di Annie Besant (parte quarta)
ANNIE BESANT “IL SENTIERO DEL DISCEPOLO” (Quattro discorsi tenuti ad Adyar nel 1895)
SOCIETÀ TEOSOFICA ITALIANA – R O M A 1957 – Parte quarta –
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Poiché la mente inferiore, quando è così tranquilla, quando è vinta la sua irrequietudine, diventa
come un calmo lago non increspato da alcun vento, non mosso da alcuna corrente. Questo lago è come
uno specchio, e sulle sue acque lucide e quiete il sole che è in cielo brilla e si riflette; così
anche la coscienza superiore si riflette nello specchio della tranquilla mente inferiore.
Ed allora l’uomo sa, non più per autorità ma per scienza propria, di essere qualche cosa di più
della mente che egli aveva conosciuto come intelletto; sa che la sua coscienza è più grande della
coscienza passeggera della mente; allora gli diventa possibile cominciare ad identificare sé stesso
con la coscienza superiore e ad afferrare, sia pur di sfuggita, un barlume della maestà del Sé.
Poiché ricordate come vi sia sempre insegnato dalle grandi Sacre Scritture che voi siete il
superiore e non l’inferiore.
Che cosa significa l’affermazione che leggiamo nel Chândogya Upanishad e altrove: “Tu sei Brahman.”,
“Tu sei Quello”, affermazione che il Buddista ripete con le parole: “Tu sei Buddha” Questo non sarà
mai un fatto di coscienza per voi, per quanto possiate esserne intellettualmente convinti, fino a
quando non abbiate con la meditazione ridotto la mente inferiore ad essere lo specchio in cui si
possa riflettere quella superiore; allora in uno stadio ulteriore di meditazione voi stessi
diventerete coscientemente il superiore e saprete ciò che tutti i grandi Maestri hanno inteso dire
con quella frase famosa, che ha in sé, la proclamazione dell’innata divinità dell’uomo.
Quando ciò è fatto quotidianamente, quando è praticato con una meditazione continuata di giorno in
giorno, di mese in mese, di anno in anno, questa trasformazione invade gradatamente tutta quanta la
vostra vita e diventa costante invece che parziale. Limitata dapprima al tempo della meditazione, si
effonde poi nella vita vissuta nel mondo. Potreste dire: Come posso io essere cosciente del
superiore quando l’inferiore è in piena attività? Non sapete come, inchinandovi dinanzi all’altare,
voi potete valervi del vostro corpo per offrire dei fiori, mentre la mente è concentrata sulla
Divinità?
Vi è l’attività esteriore del corpo, eppure il vostro pensiero non è ai fiori che offrite ma
all’oggetto a cui li offrite; le mani fanno il loro dovere ed eseguono perfettamente l’offerta dei
fiori, quantunque la mente tenga fissi i suoi pensieri sulla Divinità. E così nel mondo esteriore
degli uomini voi potete offrire i fiori del dovere in una vita di costante attività, di lavoro
giornaliero; voi potete offrire questi fiori col corpo e con la mente, adempiendo col massimo
scrupolo il vostro dovere nel mondo esteriore, ma sarete sempre fissi nella meditazione e
nell’adorazione. Una volta che avrete imparato a separare la vostra coscienza superiore dalla
inferiore, a separare voi stessi dalla vostra mente, acquisirete grado a grado la facoltà di mettere
in opera le attività mentali senza perdere in esse l'”Io” reale, e la mente compirà in modo perfetto
i doveri che le sono propri mentre il Sé rimarrà a più sublimi altezze.
Voi non lascerete mai l’intimo santuario, per quanto la vostra vita esteriore sia affaccendata nel
mondo degli uomini. In questa guisa l’uomo si prepara a diventare discepolo. Vi è un altro stadio
che dobbiamo considerare, quello che io chiamo il lato intellettuale della meditazione, e che si
riferisce alla graduale e cosciente formazione del carattere. Torno di nuovo al grande trattato di
Karma-Yoga, gli insegnamenti di Shrî Krishna nella Bhagavad Gitâ. Nel sedicesimo discorso troverete
il lungo elenco delle qualità che un uomo deve sviluppare in sé stesso (per poter nascere con esse
in avvenire. Esse sono chiamate le divine proprietà e ad Arjuna viene detto: “Tu sei nato con
proprietà divine, o Pândava”. Ora, perché voi possiate portarle con voi rinascendo, bisogna che le
acquisiate di vita in vita; e l’uomo del mondo che vuol sapere come formarsi il carattere non ha di
meglio da fare che prendere questo elenco delle qualità, delle proprietà divine che occorrono al
discepolo, e costruirsele ad una ad una nella sua vita quotidiana con un processo combinato di
meditazione e di azione.
La purezza, per esempio, è una di queste. Come può un uomo procurarsi la purezza? Col prendere la
purezza come uno degli oggetti della sua mattutina meditazione e col penetrarne tutto il
significato. Nessuna impurità di pensiero lo deve mai toccare, nessuna impurità di azione lo deve
mai macchiare; deve essere puro nella triplice collana dell’azione, della parola e del pensiero.
Questo è il triplice accordo del dovere, come già altra volta vi rammentai, ed è quanto sta appunto
a rappresentare il triplice filo del Bramano. La mattina egli pensa alla purezza come cosa
desiderabile e ch’egli deve raggiungere; quando esce nel mondo porta con sé la memoria della sua
meditazione. Egli vigila le proprie azioni, non permette che nessuna azione impura macchi il suo
corpo. Vigila, le sue parole: non pronunzia parola impura, non accenna nei suoi discorsi a nessun
argomento impuro, non permette alla sua bocca di lordarsi con espressioni impure.
Ogni sua parola è pura, tanto pura, che egli potrebbe ardir di parlare in presenza del suo Maestro,
il cui occhio vede ogni più piccola macchia di impurità che sfuggirebbe all’occhio del comune
mortale. Il suo pensiero sarà puro. Non permetterà che nessun pensiero impuro si affacci alla sua
mente, o, se vi si affaccia, lo scaccerà subito; e siccome egli sa che questo pensiero non potrebbe
venire nella sua mente se non vi fosse in essa qualche cosa che lo attrae, egli la purificherà
affinché nessun pensiero impuro di altri possa mai entrarvi. Così egli vigila su questo punto
1’intiera giornata. E prenderà pure la verità come soggetto delle sue mattutine meditazioni; penserà
alla verità, al suo valore nel mondo, al suo valore nella società, al suo valore per il suo proprio
carattere; e quando uscirà nel mondo degli uomini, non commetterà mai atto che possa produrre una
falsa impressione, non pronuncerà mai parola che possa portare con sé una falsa idea. Non solo non
mentirà, ma curerà persino di essere quanto più potrà preciso, perché l’imprecisione stessa è
falsità. Non essere precisi nel racconto di ciò che si è veduto è non dire il vero.
Ogni esagerazione od abbellimento di un racconto, tutto ciò che non è perfettamente conforme al
fatto quale è a nostra conoscenza, ogni cosa che abbia una piccola ombra di falsità, deve essere
evitata da chi vuol diventare discepolo. Ed egli deve essere sincero anche nel pensare. Ogni suo
pensiero deve essere quanto di più veritiero egli possa formulare, affinché nessuna ombra di falsità
contamini la sua mente.
Lo stesso si può dire della compassione. Egli mediterà la mattina sulla compassione e cercherà di
praticarla durante il giorno; si mostrerà oltre ogni dire benevolo verso le persone che lo
circondano, renderà ogni sorta di servigi alla famiglia, agli amici, ai vicini. Dovunque vedrà un
bisogno cercherà di soddisfarlo, dovunque vedrà una miseria cercherà di alleviarla. Penserà alla
compassione e la vivrà, formandone così una parte del proprio carattere. Lo stesso farà con la forza
d’animo. Penserà alla nobiltà dell’uomo forte, dell’uomo che nessuna circostanza esterna può
deprimere o insuperbire, dell’uomo che non s’imbaldanzisce per il successo né si abbatte per
l’insuccesso, che non è in balia delle circostanze, triste oggi perché le cose sono difficili,
allegro domani perché sono facili. Egli cercherà di essere sempre lo stesso, equilibrato e forte,
mettendo in pratica nel mondo quanto ha meditato; se gli accadono dei guai penserà all’Eterno, alla
cui Luce ogni guaio svanisce.
Se perde del denaro penserà alla ricchezza della conoscenza, che nessuno può rapirgli; se un amico è
colpito dalla morte penserà che l’anima non muore, che il corpo mortale non è se non un vestito da
buttarsi via quando è consumato per prenderne un altro; e che egli ritroverà quel suo amico. E così
dicasi di tutte le altre virtù: del sapersi frenare, della pacatezza, della intrepidezza, tutte cose
a cui penserà e che metterà in pratica. Non tutte in una volta però. Nessun uomo al mondo potrebbe
aver tempo sufficiente per meditare ogni giorno sopra ognuna di queste cose; ma bisogna prenderle ad
una ad una e coltivarle nel proprio carattere. Lavorate con costanza; non abbiate paura di
impiegarvi del tempo, non vi spaventino gli sforzi che dovrete fare. Ciò che voi fate lo fate per
l’eternità, e potete bene essere pazienti nel tempo, quando vi si schiude dinanzi l’eternità. Ciò
che edificate, lo edificate per sempre. La meditazione sola o la pratica sola sono insufficienti per
formare il carattere. Tutte e due devono procedere di pari passo, tutte e due devono far parte della
vita giornaliera; in questa guisa si forma un nobile carattere.
Un uomo che si è così allenato; un uomo che ha fatto quanto poteva, che ha dato il suo tempo, i suoi
pensieri, le sue cure per rendersi degno di trovare il Maestro, lo dovrà alla fine trovare
veramente, o piuttosto il Maestro troverà lui e Si manifesterà alla sua anima. Poiché vi immaginate
voi forse, nella vostra cecità ed ignoranza, che questi Maestri desiderino rimanere nascosti? Vi
immaginate forse voi, a cui l’illusione fa velo, che Essi si tengano deliberatamente nascosti agli
occhi degli uomini, lasciando che l’umanità incespichi senza aiuto, e non desiderando assisterla e
guidarla?
Io vi dico, che se pure per un momento voi desiderate trovare il vostro Maestro, il Maestro è mille
volte più costante di voi nel suo desiderio di trovar voi per potervi aiutare. Guardando al mondo
degli uomini Essi vedono quanto scarsi siano gli aiutanti in confronto a quanti sarebbero Loro
necessari. Le masse periscono nell’ignoranza; hanno bisogno di istruttori, e nessuno vi è per
aiutarle. I grandi Maestri hanno bisogno di discepoli che vivano nel mondo inferiore e che, educati,
da Loro, portino aiuto ai sofferenti, portino cognizioni alle menti offuscate. Essi stanno sempre a
guardar nel mondo per scoprirvi un’anima che voglia e possa essere aiutata, per accorrere a quelle
anime che sono pronte a riceverli e che non chiuderanno davanti a Loro le porte dei loro cuori.
Poiché i nostri cuori sono chiusi a Loro, e saldamente chiusi, così che Essi non vi possono
penetrare. Essi non possono abbattere le porte ed entrare con la forza. Se un uomo sceglie la
propria strada e chiude le porte, nessun altro può girarne la chiave.
Noi siamo chiusi dai desideri mondani, siamo chiusi dall’attaccamento alle cose terrene, siamo
chiusi con le chiavi del peccato, dell’indifferenza, dell’accidia; ed il Maestro aspetta sino a
quando la porta si aprirà per passarne la soglia ed illuminare la mente. Voi direte: come potranno
Essi riconoscere, fra le miriadi di uomini, l’anima che lavora per Loro e si rende degna della Loro
venuta? La risposta fu data altra volta con un paragone: come un uomo che dalla cima di una montagna
guardi nelle sottostanti vallate può scorgere una luce in una sola capanna, perché la luce brilla in
mezzo alla circostante tenebra, così la luce di un’anima che sia pronta si scorge fra le tenebre del
mondo circostante, e colpisce l’occhio dell’Osservatore sulla montagna richiamandone l’attenzione.
Illuminate l’anima vostra, affinché il Maestro la possa vedere.
Egli sta in osservazione, ma voi dovete dare il segnale affinché Egli possa diventare vostro Maestro
e vostra guida. Quanto grande ne sia il bisogno voi comprenderete forse meglio più tardi, quando
tratterò del lavoro del discepolo e di quanto egli possa realizzare; ma sino da ora ricordate che il
Maestro vigila, aspetta, desidera trovarvi, desidera insegnarvi; voi avete il potere di chiamarlo,
voi soli potete farlo venire. Egli può battere alla porta del vostro cuore, ma siete voi che dovete
dire la parola che Lo invita ad entrare; e se vorrete seguire il sentiero che ora vi ho tracciato,
se passo passo voi vorrete così imparare il dominio della mente, la meditazione, la formazione del
carattere, voi avrete pronunziato la triplice parola che rende possibile al Maestro di rivelarsi.
Quando la parola sarà proferita nel silenzio dell’anima, allora le apparirà dinanzi il Maestro, e
voi vi troverete ai Suoi Piedi.
LA VITA DEL DISCEPOLO – IL SENTIERO PROBATORIO – LE QUATTRO INIZIAZIONI
Nei due discorsi precedenti ho trattato della vita degli uomini nel mondo, ed ho indicato come in
questa vita ordinaria essi possano prepararsi gradatamente per i più elevati stadi dell’evoluzione,
come possano a poco a poco prepararsi a più rapidi progressi, a più rapidi avanzamenti. Ma ora
dobbiamo prendere in considerazione ben altro che la vita ordinaria dell’uomo – non la sua apparenza
esteriore, ma dobbiamo studiare la realtà interiore. Poiché gli stadi dell’umano progresso, di cui
ora dobbiamo trattare, sono stadi distinti e definiti, che conducono l’uomo dalla vita mondana a
quella delle regioni più elevate, dall’ordinaria umanità ad un’umanità divina. E siccome per questo
dovremo uscire dai limiti dell’esperienza comune, così il compito riuscirà alquanto difficile tanto
per voi che mi ascoltate, quanto per me che parlo. Poiché nel trattare di questi più elevati
argomenti bisogna fare appello a facoltà superiori; e meglio potranno seguire questi elevati
insegnamenti coloro che hanno almeno tentato di realizzare, sino ad un certo punto, quella
purificazione di vita e quella educazione del carattere, che furono argomento dei due discorsi
precedenti.
Vi ho fin qui condotti al punto in cui un uomo, con l’aver cercato di migliorar la sua vita, di
dominare il suo pensiero e di prepararsi a divenire un discepolo, ha attirato l’attenzione di
qualche grande Maestro, di un Guru, così che può ora cominciare i primi stadi del discepolato. Di
questi stadi appunto dobbiamo ora occuparci.
I primi stadi costituiscono quello che fu chiamato “il sentiero probatorio”, vale a dire lo stadio
di prova considerato separatamente da quello di discepolo accettato. Nel sentiero probatorio, mentre
possiamo riconoscere certi stadi e l’acquisizione di certi determinati requisiti, non troviamo né
gli uni né gli altri così nettamente segnati come nel Sentiero propriamente detto, quello cioè del
discepolo riconosciuto e accettato. Nel Sentiero vero, in cui il discepolo non solo è riconosciuto
dal suo Maestro, ma riconosce egli stesso il Maestro, i quattro stadi sono assolutamente distinti,
contrassegnati da nomi diversi e separati da diverse Iniziazioni. Nel sentiero probatorio gli stadi
esistono, ma non sono separati così distintamente; si può dire che procedono l’uno accanto all’altro
piuttosto che succedersi l’uno all’altro. Dal novizio in prova, come possiamo chiamare colui che
pone piede su questo sentiero, non si pretende che compia perfettamente tutto ciò che comincia a
praticare. Si pretende da lui lo sforzo, non la perfetta esecuzione.
Basta che egli sia costante, che i suoi sforzi siano continui, che non cambi proposito, che non
perda di vista la sua mèta. Molta tolleranza gli sarà accordata in quanto a debolezze umane e a
quella mancanza di cognizioni che ostacola ancora il suo progresso. Le prove che subisce, i cimenti
cui viene sottoposto, sono le prove ed i cimenti che si incontrano nella vita ordinaria, difficoltà
d’ogni specie e forma, sulle quali avrò fra poco da dire qualche parola, ma che non sono della
natura di quelle che appartengono al Sentiero propriamente detto. Gli stadi del Sentiero probatorio,
se ben rammento, sono stati illustrati alcuni anni or sono da un Bramano, membro della Società
Teosofica, Mohini Mohun Chatterji di Calcutta.
Egli enumerò i cosiddetti passi preliminari che l’uomo deve fare e compiere, aiutato fino ad un
certo punto dal suo Maestro, ma per lo più senza che egli se ne renda conto nella sua coscienza di
veglia; al novizio pare di percorrere da solo il Sentiero facendo assegnamento unicamente sulla
propria forza ed energia. Non mi occorre dire che questa è un’illusione dovuta alla sua cecità ed
ignoranza, poiché gli occhi del Maestro sono sopra di lui, sebbene ciò non gli sia noto nella sua
coscienza di veglia, e l’aiuto viene sempre a lui dai piani superiori di esistenza, aiuto che si
manifesta nella sua vita, sebbene non possa manifestarsi in modo chiaro alla sua mente durante la
veglia. Ed ora vedremo come i requisiti, di cui abbiamo già parlato quali preparatori in senso
generale, prendano un carattere più definito sul Sentiero probatorio.
Il primo requisito è il frutto delle esperienze per le quali il novizio è passato. Esse svegliano ed
educano in lui Viveka ossia il discernimento, discernimento tra il Reale e l’irreale, tra l’Eterno e
il transitorio. Finché questo discernimento non appare, egli sarà legato alla terra dall’ignoranza,
e gli oggetti terreni eserciteranno sopra di lui tutta la loro avvincente seduzione. I suoi occhi
devono essere aperti, egli deve penetrare attraverso il velo di Mâyâ almeno quanto basti per
classificare secondo il loro vero valore le cose terrene; poiché da Viveka nasce il secondo dei
requisiti:
Vairagya. Ho già accennato come l’uomo debba cominciare con l’avvezzarsi a distaccarsi dai frutti
dell’azione. Egli deve avvezzarsi a compiere l’azione come un dovere, senza pensare continuamente ad
un qualsiasi guadagno personale. Naturalmente, l’uomo deve essersi dedicato per varie vite
precedenti a questo genere di educazione, prima che da lui si pretenda un tal risultato in modo
quasi completo; ma, perché l’Iniziazione sia possibile, occorre che egli sia diventato
definitivamente indifferente agli oggetti terreni. Indifferenza agli oggetti terreni, indifferenza
agli oggetti mondani, Vairâgya, questo è, il secondo dei requisiti per il Sentiero probatorio del
discepolato.
Egli ha sviluppato Viveka, che, come abbiamo detto, significa discernimento fra il reale e il non
reale, fra il transitorio e il permanente. Allorché il senso della realtà e della permanenza si è
imposto alla mente dell’uomo, inevitabilmente gli oggetti mondani perdono per lui la loro
attrattiva, ed egli diventa del tutto indifferente ad essi, Quando si è scorto il reale, l’irreale
non soddisfa più; quando si è riconosciuto, sia pure per un solo istante, ciò che è permanente, il
transitorio appare ben poco meritevole di essere ricercato; sul Sentiero probatorio tutti gli
oggetti attorno a noi perdono la loro attrattiva e il distaccarsene non richiede più un grande
sforzo; né occorre più uno speciale sforzo della volontà per rinunciare al frutto dell’azione. Gli
oggetti non hanno più in sé alcuna attrattiva; il desiderio va sradicandosi poco a poco, e questi
oggetti, come è detto nella Bhagavad Ghita, si allontanano dall’abitatore del corpo. Non è tanto che
egli se ne astenga deliberatamente, quanto che essi hanno perduto ogni potere di soddisfarlo in
alcun modo. Gli oggetti dei sensi si allontanano da lui a causa di quell’allenamento del quale
abbiamo già trattato e per il quale egli è passato.
Scorgendo dunque il carattere transitorio degli oggetti, è naturalissimo che dalla indifferenza per
essi nasca in lui, come necessaria conseguenza, quello che gli è costato tante lotte, cioè
l’indifferenza per i loro frutti, poiché i frutti non sono essi stessi che altri oggetti, i quali
hanno essi pure quel carattere di impermanenza e di irrealtà che egli ora ben conosce, avendo
percepito ciò che è reale e permanente.
Bisogna poi conquistare il terzo requisito: Shatsampatti, il sestuplice gruppo di qualità o
attributi mentali che debbono manifestarsi nella vita del candidato discepolo. Egli ha lottato a
lungo per dominare i suoi pensieri, mettendo in pratica tutti quei metodi, cui abbiamo già,
accennato, per realizzare il dominio di sé, per acquisire l’abitudine della meditazione, per
formarsi il carattere. Tutto ciò lo ha allenato a manifestare nell’uomo reale – poiché dell’uomo
reale noi ci occupiamo e non dell’apparenza illusoria – Shama, il dominio della mente, quella
perfetta disciplina del pensiero, quella esatta comprensione degli effetti del pensiero e dei suoi
rapporti col mondo che lo circonda e che egli col proprio pensiero influenza in bene od in male.
Riconoscendo questa sua facoltà di aiutare o di intralciare col proprio pensiero la vita degli altri
uomini, di impedire o di favorire l’evoluzione della razza, egli prende la risoluzione di lavorare
per il progresso umano e di tutti gli esseri evolventi entro i limiti del mondo a cui egli
appartiene. E questa disciplina del pensiero, che è ora diventata un’attitudine precisa della mente,
lo prepara, come vedremo, al completo e definito discepolato, per cui ogni pensiero dev’essere uno
strumento al servizio del Maestro e la mente deve seguire le direttive tracciate dalla volontà.
Da questa disciplina del pensiero ora così completamente raggiunta deriva inevitabilmente Dama, il
dominio dei sensi e del corpo, che noi possiamo chiamare disciplina di condotta. Avete mai osservato
come, considerando le cose dal punto di vista occulto, esse siano invertite in confronto al loro
modo di apparire dal punto di vista terreno? Il mondo dà più importanza all’azione che al pensiero.
L’occultista ne attribuisce molto più al pensiero che all’azione. Se il pensiero è retto, la
condotta sarà inevitabilmente pura; se il pensiero è ben regolato, la condotta sarà inevitabilmente
ben dominata e governata. La manifestazione esterna, l’azione non è che la traduzione del pensiero
interiore, il quale nel mondo delle forme assume quell’aspetto che noi chiamiamo azione; ma la forma
è dipendente dalla vita interiore, l’aspetto è dipendente dall’energia vitale che lo plasma. Il
mondo Arûpa è il mondo delle cause, il mondo Rûpa è soltanto il mondo degli effetti; però, se noi
discipliniamo il pensiero, sarà disciplinata anche la condotta, poiché questa è la naturale ed
inevitabile espressione di quello.
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