Il sovraccarico di memoria che manda il cervello fuori sincrono

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Il sovraccarico di memoria che manda il cervello fuori sincrono

23 giugno 2018

Gli esseri umani possono conservare solo quattro o cinque elementi alla volta nella memoria di
lavoro: se questa si sovraccarica, i segnali di feedback inviati da alcune aree del cervello si
interrompono e il network cerebrale perde di sincronia. Il fenomeno potrebbe essere legato a una
“codifica predittiva” delle informazioni sensoriali: il cervello ha sempre delle aspettative in
tempo reale su ciò che sta vivendo e sperimentando

di Jordana Capelewicz/Quanta Magazine

Nel 1956, il noto psicologo cognitivo George Miller pubblicò uno degli articoli più citati del
campo: “Il magico numero sette, più o meno due”. In quel lavoro, sosteneva che anche se il cervello
può immagazzinare un’intera vita di conoscenza nei suoi mille miliardi di connessioni, il numero di
elementi che gli esseri umani possono mantenere attivamente e contemporaneamente nella
consapevolezza cosciente è limitato, in media, a sette.

Gli elementi potrebbero essere una serie di cifre, una manciata di oggetti sparsi per una stanza,
una lista di parole o suoni sovrapposti. Qualunque cosa siano, scrisse Miller, solo sette di essi
possono inserirsi nella cosiddetta memoria di lavoro, dove sono disponibili per la nostra attenzione
focalizzata e altri processi cognitivi. La loro permanenza nella memoria di lavoro è breve e
limitata: quando non sono più pensati attivamente, vengono immagazzinati altrove o dimenticati.

Dai tempi di Miller, neuroscienziati e psicologi hanno continuato a studiare la memoria di lavoro e
i suoi limiti sorprendentemente rigidi, scoprendo che potrebbero essere più vicini a quattro o
cinque voci che a sette. E hanno studiato in che modo le persone aggirano il limite: possiamo
ricordare tutte le cifre di un numero di telefono “facendo a pezzi” i numeri (ricordando 1, poi 4,
invece del singolo elemento 14, per esempio), o sviluppando trucchi mnemonici per estrarre cifre
casuali di pi-greco dalla memoria a lungo termine.

Ma la ragione per cui la memoria di lavoro inizia a venir meno in corrispondenza di una soglia così
bassa non è ancora chiara. I ricercatori possono vedere che qualsiasi tentativo di superare quel
limite fa degradare le informazioni: le rappresentazioni neuronali diventano “più fragili”, i ritmi
del cervello cambiano e i ricordi si perdono. Questo avviene con un numero ancora minore di elementi
nelle persone a cui sono stati diagnosticati disturbi neurologici, come la schizofrenia.

Il meccanismo all’origine del degrado, tuttavia, è rimasto sconosciuto fino a poco tempo fa. In un
articolo pubblicato su “Cerebral Cortex” a marzo, tre scienziati hanno scoperto che un significativo
indebolimento dei segnali di feedback tra le diverse parti del cervello è responsabile del problema.
Lo studio fa una luce sulla funzione e le disfunzioni della memoria, offrendo inoltre ulteriori
prove a favore di una promettente teoria su come il cervello elabora le informazioni.

Un ronzio sincronizzato

Earl Miller, neuroscienziato presso il Picower Institute for Learning and Memory del MIT, Dimitris
Pinotsis, ricercatore del suo laboratorio, e Timothy Buschman, assistente professore alla Princeton
University, volevano sapere che cosa stabilisce un limite così basso alla capacità della memoria di
lavoro.

www.lescienze.it/images/2018/06/21/094143753-de091126-e37a-467d-87b2-f5d4a1a6308f.jpg
Schema dei limiti della memoria di lavoro secondo i flussi di feedback e feedforward (Credit: Lucy
Reading-Ikkanda/Quanta magazine)

Sapevano già che nella memoria di lavoro è attiva una rete che coinvolge tre regioni cerebrali: la
corteccia prefrontale, i campi oculari frontali e l’area intraparietale laterale. Ma non avevano
ancora osservato cambiamenti dell’attività neurale che corrispondessero alla rapida transizione tra
ricordare e non ricordare che accompagna il superamento del limite della memoria di lavoro.

Così hanno ripreso un test della memoria di lavoro che il laboratorio di Miller aveva condotto
alcuni anni prima, in cui i ricercatori mostravano ad alcune scimmie una serie di schermate: prima
una serie di quadrati colorati, seguita brevemente da uno schermo vuoto, e poi ancora dalla
schermata iniziale, ma stavolta con il colore di un quadrato cambiato.

Gli animali dovevano rilevare la differenza tra le schermate. A volte il numero di quadrati scendeva
al di sotto della capacità di memoria di lavoro, altre saliva al di sopra. Gli elettrodi inseriti
nel cervello delle scimmie registravano il tempo e la frequenza delle onde cerebrali prodotte da
varie popolazioni di neuroni mentre gli animali affrontavano ogni compito.

Queste onde sono essenzialmente i ritmi coordinati di milioni di neuroni che diventano attivi o
silenziosi nello stesso momento. Quando le aree del cervello mostrano oscillazioni corrispondenti,
sia nel tempo sia nella frequenza, si dice che sono sincronizzate. “È come se stessero ronzando
insieme”, ha detto Miller. “E i neuroni che ronzano insieme stanno comunicando”.

Miller paragona tutto questo a una rete stradale: le connessioni fisiche del cervello si comportano
come strade e autostrade, mentre gli schemi di risonanza creati dalle onde cerebrali oscillanti che
“ronzano” insieme sono i semafori che dirigono il flusso del traffico. Questa configurazione,
ipotizzano i ricercatori, sembra aiutare a “legare” in qualche modo le reti attive a una
rappresentazione più solida di un’esperienza.

Nel loro recente lavoro, Miller e colleghi hanno estratto i dati di oscillazione raccolti dai test
sulle scimmie per ottenere informazioni sul funzionamento questa rete di memoria tripartita. Hanno
costruito un modello meccanicistico dettagliato che incorpora ipotesi – basate su ricerche
precedenti – sulla struttura e sull’attività della rete: le posizioni e i comportamenti (per
esempio, eccitatori o inibitori) di specifiche popolazioni neurali, o le frequenze di certe
oscillazioni.

I ricercatori hanno quindi generato alcune ipotesi concorrenti su come le diverse aree del cervello
potessero “parlare” l’una con l’altra – riguardanti anche la direzione e l’intensità di quel dialogo
– quando le scimmie dovevano ricordare sempre più voci. Infine, hanno confrontato questi calcoli con
i loro dati sperimentali per determinare quale degli scenari fosse il più probabile.

Il loro modello ha confermato che le tre regioni del cervello si comportano come giocolieri
impegnati in un lancio acrobatico di oggetti.

La corteccia prefrontale sembra aiutare a costruire un modello interno del mondo, inviando i
cosiddetti segnali top-down o di feedback, che trasmettono questo modello alle aree cerebrali di
livello inferiore. Nel frattempo, i campi oculari superficiali frontali e l’area intraparietale
laterale inviano un input sensoriale grezzo alle aree più profonde della corteccia prefrontale,
sotto forma di segnali bottom-up o feedforward. Le differenze tra il modello top-down e le
informazioni sensoriali bottom-up consentono al cervello di capire che cosa sta vivendo e di
modificare di conseguenza i suoi modelli interni.

Miller e colleghi hanno scoperto che quando il numero di elementi da ricordare superava la capacità
della memoria di lavoro delle scimmie, la connessione di feedback top-down dalla corteccia
prefrontale alle altre due regioni s’interrompeva. Le connessioni feedforward, invece, rimanevano
intatte.

L’indebolimento dei segnali di feedback, secondo i modelli del gruppo, portava a una perdita di
sincronia tra le aree del cervello. Senza le comunicazioni orientate alla predizione dalla corteccia
prefrontale, la rete della memoria di lavoro andava fuori sincrono.

Aggiornare il modello

Ma perché il feedback top-down è così vulnerabile a un aumento del numero di elementi da ricordare?
L’ipotesi dei ricercatori è che l’informazione modellata proveniente dalla corteccia prefrontale
rappresenti essenzialmente un insieme di previsioni su ciò che il cervello percepirà nel mondo: in
questo caso, il contenuto degli elementi contenuti nella memoria di lavoro.

“Per esempio, mentre stai leggendo questa frase, avrai delle aspettative sulla parola, su pezzi di
frase o sulla frase intera”, osserva Karl Friston, neuroscienziato dello University College di
Londra, che non era coinvolto nello studio. “Avere una rappresentazione o un’aspettativa sulla frase
in tempo reale significa avere una rappresentazione implicita del passato e del futuro.”

Parecchi neuroscienziati ritengono che il cervello faccia molto affidamento su questa “codifica
predittiva” di dati sensoriali per svolgere le proprie funzioni cognitive e di comando routinarie.
Ma Miller e colleghi ipotizzano che quando la quantità di oggetti collocati nella memoria di lavoro
diventa troppo grande, il numero di previsioni possibili per quegli elementi non può essere
codificato facilmente nel segnale di feedback. Di conseguenza, il feedback fallisce e il sistema di
memoria di lavoro sovraccarico crolla.

Il laboratorio di Miller e altri stanno lavorando per ritagliare un ruolo più importante per
l’interazione tra le onde cerebrali nel modello di memoria di lavoro, che tradizionalmente pone la
maggior parte dell’enfasi sull’attività di trasporto dell’impulso elettrico dei singoli neuroni. Si
sta anche studiando il motivo per cui il limite superiore della memoria di lavoro si aggira intorno
a quattro o cinque elementi, e non un altro numero.

Miller pensa che il cervello manipoli gli elementi contenuti nella memoria di lavoro uno alla volta,
in alternanza. “Ciò significa che tutte le informazioni devono inserirsi in un’onda cerebrale”, ha
affermato. “Quando superi la capacità di quell’unica onda cerebrale, hai raggiunto il limite della
memoria di lavoro.”

“La domanda ora è dove ci porterà tutto questo”, ha detto Rufin Van Rullen, ricercatore del CNRS
francese che trova la modellizzazione e le conclusioni del gruppo “potenti”, in attesa di ulteriori
conferme sperimentali. “Dobbiamo effettivamente entrare nel cervello e trovare prove più dirette di
queste connessioni”.

La ricompensa potenziale è alta. Irrobustire un modello di codifica predittiva per la memoria di
lavoro non solo consentirà una migliore comprensione di come funziona il cervello e di cosa potrebbe
andare male nelle malattie neurologiche, ma avrà anche implicazioni cruciali su ciò che intendiamo
per “intelligenza” e persino per l’individualità, secondo Friston.

Per cominciare, capire meglio ciò che fanno le connessioni di feedback nel cervello potrebbe portare
a grandi passi nella ricerca sull’intelligenza artificiale, che oggi si concentra di più sui segnali
feedforward e sugli algoritmi di classificazione. “Ma a volte un sistema potrebbe aver bisogno di
prendere una decisione non su ciò che vede ma in base a ciò che ricorda”, ha detto Pinotsis.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 6 giugno 2018 da QuantaMagazine.org, una
pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la
comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione
autorizzata, tutti i diritti riservati)

www.quantamagazine.org/overtaxed-working-memory-knocks-the-brain-out-of-sync-20180606/

academic.oup.com/cercor/advance-article/doi/10.1093/cercor/bhy065/4955775

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