Il Sentiero del Discepolo 6

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Il Sentiero del Discepolo 6

di Annie Besant (parte sesta)

ANNIE BESANT
“IL SENTIERO DEL DISCEPOLO”
(Quattro discorsi tenuti ad Adyar nel 1895)
SOCIETÀ TEOSOFICA ITALIANA – R O M A 1957
– Parte sesta –

°°°

Voi potete leggere in parecchi libri, come nello Ananda Lahiri di Shrî Shankarâchârya, di questo
destarsi del fuoco vivente, e del modo di farlo passare di chakra in chakra; quando è destato, esso
dà all’uomo il potere di lasciare a volontà il corpo fisico, poiché, col passare di chakra in
chakra, esso disimpegna il corpo astrale dal fisico e lo rende libero. Allora, senza interruzione di
coscienza, senza vuoti né lacune che separino un mondo dall’altro, l’uomo è capace di uscire dal
suo corpo fisico e di entrare nel mondo invisibile, ove può lavorare con piena coscienza e riportare di là l’intiera nozione dell’opera che vi ha compiuto.

Nel secondo stadio tutte queste facoltà si sviluppano ed evolvono, se non sono state evolute prima;
e finché esse non siano in piena e regolare attività, finché non siano intieramente agli ordini del
discepolo, finché non siano sparite tutte le barriere fra il mondo visibile e l’invisibile, egli non
può passar oltre. Quando queste barriere sono rimosse dallo sviluppo dei sensi e delle facoltà
interiori, dall’acquisizione delle Siddhi, egli è pronto per il terzo grande passo del suo
progredire, è pronto a procedere verso il successivo più alto stadio di esistenza. È facile
comprendere quanto danno possa derivare a quegli uomini impreparati che tentano artificiosamente di
destare in sé queste facoltà prima di essere spiritualmente sviluppati, prima che sia giunto per loro il momento come frutto maturo di sana evoluzione.

Varie opere di dominio pubblico, e specialmente i libri Tàntrika, sono ricchi di informazioni,
avidamente lette da coloro i quali desiderano possedere dei poteri e poco si curano della propria
idoneità mentale e morale ad impiegarli rettamente. In molti dei Tantra sono contenute verità
profonde per coloro che sanno scoprirle; ma la loro enunciazione incompleta e superficiale trae con
enorme facilità in inganno coloro che non conoscono i fatti reali e che non hanno un Guru che
spieghi loro i punti oscuri e colmi le lacune. E così alcuni, dandosi ignorantemente a tali pratiche
con lo scopo di forzare il proprio sviluppo psichico prima che quello mentale e morale li abbia resi
atti a farlo senza pericolo, ottengono bensì assai di frequente dei risultati, ma risultati che portano a male anziché a bene.

Essi rovinano spesso, la loro salute fisica, spesso perdono il loro equilibrio mentale, danneggiano
le loro facoltà intellettuali, per aver voluto cogliere il frutto dell’albero di vita prima che
fosse maturo; perché con mani non monde e con sensi non purificati tentano di penetrare nel Santo
dei Santi. In quel tempio l’atmosfera è tale che nulla di impuro vi può vivere; le sue vibrazioni
sono così potenti che infrangono tutto ciò che non vibra all’unisono con essa, tutto ciò che è impuro, tutto ciò che non riesce ad uniformarsi a quel ritmo rapido e possente.

Ma allorché il discepolo ha intieramente percorso questo stadio, sotto la guida del suo Maestro –
senza la quale non dovrebbe mai neanche iniziarlo – viene allora la terza grande Iniziazione, quella
che rende l’uomo ciò che Shrî Shankarâchârya chiamò un Hamsa, ciò che nella terminologia buddista è
chiamato un Anâgâmin, l’uomo cioè che non è più soggetto ad altra nascita tranne che per sua propria
libera volontà. Questo è lo stadio – come lo indica implicitamente il nome datogli da Shrî
Shankarâchârya in cui l’uomo constata l’unità, in cui sa di essere una cosa sola col SUPREMO. Quel
nome gli è dato perché nella sua espansione di coscienza egli si è già sollevato fino a quelle
regioni dell’universo dove ha raggiunto l’identità, ed ha realizzato 1′ “Io sono Ciò.” Col
perfezionare i suoi sensi psichici e collegarli a quelli fisici, egli diviene capace non solo di
penetrare là dove si ha coscienza dell’unità, ma anche di conservare la memoria di questa coscienza nelle sue ore di veglia, e di imprimerla nel cervello fisico.

E d’uopo dire che l’ultima traccia di desideri terreni deve assolutamente scomparire in lui in
questo stadio, se pur qualche traccia rimaneva ancora. Così in questo stadio egli si libera da quel
ceppo che si chiama Kâmarâga, desiderio, che però di terreno non ha quasi più nulla; ma dopo la
constatazione dell’unità di tutto ciò che esiste, nulla più che abbia apparenza di separatività
riesce ad illuderlo. Egli si è elevato di molto al disopra di ogni separatività, ed ha così trasceso
non solo quelli che potremmo chiamare desideri terreni, ma anche i più elevati, i più spirituali
desideri che tuttavia contengano alcunché di separato. Perfino i desideri spirituali spariscono
dall’uomo che è giunto a tanta altezza; non potendosi egli nel pensiero separare dagli altri, non
può avere desideri spirituali per sé, come individuo separato, ma solo come parte del tutto.
Qualunque cosa egli acquisisca, l’acquisisce per tutti. Egli è in una regione dell’Universo dalla
quale scende forza nel mondo degli uomini, e quando egli riceve questa forza, la riversa su tutti, con tutti la condivide.

Così tutto il mondo migliora per ogni uomo che raggiunge questo stadio. Ogni suo acquisto è acquisto
per l’umanità, tutto ciò che egli riceve non fa che passare per le sue mani per essere dispensato al
mondo degli uomini. Egli è uno con Brahman e perciò uno con tutto ciò che è manifestato; e tale egli
è in realtà cosciente, non soltanto in speranza ed in aspirazione. Una strana parola è qui usata per
indicare l’altro ceppo di cui il discepolo deve liberarsi in questo stadio: “Patigha”, vocabolo
pali, che siamo costretti a tradurre col nostro “odio”, per quanto esso sia assurdo in questo caso.

Esso significa in realtà che il discepolo, diventato uno con tutti, non è più influenzato da
distinzioni di razza e di famiglia, e di qualunque altra natura. Egli non può più né amare né odiare
in base a differenze esteriori; non può più amare o odiare per il fatto che una persona appartiene
ad una razza diversa; non può più amare od odiare per le differenze che esistono fra gli uomini e le
cose che lo circondano. Ricorderete come Shrî Krishna, quando parlando del Saggio che non fa
differenza fra un Bramano illuminato ed un cane, disse: egli ha raggiunto l’unità, vede Brahman in
ogni cosa. O, per usare un’altra frase, egli vede Shrî Krishna dovunque, e le spoglie esterne sotto
cui in ogni cosa si cela il Signore non possono trarre in inganno la sua visione purificata; perciò
egli è assolutamente privo di ciò che noi siamo costretti a chiamare “odio” o “repulsione”. Nulla lo
respinge, nulla lo fa arretrare. Egli è amore e compassione per ogni cosa, per ogni essere; tutto, attorno a sé, egli avvolge nel suo universale affetto.

Tutto, nel suo ambiente, subisce l’influenza della sua divina compassione. Ed è questa la ragione
per cui, allorché i Bramani erano veramente ciò che il loro nome implica, di essi si diceva che
erano, “gli amici di ogni cosa, di ogni creatura.” Il loro cuore, essendo divenuto uno con la
Divinità, era grande abbastanza per accogliere in sé tutto ciò che la Divinità ha creato. Ripudiata
dunque per sempre la separatività, il discepolo passa nello stadio finale, e vi diventa ciò che Shrî
Shankarâchârya chiama Paramahamsa e i buddisti Arhat. Anche qui dobbiamo constatare la terribile
degradazione moderna dei nomi sacri, poiché questa elevata condizione vide il suo nome usato tanto
largamente e senza riguardi, impiegato spesso per mero complimento, per una apparenza esteriore invece che per una vivente realtà.

Il vero significato del termine è che l’uomo ha avuto la quarta grande Iniziazione e si trova in
quello stadio che precede Gîvanmukti; nella sua coscienza di veglia egli può sollevarsi alla regione
Turîya e vivervi. Non ha bisogno di abbandonare il corpo per fare ciò, non ha bisogno di lasciare il
corpo per esservi cosciente. la sua coscienza, pur essendo contemporaneamente attiva nel cervello
fisico, si estende, includendola, fino ad essa. Il che è una delle grandi caratteristiche dello
stadio raggiunto. Mentre egli parla, discorre e vive nel mondo degli uomini, ha a sua disposizione
tutto quel vasto campo di conoscenza, a cui coscientemente può attingere a volontà.

In questo stadio egli depone gli ultimi cinque ceppi per poter diventare il Gîvanmukta. Il primo di
questi si chiama Rûparâga il desiderio della “vita in forma”; nessun desiderio di una tal vita deve
più esistere in lui. Poi si libera di Arûparâga, desiderio della “vita senza forma”; nessun
desiderio di questo genere deve più avere il potere di vincolarlo. Poi getta via Màna: e anche qui
siamo costretti ad usare una parola troppo impropria ad esprimere la vera natura elevata di questo
ceppo: orgoglio; il non pensare nemmeno per un istante alla grandezza raggiunta, all’altezza
vertiginosa ove si trova, poiché egli non conosce più né alto né basso, per lui più non esistono né altezze sublimi, né gradi infimi, egli vede e sente l’unità di tutto.

Egli si libera poi dalla possibilità di lasciarsi turbare da qualunque avvenimento. Nulla di ciò che
può accadere nel mondo manifestato ha la facoltà di scuotere la sublime serenità dell’uomo che si è
sollevato fino alla constatazione del Sé unico. Una catastrofe?… La forma sola va infranta: Un mondo rovina?…

Non è che un modificarsi della manifestazione. L’eterno, l’immortale, l’antico, l’immutevole:
questo è la sua vita; e nulla vi è che possa scuotere la sua serenità, che possa turbare la sua pace
perfetta. E infine cade anche l’ultimo dei ceppi, Avidyâ, la causa di ogni illusione; l’ultimo velo
sottile che impedisce la perfetta visione e la perfetta libertà. Pur non avendo più bisogno di
rinascere, lo può se vuole; nessuna costrizione può farlo ritornare sulla terra, ma per sua volontà può reincarnarsi.

Egli possiede la conoscenza di tutto ciò che concerne il nostro ciclo planetario; impara tutto ciò
che questa manifestazione deve insegnare; nessun insegnamento è trascurato, nessun segreto rimane
tale, nessun angolo esiste dove il suo occhio non possa penetrare, nessuna possibilità che egli non
possa afferrare. Alla fine di questo stadio tutte le lezioni sono imparate, tutte le facoltà
sviluppate. Egli è onnisciente, onnipotente relativamente a questa catena planetaria; ha compiuto
l’evoluzione umana, ha fatto l’ultimo passo che l’umanità dovrà aver fatto quando sarà finito il
grande Manvantara e l’opera di questo universo sarà compiuta. Nulla vi è che gli rimanga velato,
nulla che non faccia parte della sua coscienza; essa si è allargata tanto da abbracciare il tutto.

Egli può, a volontà, entrare nel Nirvana stesso; e là è unità, là è coscienza totale, là è pienezza
di vita. Egli ha raggiunto la meta dell’umanità; un’ultima porta è dinanzi a lui, e questa si
spalanca al suono dei suoi passi. Oltrepassata questa, egli diventa il Givanmukta, secondo la
terminologia indù, l’Adepto Asekha, ossia colui che non ha più nulla da imparare, secondo la
nomenclatura buddistica. Tutto è conosciuto, tutto è compiuto. Davanti a Lui si aprono diverse vie
di cui può scegliere quella che vuole; dinnanzi a Lui si presentano vaste possibilità, verso ognuna
delle quali Egli può stendere la Sua mano. Oltre i limiti di questo sistema planetario, oltre i
limiti del nostro Cosmo, in regioni che si trovano bene al di là della nostra più ardita percezione,
stanno aperte le vie che il Givanmukta può scegliere. Una delle vie, la più difficile, la più aspra
di tutte, benché la più breve, è quella che si chiama la Via della Grande Rinuncia.

Se Egli sceglie questa, guardando compassionevolmente al mondo degli uomini, il Givanmukta rifiuta
di abbandonarlo, rifiuta di allontanarsene, dichiara che vi rimarrà reincarnandovisi continuamente
per istruire ed aiutare gli uomini. Ancora una volta Shrî Shankarâchârya parla di Coloro che aspettano e lavorano finché l’opera non sia compiuta.

Il Loro compito è bensì ultimato, ma Essi si sono identificati con l’umanità, e finché l’evoluzione
dell’umanità non sia compiuta, non vogliono uscire dalle file degli uomini che lottano. Sono liberi,
ma rimangono in volontaria schiavitù; sarebbero liberati, ma non accettano la liberazione se non
quando anche gli altri non saranno liberati. Essi sono i grandi Maestri di Compassione, che vivono a
portata degli uomini, affinché l’umanità non resti orfana di padre, affinché gli aspiranti non
cerchino invano un Guru, che li istruisca. Sono Coloro verso cui alcuni di noi hanno una illimitata
gratitudine, perché Essi rimangono entro la sfera terrena, pur vivendo in una coscienza nirvanica
ben superiore ad essa, affinché rimanga un legame tra i mondi più elevati e gli uomini non ancora
liberati, per i quali il corpo è tuttora una prigione, nei quali la vita non è ancor libera. Tutti
Coloro che hanno raggiunto questo elevato livello sono gloriosi, tutti Coloro che stanno dove Essi stanno, sono divini.

Ma si potrebbe forse dire, senza irriverenza, che i più cari al cuore dell’umanità, i più
strettamente legati a lei dai vincoli di una appassionata gratitudine per la rinuncia fatta, sono
Coloro che potevano allontanarsi e sono rimasti con noi, che potevano lasciarci orfani e restano a
farci da Padri. Fra Questi sono i grandi Guru ai cui Piedi noi ci prostriamo, sono i grandi Maestri
che stanno dietro la Società Teosofica. Essi hanno mandato la Loro messaggera, H. P. Blavatsky a
riportare al mondo il messaggio che esso aveva quasi del tutto dimenticato, a proclamare di nuovo lo
stretto ed antico Sentiero che alcuni ora già seguono e sul quale voi pure potrete metter piede.

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