di Annie Besant (parte quinta)
ANNIE BESANT “IL SENTIERO DEL DISCEPOLO” (Quattro discorsi tenuti ad Adyar nel 1895)
SOCIETÀ TEOSOFICA ITALIANA – R O M A 1957 – Parte quinta –
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Il terzo attributo mentale che contraddistingue l’attitudine dell’uomo interiore è Uparati, termine
che non potrebbe forse meglio interpretarsi che come una grande, nobile, costante tolleranza (uso
questa parola nel senso più lato che le si possa dare), tolleranza verso tutto ciò che lo attornia,
una specie di sublime pazienza che sa aspettare, che sa comprendere, e che perciò non pretende da
nessuno più di quello che può dare. Anche questa è preparazione per uno stadio assai distinto sul
sentiero del completo discepolato.
Colui che possiede questa attitudine tollerante sa fare concessioni a tutti ed a tutto, considera
tutti gli uomini, non dal punto di vista esterno, ma da quello interno; vede le aspirazioni, i
desideri, i moventi, e non soltanto le loro false e grossolane manifestazioni, quali appaiono spesso
nel mondo esteriore. Egli diventa tollerante verso tutte le differenti forme di religione, verso le
diverse specie di usanze, verso le varie tradizioni umane. Egli comprende che queste sono tutte fasi
transitorie che gli uomini alla fine superano, e non è così irragionevole da aspettarsi dall’umanità
bambina quell’ampiezza, quella larghezza, quel sentimento di dignitosa pazienza che è la
caratteristica dell’umanità adulta e non dei suoi primi stadi. Questa attitudine della mente deve
essere coltivata in modo costante dall’uomo che si avvicina all’Iniziazione; e quella tolleranza
egli deve acquisire imparando a scorgere la verità sotto il velo delle fallaci apparenze. Vi
accorgete voi come tutto ciò implichi il destarsi del sentimento della realtà, il che è il grande
cambiamento che si impone all’uomo su questo sentiero probatorio? Egli non è più ingannato dalle
apparenze come lo era nei primi giorni. Quanto più si sviluppa, tanto più egli vede la realtà e si
libera così gradatamente dall’illusione. Egli scuote il giogo delle apparenze e riconosce la verità,
sotto qualsiasi forma illusoria.
Lo stadio successivo è Titiksha, sopportazione, l’accettazione paziente di tutto ciò che accade, la
totale assenza di risentimento. Vi ricorderete come io abbia richiamato su ciò la vostra attenzione
come su cosa da raggiungersi con ogni sforzo; vi dissi che l’uomo deve a poco a poco liberarsi dalla
tendenza a sentirsi offeso, deve coltivare l’amore, la compassione, il perdono. Il risultato di tale
lavoro sulla mente è questa attitudine mentale salda e definita. L’uomo interiore si libera così da
ogni risentimento verso qualsiasi cosa, verso gli uomini, verso le circostanze, verso tutto ciò che
lo circonda nella vita.
Perché? Perché egli vede la verità e conosce la Legge, e sa quindi che qualunque siano le
circostanze che lo circondano, esse sono volute dalla buona Legge. Egli sa che, qualunque cosa
possano fargli, gli uomini sono soltanto degli agenti inconsci della Legge. Egli sa che qualunque
cosa gli accada nella vita, è frutto del suo passato. E così il suo atteggiamento è caratterizzato
dall’assenza di ogni risentimento. Egli è convinto della giustizia, e perciò non nutre rancori di
sorta, perché nulla può capitargli che egli non abbia meritato, nessun ostacolo può trovarsi sul suo
cammino se egli stesso non ve lo ha posto nelle vite precedenti.
Così né triboli né gioie lo possono più distogliere dalla sua via. Non vi è più nulla che gli possa
far cambiare direzione: egli vede il sentiero e lo segue, vede la mèta e si affretta verso quella.
Non segue più vie tortuose e senza termine, andando di qua, di là, da ogni parte, ma percorre
costantemente, fermamente il sentiero che ha scelto. Non può essere traviato dal piacere, non può
esserlo dal dolore. Non si lascia scoraggiare da nulla, e nulla può più allettarlo, se non il
pensiero di raggiungere il suo Maestro. Impossibilità di lasciarsi fuorviare, forza e sopportazione,
sono qualità davvero indispensabili su questo Sentiero probatorio. Ho detto che il sentiero è irto
di prove e cimenti, ed è bene che voi comprendiate per quale ragione queste difficoltà debbano
sorgere. L’uomo è entrato sul Sentiero probatorio con la ferma intenzione di compiere in un limitato
numero di vite ciò che l’uomo comune compirà in centinaia e centinaia di esistenze.
Egli è simile a colui che volendo raggiungere la cima di una montagna abbandona la lunga strada
sinuosa, per inerpicarsi direttamente per il fianco del monte, non volendo perdere tempo su un
sentiero che, pur essendo reso più agevole dalle migliaia e migliaia di piedi che lo hanno battuto,
sale troppo lentamente per interminabili spire. Non importano le difficoltà, pur di salire. Non
importano gli ostacoli, pur di innalzarsi; vi saranno precipizi, li supererà; vi saranno pareti a
picco, le scalerà; si troveranno ostacoli e massi sul suo cammino, egli farà in modo di superarli o
aggirarli; ma vuol salire dritto per la china del monte. Quale sarà il risultato?
Egli si troverà attorniato da difficoltà mille volte maggiori e più numerose, quello che guadagnerà
in tempo lo pagherà in fatica. L’uomo che entra sul Sentiero probatorio chiama sopra di sé tutto il
suo Karma passato, che deve essere in gran parte esaurito prima che egli sia pronto per
l’Iniziazione. I grandi Signori del Karma che amministrano la legge karmica – quelle possenti
Intelligenze che stanno alte sopra noi, troppo grandi perché la nostra mente possa comprenderle,
troppo grandi perché la nostra ragione possa in alcuna guisa misurarle, di cui si è parlato come
degli Archivisti del Karma, che tengono i registri akashici in cui sono segnati tutti i pensieri e
le azioni degli uomini – tengono, per così dire, un conto per ciascun individuo. Essi hanno davanti
ai loro occhi onniveggenti il registro della vita di ogni uomo, i cui conti devono essere quasi
tutti saldati prima che egli possa varcare la soglia dell’Iniziazione. E il fatto stesso di porre,
spontaneamente e deliberatamente, piede sul Sentiero probatorio, costituisce per lui un appello ai
grandi Signori del Karma perché vogliano tirare le somme del suo debito karmico, e offrirgli
l’opportunità di saldarlo.
Come dunque meravigliarsi se le difficoltà si accumulano sul suo cammino? Il Karma che avrebbe
dovuto ripartirsi su centinaia di vite, deve essere esaurito in poche, forse in una sola vita, e
così naturalmente la strada riesce difficile da percorrere. Egli si trova in mezzo a guai di
famiglia, oppresso da difficoltà negli affari e da malanni morali e materiali. Vi meravigliate voi
se io ho detto che gli occorre una grande costanza per procedere oltre sul Sentiero probatorio e non
ritornare indietro, per non sentirsi mancare il coraggio? Può sembrare che tutto sia contro di lui.
Può parergli che il Maestro lo abbia abbandonato. Perché, quando cerca il meglio, deve capitargli il
peggio? Perché, mentre vive più rettamente di quanto non abbia mai vissuto prima, debbono assalirlo
tutte queste difficoltà, tutti questi dolori? Sembra così ingiusto, così duro, così crudele trovarsi
trattato dal Destino più duramente che mai, appunto quando si vive più nobilmente di quanto non si
sia mai tentato di vivere prima. Egli deve star saldo in mezzo a quelle prove, non deve permettere
ad alcun sentimento d’ingiustizia di penetrare nella sua vita interiore. Deve dire a sé stesso: “È
opera mia, ho sfidato il mio Karma; qual meraviglia dunque se sono chiamato a pagarlo?”.
E trova almeno incoraggiamento nel pensiero che il debito una volta pagato è pagato per sempre, e
non lo, disturberà più. Ogni debito karmico che egli paga è cancellato per sempre dal libro mastro
della vita, e non se ne parlerà più. Così che se le malattie lo colpiscono, egli pensa che è bene
essersi liberato da tanto guaio; se le pene o le angosce lo assalgono, egli pensa che è ancora bene
poiché ormai apparterranno al passato e non più all’avvenire. Così egli è lieto in mezzo agli
affanni, fidente in mezzo allo scoraggiamento, soddisfatto in mezzo alle pene, poiché l’uomo
interiore è contento della Legge e soddisfatto della risposta venuta al suo appello. Se non vi fosse
risposta, vorrebbe dire che la sua voce non è giunta agli orecchi dei Grandi Esseri, vorrebbe dire
che la sua preghiera è ricaduta sulla terra; quei guai sono la risposta al suo appello.
Così attraverso queste lotte, queste difficoltà, questi sforzi, egli acquisisce il quinto attributo
mentale, e cioè Shraddhâ, la fede, la fiducia – fiducia nel Maestro ed in sé stesso. Voi potete
comprendere in che modo questa sia il risultato di una tale lotta. Voi potete comprendere come dalla
lotta sostenuta e superata debba scaturire la fiducia, simile al fiore che si apre sotto l’influenza
stimolante del sole e della pioggia. L’aspirante ha imparato ad avere fiducia nel suo Guru, poiché
non lo ha Egli condotto attraverso questo spinoso sentiero là dove la porta dell’Iniziazione
comincia ad aprirsi dinanzi a Lui? Ed ha pure imparato ad aver fiducia in sé stesso – non nel suo sé
inferiore di cui ha vinto la debolezza, ma nel suo Sé divino di cui comincia a percepire la forza.
Poiché egli comprende che ogni uomo è divino, comprende che ciò che il Guru è oggi, egli stesso
diventerà nelle vite che ancora gli stanno dinanzi. E la sua fiducia è riposta nel potere e nella
sapienza del Maestro da cui è guidato ed istruito; ed anche in sé stesso egli ha umilissima ma
fortissima fiducia; poiché, essendo anch’egli divino, deve avere egli pure il potere di realizzare;
poiché, qualunque sforzo sia necessario, qualunque difficoltà gli rimanga ancora da superare, la
forza che è in lui è una con Brahman ed è sufficiente per qualunque difficoltà, per qualunque prova.
I1 sesto attributo mentale è Samâdhâna, equilibrio, compostezza, serenità di mente, quell’equilibrio
e quella saldezza che risultano dal conseguimento delle qualità precedenti. Acquisito quest’ultimo
attributo, il Sentiero probatorio è ultimato, il candidato discepolo si trova, pronto, dinanzi alla
porta, e acquisisce senza altro sforzo il quarto requisito:
Mumukshâ, il desiderio di emancipazione, la volontà di conquistare la liberazione, quello che
coronando i lunghi sforzi del candidato mostra che egli è un Adhikari, che egli è pronto per
l’Iniziazione. Egli è stato messo alla prova e non fu trovato deficiente; il suo discernimento è
acuto, la sua indifferenza non è un temporaneo disgusto dovuto a passeggera disillusione. Il suo
carattere morale e mentale è elevato – egli è idoneo, è pronto per l’Iniziazione. Null’altro si
pretende; egli è degno ormai di trovarsi faccia a faccia col suo Maestro, faccia a faccia con la
vita che da sì lungo tempo ha cercato.
Prima di varcare con voi la soglia dell’Iniziazione, desidero farvi notare come ognuno dei requisiti
del sentiero probatorio sia inteso ad allenare l’aspirante in vista di nuove qualità, e come tali
requisiti consistano unicamente in qualità mentali e morali. Queste soltanto si richiedono, non i
cosiddetti poteri, non sviluppi psichici anormali, non le Siddhi. Questi non sono pretesi o
richiesti in nessun modo. Un uomo può avere acquisito qualunque Siddhi e tuttavia non essere ancora
pronto per l’Iniziazione; quelli che deve possedere sono i requisiti morali. Questi sono pretesi con
una severità che nulla può cambiare, severità che è suggerita dall’esperienza. Poiché i grandi Guru,
nella Loro vasta esperienza dell’umanità, l’hanno educata e guidata passo passo per miriadi di anni.
Essi ben sanno che i requisiti del vero discepolo appartengono alla mente e al carattere morale e
non consistono nello sviluppo della natura psichica; questo deve poi venire a suo tempo e luogo. Ma
per essere un discepolo riconosciuto e accettato la mente ed il morale devono essere preparati a
sostenere lo sguardo del Guru; quelli cui abbiamo accennato sono i requisiti che Egli richiede, e
questi devono dimostrare di possedere i Suoi aspiranti, prima che sia loro concessa la seconda
nascita da Colui che, Unico, può darla. E notate pure che questi requisiti implicano conoscenza e
devozione, sviluppo della conoscenza perché l’uomo possa comprendere, sviluppo della devozione senza
la quale i1 Sentiero non può essere seguito. E perciò è scritto negli Upanishad che la conoscenza
senza la devozione non basta, che la devozione da sola non basta; ma che conoscenza e devozione
debbono accoppiarsi, perché sono le due ali con le quali il discepolo si innalza.
Veniamo al Sentiero propriamente detto. Sulle grandi Iniziazioni, che segnano gli stadi del Sentiero
dopo che il discepolo è stato accettato dal suo Guru e che Questi si assume, di guidarlo, istruirlo
e tutelarlo, di tanto in tanto è stata data al mondo esterno. qualche notizia da grandi Istruttori,
e altri accenni possiamo trovare sparsi qua e là, verificati dall’esperienza di coloro che hanno
oltrepassato la soglia, accenni relativi a quanto è permesso in parte di diffondere, non per
soddisfare una oziosa curiosità, ma per l’educazione di coloro che desiderino prepararsi a compiere
questo grande passo. Quel poco che di esse può dirsi deve necessariamente essere imperfetto; poiché
di questi grandi misteri si possono rivelare al mondo solo poche e frammentarie informazioni.
Molte domande vi sorgeranno nella mente quando io prenderò ad esporvi, in modo succinto ma
coordinato, questi frammenti; domande però, alle quali non sarebbe prudente rispondere. Il vero
scopo, come dico, nel dare queste informazioni non è di soddisfare la curiosità, non è di far sì che
un uomo possa rivolgere una quantità di domande per ottenere ad ognuna di esse una risposta. I cenni
che si danno si intendono dati per coloro che hanno serie intenzioni, per coloro che hanno bisogno
di sapere per prepararsi, per coloro che hanno bisogno di comprendere per mettersi in grado di
realizzare. Ecco perché, di tanto in tanto, viene data qualche parziale notizia, sufficiente come
guida immediata, ma insufficiente a soddisfare una curiosità meramente oziosa e superficiale.
Due grandi Istruttori, Fondatori di due grandi Religioni del mondo, emergono nella storia per essere
stati, più di ogni altro, larghi in informazioni su questo argomento. Uno di questi grandi Maestri
fu il Fondatore del Buddismo, il Signore Buddha, e l’altro fu Shrî Shankarâchârya. Per ciò che
riguarda il Sentiero i Loro insegnamenti sono identici, come necessariamente deve esserlo
l’insegnamento di qualsiasi di tali grandi Iniziati. Ognuno di Essi ha proclamato gli stessi stadi,
contrassegnandoli con definite Iniziazioni, che separano ogni stadio da quelli che lo precedono e da
quelli che lo seguono. Nell’insegnamento stesso vi è perfetta identità; soltanto nella
terminologia, la quale lo adatta rispettivamente ad una fede o all’altra, sorgono le differenze.
Questa è ancora una delle ragioni per cui gli uomini debbono imparare a cercare la verità sotto
diverse forme ed apparenze; invece di combattersi per la forma devono convincersi dell’identità
celata sotto quei veli, parole diverse per esprimere un concetto unico.
Ho detto che vi sono quattro differenti stadi, ognuno contrassegnato da un’Iniziazione. Ora
Iniziazione significa espansione di coscienza effettuata con la diretta mediazione del Guru, il
quale agisce in luogo dell’unico GRANDE INIZIATORE dell’umanità e in Suo nome impartisce la seconda
nascita. Questa espansione di coscienza è la nota fondamentale, per così dire, dell’Iniziazione,
perché essa conferisce ciò che si chiama “la chiave della conoscenza”; essa apre all’Iniziato nuovi
orizzonti di conoscenza e di poteri, pone in sua mano la chiave che apre le porte della natura.
A qual fine? Affinché egli possa diventare più utile al mondo intiero; affinché il suo potere di
servire possa essere accresciuto; affinché egli, possa unirsi a quella piccola schiera di uomini che
si sono votati all’umanità, che hanno rinunciato al sé inferiore, che nulla cercano se non servire
il Maestro e l’umanità, che sanno che servire il Maestro e servire l’umanità è una sola ed identica
cosa, che hanno rinunziato al mondo ed a tutto ciò che il mondo può dare, che hanno dedicato sé
stessi per sempre al servizio dei Grandi per essere strumenti nell’opera Loro, agenti del Loro
soccorso e dei Loro benefici al mondo. E tra l’una e l’altra di queste grandi Iniziazioni debbono
avvenire cambiamenti ben definiti nell’uomo interiore, ma cambiamenti assai diversi da quelli che
abbiamo finora considerati. Una volta che l’uomo è iniziato, ciò che egli fa deve essere fatto
perfettamente, non più in modo incompleto; ogni realizzazione deve essere portata a termine, ogni
catena definitivamente infranta. Non si tratta più di accontentarsi di mezze misure; l’iniziato non
può passare ad uno stadio successivo prima di aver completamente esaurito il compito di quello in
cui si trova. Un’opera a mezzo, un’esecuzione incompleta qui non sono accettate. Qualunque sia il
tempo che possa occorrere, l’opera deve essere assolutamente compiuta prima di fare un altro passo.
Tecnicamente ciò è stato chiamato: “liberarsi dai ceppi”, da quelle cose che vincolano tuttora
l’anima. Alla fine del Sentiero l’uomo deve essere completamente libero, cosicché egli deve in
precedenza essersi liberato in modo assoluto da ogni ceppo, affinché nulla più possa vincolarlo.
La prima grande Iniziazione rende l’uomo quello che da Shrî Shankarâchâya è chiamato il Parivrajaka
e dal Buddha il Srotâpatti. Il vocabolo buddista nella sua forma pàli, come vien dato generalmente,
significa “colui che è entrato nella corrente” che lo separa da questo mondo. Egli non appartiene
più a questo mondo, sebbene vi possa vivere; egli non vi ha più posto, nulla più può ritenervelo.
Esattamente la stessa idea è espressa dalla parola Parivrajaka, uomo errante, vale a dire che non ha
dimora fissa. Non già errante necessariamente qua e là privo di stabile dimora per il corpo – come
1’espressione è venuta travisandosi nell’interpretazione exoterica. Ciò significa colui che nella
sua vita interiore è separato dal mondo, che in questo mondo transitorio non ha più bisogno di
dimora fissa, poiché per lui un luogo non è differente da un altro qualsiasi.
Egli può andare qua, e là, dovunque il suo Maestro lo mandi. Nessun luogo ha il potere di
trattenerlo, di avvincerlo; egli si è liberato da ogni legame verso una località determinata. E
perciò è chiamato “l’errante”. Come sapete, questo viene oggi interpretato in un senso unicamente
exoterico; ma io lo considero nel suo significato interno, nel significato che i Grandi Esseri gli
hanno dato. Noi sappiamo purtroppo quanto le cose siano cambiate dai tempi antichi; come ciò che era
allora una realtà della vita sia diventato ora questione di parole e di apparenze esteriori. Ma io
desidero vivamente che voi conosciate i quattro stadi del Sentiero come vengono descritti,
nell’Induismo, poiché vi è chi immagina che essi. siano stati rivelati solamente dal Signore Buddha,
mentre Egli non ha fatto che riproclamare l’antico e stretto Sentiero che tutti gli Iniziati
dell’Unica Loggia hanno seguito, seguono e seguiranno.
Cominciamo dalla realtà. L’uomo che ha varcato il ponte, si è, come ho detto, definitivamente
separato dal mondo, e non vuol più saperne se non per servirlo. Non chiede più nulla al mondo tranne
che di potervi eseguire gli ordini del suo Guru. Questo caratterizza la prima grande Iniziazione –
l’uomo che è rinato. Il più delle volte la rinascita avviene fuori del corpo, ma in piena coscienza
come nella veglia: vale a dire che l’uomo è iniziato generalmente nel suo corpo astrale in piena
coscienza, mentre il suo corpo fisico rimane in stato di trance; qualche rara volta un discepolo è
iniziato senza che la coscienza di veglia possa per un certo tempo partecipare alla conoscenza.
Ma in ogni caso il fatto non può mai essere annullato; l’uomo non può mai più tornare quello di
prima. Il neonato, per un certo tempo rimane inconscio del mondo fisico che lo circonda; ma non per
questo egli può ritornare nel seno materno come se la nascita non avesse avuto luogo. Così pure
l’Iniziato, che è passato per la seconda nascita, non può più essere di nuovo come se non fosse
rinato, e partecipare alla vita del mondo esterno così come vi partecipano coloro che non sono
passati per la seconda nascita. Egli può ritardare il suo progresso, può essere lento nell’avanzare,
può impiegare maggior tempo di quanto non sia necessario a liberarsi dai ceppi che ancora lo
avvincono; ma non può mai più tornare ad essere un non iniziato, la chiave non può più uscire dal
suo pugno. Egli è entrato nella corrente, è separato dal mondo; deve andare innanzi, sia pur
lentamente, sia pure spendendo molte vite nel farlo.
Ci si chiede a volte quante vite intercorrano fra questo passo e la liberazione finale, il
raggiungimento di Gîvanmukti. Ricordo di aver udito che Swami T. Subba Rao, parlando qui ad alcuni
amici intorno all’idea generalmente diffusa che sette vite dovessero passarsi in questa fase del
discepolato, fece la seguente giustissima e significante osservazione: “Possono essere sette vite
come possono essere settanta, o sette giorni, o anche sette ore”. Vale a dire che la vita dell’anima
non si misura ad anni né secondo il tempo dei mortali; essa dipende dalla sua energia, dalla sua
forza, dalla sua volontà di riuscire. L’uomo può sciupare il suo tempo od impiegarlo nel miglior
modo, e da ciò dipenderà il suo progresso.
Ma durante questo stadio, che è cominciato con la prima grande Iniziazione e si chiude con la
seconda, vi sono tre diverse cose da cui un uomo deve assolutamente liberarsi prima di poter varcare
la seconda soglia. La prima di queste è l’illusione del sé personale. La personalità deve essere
distrutta; non si tratta più ora di dominarla, di attenuarla, di tenerla a freno, ma di
distruggerla, di ucciderla per sempre. L’illusione del sé personale separato deve dissiparsi. Il
discepolo deve riconoscere sé stesso come uno con tutti gli altri sé, poiché il Sé di tutti è uno.
Egli deve rendersi conto che tutto, attorno a lui – l’uomo, i mondi degli animali e delle piante, le
forme minerali ed elementali di vita – tutto è uno. L’illusione della personalità deve cessare.
Considerate quanto una più vasta coscienza gli sarà d’aiuto in questo; come il riconoscimento del
vero Sé gli renderà possibile liberarsi dal falso; come la visione del Reale farà sparire l’irreale;
e così l’illusione del sé personale sarà assolutamente distrutta. Perché? Perché i suoi occhi sono
aperti e penetrano al di là dell’illusione; così egli diventa libero e getta via quella Catena che
si chiama “l’illusione del sé”.
32 E deve liberarsi anche dal dubbio. Questo è il secondo ostacolo che gli impedirebbe di avanzare.
Ma deve liberarsi dal dubbio in modo veramente definitivo; deve liberarsene per mezzo della
conoscenza. Le cose del mondo invisibile non devono più essere per lui soggetti di speculazione; le
grandi verità della religione non devono più essere per lui idee filosofiche.
Devono essere fatti reali. Egli non deve più avere bisogno di chiedersi il come e il perché delle
cose. Vi sono certe verità fondamentali della vita, sulle quali non deve più rimanere in lui
possibilità di dubbio. Prima ch’egli possa fare un altro passo avanti, egli deve essere
assolutamente convinto della grande verità della Reincarnazione, della grande verità del Karma,
della grande verità dell’esistenza degli Uomini divini, dei Gîvanmukta, che sono i Guru
dell’umanità. Su questi punti non deve rimanergli alcuna possibilità di dubbio; vale a dire che egli
deve averne conoscenza non più teorica ma reale, pratica, così che nessuna ombra di obiezioni
intorno ad esse possa mai annebbiare la sua mente; e tutto ciò non può effettuarsi con sicurezza se
non quando la conoscenza abbia sostituito la speculazione e abbia reso ormai impossibili gli inganni
cagionati dalle illusioni del mondo esteriore.
L’ultimo dei tre ceppi di cui deve liberarsi durante questo stadio è la superstizione. Cercate di
farvi una chiara idea di ciò che essa significhi, e allora comprenderete pienamente perché tanto
Shrî Shankarâchârya quanto il Buddha si servirono dei nomi che rispettivamente diedero a questo
stadio del discepolato. La superstizione nel senso tecnico (nel quale naturalmente userò ora la
parola) significa fare assegnamento sui riti e sulle cerimonie settarie esterne come aiuto
spirituale. Per quanto concerne la loro natura esterna, il discepolo riconosce la verità sotto la
forma, e che, se vi è verità, il valore della forma esteriore dipende dal suo adattamento a questo
mondo di ignoranza e di illusione. Egli si è sollevato al disopra delle forme e delle cerimonie
exoteriche.
Il Sannyasî viene ritenuto un uomo sollevatosi al di sopra di queste cose di cui non ha più bisogno.
Perché si suppone che egli abbia raggiunto la realtà, e non abbia quindi, più alcun bisogno di
queste cose che sono i gradini della scala necessaria agli altri uomini per salire; esse sono
necessarie nei primi stadi – non dimenticate questo fatto; è questione di sviluppo. Se volete salire
all’ultimo piano di una casa dovete servirvi della scala, e sarebbe folle l’uomo che dicesse “io non
voglio salir per nessuna scala”, a meno che egli non avesse tale potenza e tali conoscenze delle
leggi della natura da poter cambiare la polarità del proprio corpo e sollevarsi per mezzo di ciò
che, si chiama levitazione – per azione della volontà invece che col metodo relativamente lento e
comune di salire un gradino per volta. Per un uomo simile la scala è inutile, perché egli può salire
per potere proprio e giungere in cima alla casa senza il lento metodo di ascender le scale. Ma da
ciò non consegue che la scala sia inutile, da ciò non consegue che gli altri uomini possano giungere
in cima alla casa rifiutando di salire le scale. E troppi uomini al giorno d’oggi, che non sanno
sollevarsi, rifiutano di servirsi delle scale, dimenticando che finché la volontà non sia
sviluppata, le forme inferiori sono pur necessarie se l’uomo deve sollevarsi del tutto.
E ciò mi induce a dire una parola sul “vero Sannyàsî”. Già cinquemila anni or sono la parola era
adoperata senza che corrispondesse alla realtà; già cinquemila anni or sono, al principio del Kali
Yuga, noi troviamo Shrî Krishna che fa distinzione fra il Sannyasî in apparenza ed il Sannyasî in
realtà. Ricorderete come, parlando su questo soggetto, egli dicesse: “Colui che compie l’azione come
un dovere indipendentemente dal frutto dell’azione, quegli è un Sannyasî ed uno Yogî, non colui che
è senza fuoco e che non fa nulla”. Voi sapete il significato della frase tecnica “colui che è senza
fuoco” vale a dire colui che non accende i fuochi sacrificatori, che non compie i riti e le
cerimonie; poiché questi non sono richiesti al Sannyasî.
Ma, dice Shrî Krishna, non è vero Sannyasî colui che si distingue soltanto per l’astensione da riti
e da cerimonie e per la sua astensione dall’azione nel mondo degli uomini. E se ciò era vero
cinquemila anni addietro, è purtroppo assai più vero oggi. Se ciò era vero quando il grande Avatara
percorreva le pianure dell’India, è assai più vero oggi che son passati cinquemila anni di tenebre.
Se guardiamo il complesso del mondo orientale, se consideriamo l’India stessa coi suoi innumerevoli
Sannyasî, noi vediamo degli uomini che sono Sannyàsî per l’abito e non per la vita, uomini che sono
Sannyasî per l’apparenza esterna e non per l’intima rinuncia. E se lasciamo il suolo dell’India e ci
volgiamo a Ceylon, alla Birmania, alla Cina od al Giappone, noi troviamo dei monaci buddisti che
sono monaci per il loro abito giallo e non, per la nobile Vita, nell’apparenza esterna e non
nell’interna verità. E benché sia sempre vero che la religione è più facile a praticarsi qui che in
qualunque altro paese; benché sia sempre vero che le tradizioni dell’India rendono il suo stesso
suolo sacro e la sua stessa atmosfera più spirituale di quella degli altri paesi; benché vi siano
qui dei luoghi così santi per le vite che vi sono state condotte che, anche per l’uomo di mondo, il
visitarli tranquillizza la mente e sveglia le aspirazioni dell’anima; benché tutto questo sia vero
dell’India e perciò essa sia ancora sempre più sacra ed amata, è doloroso, ahimè !, dover constatare
che i suoi figli sono indegni delle possibilità ch’essa offre e sono sotto ogni rapporto decaduti.
Guardando al mondo degli uomini, noi non vediamo alcun luogo dove si conduca in generale una vita
spirituale, non vediamo nazione dove questa sia riconosciuta come suprema. Il cuore quasi si spezza
conoscendo le possibilità e constatando le realtà, sapendo ciò che potrebbe essere e vedendo ciò che
è, conoscendo la verità e vedendo la menzogna che simula. Ma, nonostante tutto ciò, il cuore di
nessun discepolo si spezza, perché i Maestri vivono sempre ed i Loro discepoli pure stanno ancora
nel mondo degli uomini; ma oggi la loro condizione di discepoli si rivela non dall’abito esterno ma
dalla vita interna, dalla conoscenza, dalla purezza e dalla devozione che ancora aprono le porte
dell’Iniziazione.
Passiamo così al secondo stadio che Shrî Shankarâchârya chiama il Kutîciaka, l’uomo che costruisce
una capanna, e che i Buddisti chiamano Sakridâgâmin, l’uomo che riceve una volta ancora la nascita.
In questo stadio non ci si libera da ceppi definiti, ma si acquisiscono speciali qualità. Qui
entrano in campo i Siddhi. Dopo la seconda Iniziazione è necessario che i Siddhi siano sviluppati,
poiché il discepolo ha raggiunto uno stadio della sua vita nel quale deve essere capace di servigi
assai estesi, deve poter lavorare per il suo Maestro, non solo nel mondo fisico, ma anche negli
altri mondi che lo circondano e stanno oltre il piano fisico. Egli deve essere capace di parlar non
solo con le labbra, ma anche in modo diretto da mente a mente con intenzione cosciente e deliberata.
Cercherò più oltre di mostrarvi quali sono le possibilità di servizio che in tal modo gli si offrono
e che reagiscono nel mondo fisico, e che, se fossero maggiormente e più compiutamente messe in atto
di quanto oggi non lo sono, cambierebbero grandemente persino il tenore della vita fisica dell’uomo.
Ma perché egli possa compiere questo speciale lavoro, e prepararsi agli elevati compiti che avrà da
assolvere quando ogni conoscenza gli sarà possibile e la Natura non avrà più veli per lui, egli deve
in questo stadio sviluppare e rendere attive ad una ad una le facoltà umane interne e latenti. In
questo stadio, se già non lo si è fatto prima, il fuoco interno deve essere destato, Kundalinî deve
essere chiamata a funzionare nel corpo fisico e nel corpo astrale dell’uomo vivente.
…
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