamo che, nelle profondità della miniera,
c’è un filone di luce. La luce è il metallo più prezioso e, stranamente,
come tutti i metalli, viene trovato nell’oscurità. Questa miniera non è
altro che la mente che conosciamo, è come un cunicolo, una galleria in cui
dobbiamo aprirci la strada rimuovendo a colpi di piccone le ostruzioni,
ossia i pensieri che ci impediscono di avanzare.

Le ostruzioni sono gli stati mentali di rabbia, odio, avversione,
agitazione, sonnolenza, torpore, dubbio, desiderio e brama sensoriale. Li
avete sperimentati? Con il piccone ne abbiamo rimosso qualcuno, ma
probabilmente non siamo riusciti a eliminarli del tutto. In ogni caso
abbiamo avanzato lungo il percorso e, sostenuti dalla luce della presenza
mentale, o sati, e guidati dal ricordo costante che la nostra missione non è
altro che la volontà di procedere alla ricerca di questa fonte di luce,
abbiamo aperto un piccolo spiraglio.

è un’esplorazione che non parte dalla superficie per scendere in profondità
ma che, piuttosto, parte dalle viscere stesse della terra alla ricerca di
una via d’uscita da questo mondo tenebroso, da questo offuscamento, questo
oscuramento. Ci muoviamo dall’interno della terra al suo esterno servendoci
della luce della presenza mentale. Più procediamo senza perdere la fiducia e
la speranza, più vediamo spiragli e più incominciamo ad assaporare la
libertà. Così, quella che all’inizio era semplice fiducia o speranza, si
trasforma in certezza, perché tutti, nel corso della pratica, viviamo
momenti di grande limpidezza. Sono i momenti in cui la natura ultima della
mente si rivela qui e ora, al di là delle limitazioni e delle ostruzioni.
Sono piccoli assaggi che costituiscono le vere basi dello sviluppo
spirituale. Basta un pizzico di libertà per farci dimenticare le
distrazioni. Quando sperimentiamo direttamente, dentro di noi, gli effetti
della pratica, non abbiamo più bisogno di giustificazioni, convinzioni o
sostegni.

Mi viene in mente un episodio della vita del Buddha. Subito dopo
l’illuminazione, un viandante incontrò il Buddha e, vedendone l’aspetto
particolarmente sereno e la grande luminosità, si fermò per chiedergli chi
fosse. Pensava che fosse una divinità, ma il Buddha rispose: “No, non sono
un dio. Sono l’illuminato, il Buddha”. Il viandante non capì. Disse: “Buon
per te”, e continuò per la sua strada. Si dice che proprio questo incontro
inducesse il Buddha a servirsi degli abili mezzi e a esporre le quattro
nobili verità nel parco delle gazzelle di Sarnath, mettendo in moto la ruota
del Dhamma.

L’episodio interessa anche noi perché, come il viandante, vincolati da tutti
i nostri legami e attaccamenti, non abbiamo la presenza mentale che ci fa
riconoscere in noi il seme del risveglio, la potenzialità
dell’illuminazione. I vincoli e i legami ci fanno vivere nel passato e ci
proiettano nel futuro con tutte le nostre paure.
Il risveglio è apertura. Nel momento del risveglio si apre la suprema
visione profonda. La difficoltà, come abbiamo già detto, sta nell’aprire gli
occhi, e non nel vedere in sé. Non siamo così malati, la nostra mente è
fondamentalmente sana e nella sua natura essenziale è luminosità senza
limite. Non ce ne rendiamo conto perché non abbiamo fiducia e, soprattutto,
perché abbiamo paura della libertà, perché immaginiamo che la libertà sia
qualcosa di totalmente diverso.
Spesso mi viene rivolta la domanda: “Per intraprendere un cammino
spirituale, devo gettare via tutto quello che possiedo?”. Ecco la paura:
abbandonare ciò a cui teniamo. è possibile comunque rapportarci alle cose in
modo più funzionale e più pratico, conservare ciò che ci serve e fare a meno
del superfluo. Siamo capaci di fare un po’ di pulizia?

Scendiamo in cantina e togliamo il superfluo. Certo, richiederà un po’ di
lavoro, perché è molto più facile usare la cantina per buttarci dentro di
tutto e chiudere la porta, ma, se avremo fatto un po’ di pulizia, avremo più
spazio, avremo acquisito la capacità di non accumulare. Questo è il segreto.
è inutile fare cure dimagranti se continuiamo a mangiare come bufali.

A questo proposito c’è una storia divertente. Un turista americano in Cina
prende un taxi e si accorge che per strada non ci sono auto, ma solo
biciclette. “Che strano”, commenta. “Qui vanno tutti in bicicletta”. E il
tassista: “Perché, nel vostro paese come fate?”. “Nel nostro paese, sono
anni che non andiamo più in bicicletta”. “E non la usate mai?”. “Oh sì”
risponde l’americano, “la usiamo in soggiorno per dimagrire”.

Sono i controsensi dell’era moderna. La nostra ricchezza è diventata un
sovraccarico, quando sarebbe assai utile se fossimo capaci di aprire le mani
e condividerla con gli altri, facendo progetti portatori di luce. Per quanto
riguarda l’ecologia della mente, il Buddhismo ci presenta un insegnamento
molto, molto valido. Sappiamo infatti che gli squilibri sono creati dalla
brama, dallo sfruttamento degli uomini e delle risorse naturali.

Applicando la consapevolezza del respiro stiamo apprezzando la possibilità
di respirare grazie alle condizioni di questo pianeta, condizioni che sono
ideali per la nostra vita. Ma questo stesso pianeta è soggetto alla
transitorietà, e la vita su di esso è il risultato del modo in cui le
generazioni precedenti hanno vissuto. Ormai in molte città è difficile
respirare e, ancor più, meditare. Rifletteteci. Se è difficile la semplice
funzione fisiologica del respirare, sicuramente le condizioni di vita
risulteranno talmente distorte da creare forti stress, grossi conflitti.
Purtroppo, e dico purtroppo, la meditazione è per gli eletti. Se siete qui è
grazie alla virtù del vostro kamma[2].. Forse la vostra virtù è mascherata
da sofferenza, ma è la presa di coscienza della nostra sofferenza e la
consapevolezza dell’insoddisfazione che ci ha portato al lavoro spirituale.

Siamo tutti soggetti al kamma del passato, è una forza dirompente che crea
dentro di noi un senso di disagio, di malessere, ma non è un malessere
incurabile. Stiamo imparando a usare gli strumenti per intervenire, e spetta
a ciascuno di noi procedere nel lavoro, fare piccoli passi di luce per
essere luce noi stessi.

POMAIA, giugno 1993
(Tratto dal libro di Achaan Thanavaro Verso la Luce, Ubaldini Editore)

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Mario Thanavaro è un qualificato maestro di meditazione vipassana. Si è
formato nella Scuola Theravada secondo la tradizione dei Maestri della
Foresta di Achaan Chah e Achaan Sumedho.

Nel 1990 ha fondato il monastero Santacittarama (Il giardino del cuore
sereno) di cui è stato abate per 6 anni. Negli ultimi 30 anni ha incontrato
e ricevuto preziosi insegnamenti da moltiMaestri tra i quali: S.S. il Dalai
Lama, S.S. il Karmapa, il Ven. Kirti TsenshabRinpoche, Krishnamurti, Namkai
Norbu e il maestro mahayana Hsuan Hua.

Ha ricoperto la carica di presidente dell’Unione Buddista Italiana (U.B.I) e
di Vicepresidente della Fondazione Maitreya.Tornato alla stato laicale dopo
18 anni di vita monastica,oggi è presidente dell’Associazione Amita Luce
Infinita.

Come amico e guida spirituale assiste coloro che camminano sul sentiero del
Risveglio e nel contempo cercano di essere d’aiuto agli altri.

E’ autore di diversi libri tra i quali: “Non creare altra sofferenza”,
“Verso la Luce”, “Da cuore a cuore”, “Uno sguardo dall’arcobaleno” e
“Meditiamo insieme” editi da Ubaldini.Per Promolibri Magnanelli ha
pubblicato:”La via del pellegrino – Visita ai luoghi sacri del Buddha”

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per informazioni sugli incontri di Mario Thanavaro

www.amitaluceinfinita.it

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[1] Il termine thailandese Achaan deriva dal sanscrito acariya, che
significa maestro, ed è un appellativo usato per i monaci con almeno dieci
anni di anzianità. Viene trascritto sia con Achaan che con Ajahn.

[2] Kamma: termine pali (in sanscrito kamma) che significa ‘azione’. E’
usato in più tradizioni spirituali e religiose ed in ognuna è inserita in
uno specifico costrutto teorico e di pratiche che, pur nel rispetto della
radice sanscrita, la arrichiscono di specifiche qualità. Ogni azione nasce
da una causa ed è, a sua volta, germoglio di una nuova azione. In
quest’ottica
nulla è mai definitivamente concluso e la vita, nel suo insieme come nella
specificità dell’esperienza umana, non è che flusso perenne di cause ed
effetti. Il Karma è inesorabile fluire di avvenimenti che può diventare
“coattivo”, “costrizione ad essere oggi quello che si è determinato ieri”.
In modo più semplice si può dire che gli avvenimenti seguono un ritmo di
causalità (germoglia quello che si è seminato) e vivere ad un livello in cui
si è a contatto con la propria energia primaria, quella che ci plasma in
ogni momento liberi da condizionamenti, fa in modo che il seme sia in ogni
momento scevro da condizionamenti perché in ogni attimo intriso di energia
creativa originaria. (da Enzina Luce Franzese – Essere Amore, Essere Luce –
Abbaterizzo Editore)

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