Il silenzio tra le onde

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Il silenzio tra le onde

di Bianca Pescatori

(Recensione al libro di Corrado Pensa: “Il silenzio tra due onde”)

Ho appena finito di leggere un bellissimo e istruttivo libro di
Corrado Pensa “Il silenzio tra due onde”. Corrado Pensa è uno studioso
di religioni orientali, ex docente di Filosofie dell’Indiaalla
Sapienza di Roma, psicoterapeuta junghiano che da alcuni anni si
dedica esclusivamente a diffondere l’insegnamento buddista nella sua
tradizione più antica, la tradizione theravada, diffusa in
particolare nel sud est asiatico. Sapiente insegnante di meditazione
Vipassana, autore di molti testi di dharma, stimato in Italia e
all’estero, per me è soprattutto persona gentile e feconda guida
spirituale.

Mi fa piacere condividere l’esperienza di questa lettura che mi è
stata di grande aiuto in questo afoso agosto passato faticosamente a
Roma a occuparmi “di riabilitare un polso” che si era rotto alle
soglie dell’estate.

“Il silenzio tra due onde” è un libro di Dharma, nel quale Corrado
Pensa, con una semplicità e una chiarezza pari all’efficacia
dell’insegnamento ci introduce ai temi principali del sentiero
buddista.

Dunque in compagnia di questa lettura, importante guida nella pratica
di meditazione di consapevolezza, ho potuto comprendere ancora più a
fondo – in qualche modo c’entrava anche una certa contentezza di cuore
che la lettura, e la meditazione da questa ispirata, provocava – come
addentrarmi nel sentiero che è necessario percorrere per lasciare
andare quel tipo di sofferenza inutile autoprodotta da una mente “non
coltivata” , cioè inconsapevole di se stessa.

Il libro parla dell’importanza della pazienza, dell’accettarsi per
come si è, del grande agio che deriva dall’essere amici di se stessi,
con tutte le difficoltà e le imperfezioni che ci abitano (e che
tendiamo così spesso a notare ben più frequentemente dei talenti e
della bontà che pure agiamo in gran parte della nostra vita),
dell’utilità di cogliere consapevolmente, senza giudicare, momento per
momento, sia attraverso la pratica meditativa formale, che quella in
azione, quello che agita o intorpidisce la nostra mente, i pensieri su
cui maggiormente si sofferma, come tenda a mettersi in relazione con
se stessa e con la mente degli altri in modo automatico e reattivo.

Coltivare mindfulness, quella visione profonda che permette di vedere
le cose così come esse realmente sono e che ci permette di entrare in
contatto immediato (cioè non mediato dalle proliferazioni e dalle
distorsioni percettive mentali) con esse, non è cosa facile, richiede
costanza nella pratica meditativa, fiducia, determinazione, pazienza
appunto, umiltà, amore, comprensione, accettazione.

Ma queste qualità non fioriscono dal nulla: possono essere a loro
volta coltivate, con consapevolezza.

Ecco allora che, come Corrado Pensa ci dice, praticare diventa un
circolo virtuoso: coltivare attraverso la meditazione (formale o
informale) consapevolezza, ci permette di coltivare anche quelle
qualità mentali che vivificate, rendono possibile stabilizzare e
rafforzare la consapevolezza stessa. E la consapevolezza concima a sua
volta il terreno nel quale fioriscono le qualità mentali. Così che non
vi è l’una senza le altre.

E questo avviene, come ogni tanto posso osservare nella mia
esperienza, contemporaneamente e spontaneamente. Accade a volte che,
in una qualche situazione di sofferenza, magari un momenti di
malumore, o di angoscia o di difficoltà ad accettare qualche emozione,
pensiero, sentimento che viene giudicato non opportuno, grazie ad un
po’ di consapevolezza presente, sia possibile fermarsi un momento e
osservare.

Si nota dunque che fermarsi è possibile poiché è presente la fiducia
che ci sia di aiuto, l’accettazione di quel momento di difficoltà, di
quell’avversione che si è affacciata, la pazienza di stare con
qualcosa che provoca sensazioni spiacevoli; fiducia, accettazione,
pazienza aiutano a stare ancora un poco, ad osservare meglio. Può
accadere allora che di fronte a questa sofferenza si apra uno spazio
di amicizia, di sollecitudine che si sostituisce all’avversione, da
una parte questo ci aiuta a notare il ruolo di questa nel disagio
iniziale, dall’altra può accadere che nasca un sentimento di
gratitudine per la pratica che rafforza la motivazione a meditare.

E proprio la comprensione del valore della meditazione formale il
fattore che più ci è di sostegno nella costanza a praticare. Così, nel
dirci questo, Corrado Pensa cita Ezra Bayda (“star bene in acque
torbide” Ubaldini, Roma 2007), la quale scrive:

“Ma capiamo veramente quello che stiamo facendo? E comprendiamo
veramente che cosa accade durante il processo della meditazione
seduta, che cosa la rende così preziosa?”

Sono cinque i fattori che Ezra Bayda ci dice si sviluppano durante la pratica:

Il fattore della perseveranza, che, come sottolinea Pensa, ci permette
“di sostenere la pratica nelle difficoltà e malgrado esse”, e va da sé
ci sostiene in senso allargato in tutte le situazioni difficili della
vita.

Il fattore della stabilizzazione che si stabilisce sia a livello
fisico che psicologico. La mente, il corpo diventano stabili anche in
mezzo alla tempesta.
In un ritiro l’insegnante di meditazione Patricia Genoud ci diceva a
proposito dell’equanimità di aver letto, se non ricordo male in una
insegna in un convento di religiose, questa scritta “se la vostra
mente rimane ferma come un sasso e non si scuote in un mondo in cui
tutto si scuote, la vostra mente diventerà il vostro miglior amico e
la sofferenza non verrà da voi”.

Il fattore della chiara visione. Dice Ezra Bayda “Cominciamo cioè a
cogliere con maggiore consapevolezza, quello che facciamo: come
pensiamo, come reagiamo, come fantastichiamo”.

Il quarto fattore è cominciare a vedere e ad entrare in contatto
veramente e direttamente con il nostro disagio emotivo. Può sembrare
un controsenso, perché entrare in contatto con la nostra sofferenza
dovrebbe essere auspicabile, tanto da motivarci a praticare? Eppure
solo se la guardiamo per così dire in faccia, ne prendiamo atto con
tutta l’apertura e l’accettazione che la pratica ci permette, solo se
la prendiamo con noi, cioè la comprendiamo attraverso una attenzione
sollecita e silenziosa, è possibile permettere che essa si dissolva,
come tutti i fenomeni che sorgono e se ne vanno.

Il quinto è la capacità di essere nel momento presente, non più
sopraffatti da una mente che ci trascina in una realtà che non esiste,
un passato che non c’è più o un futuro che non c’è ancora, ma
nell’unica realtà nella quale veramente possiamo agire, e cioè momento
per momento qui ed ora.

E questo non significa che non sia utile o sia fonte di sofferenza
soffermarsi a ricordare o a riflettere su ciò che è stato o
progettarsi in ciò che potrà essere: è una questione di consapevolezza
e di equanimità.

Come dice il Buddha nel “Bhaddekaratta Sutta”:

“quando qualcuno pensa a come era il suo corpo … le sue sensazioni ….
Le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in
passato, e la sua mente è oppressa e attaccata a queste cose che
appartengono al passato, allora quella persona insegue il passato”

Così come

“quando qualcuno pensa a come sarà il suo corpo … le sue sensazioni ….
Le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in
futuro, e la sua mente è oppressa e fantastica su queste cose che
appartengono al futuro, allora quella persona si perde nel futuro”

Viceversa

“quando qualcuno pensa a come era il suo corpo … le sue sensazioni ….
le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … in
passato, ma la sua mente non è schiava né attaccata a queste cose che
appartengono al passato, allora quella persona non insegue il passato”

“quando qualcuno pensa a come sarà il suo corpo … le sue sensazioni ….
le sue percezioni … le sue formazioni mentali … la sua coscienza … nel
futuro, ma la sua mente non è oppressa e non fantastica su queste cose
che appartengono al futuro, allora quella persona non si perde nel
futuro”.

Perdersi, inseguire: termini che hanno in sé qualcosa di incompiuto,
che ci conducono lontano da noi, che sanno di abbandono.

In fondo credo che molto si riduca semplicemente a starci vicini,
tanto vicini da poterci finalmente vedere, ma senza essere confusi,
identificati con ciò che è oggetto della visione. E per poterci stare
vicini, dobbiamo essere nel presente, poiché è il presente l’unica
realtà nella quale ci possiamo trovare.

Mi viene in mente il termine ” d’appresso” , sa di accudimento, ma
anche di attenzione, di costante presenza, di accettazione, “mettere
il piede nella stessa orma”: ecco mi piace pensare che la meditazione
di consapevolezza sia il modo in cui possiamo essere “d’appresso” a
noi stessi, mentre sperimentiamo, così come possiamo, così come siamo
capaci, la vita che si snoda via via nel momento presente.

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