Il terreno di mezzo della presenza mentale 1

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Il terreno di mezzo della presenza mentale 1

– ovvero mantenere la mente tra il mi-piace e il non-mi-piace –

di AJAHN VIMALO

Da discorsi tenuti a Settefrati il 22 e il 27 luglio 2007

(prima parte)

…Ho come perso un po’ il filo… ché avevo intenzione di parlare
dell’irrequietezza e della preoccupazione e del dubbio,’ ma poi ho
pensato che avrei parlato del mio approccio alla presenza mentale.
Semplice, ma può essere difficile da mettere in parole. È qualcosa che
io vedo come un’esperienza al di là delle parole. Non sono un monaco
studioso, non sono in grado di utilizzare tutti i corretti termini
pàli, per cui devo soltanto sedere e aspettare, e vedere cosa
succede… Voglio dire di notare o semplicemente essere consapevoli
delle cose così come passano. A volte parlo dell’essere realmente
‘aperti di mente’, di una vera apertura della mente. Tutte queste
diverse espressioni, come venire nel presente, e così via, sono parole
per riferirsi a un modo di guardare al mondo. Un modo che ci è molto
vicino. Un modo assai vicino a tutti noi. Perdonatemi se parlando ci
girerò un po’ intorno…

In altre tradizioni, come quella indù, troviamo grandi uomini del
calibro Ramana Maharshi.2 Una volta, un tale che era a sua volta un
grande maestro, andò da lui e gli chiese: “Qual è il tapas supremo?”.
Tapas significa ‘austerità’. Probabilmente alcuni di voi ne hanno
sentito parlare: sedere in un cerchio di fuoco, o stare in piedi su di
una gamba sola per un anno, cose di questo genere. Anche nel buddhismo
ci sono cose simili, come non coricarsi mai, neppure per dormire, e
così via.’ A quell’uomo Ramana Maharshi rispose: “Osservare da dove
scaturisce questa nozione di ‘io’: questo è il tapas.” .4 Come
buddhisti, anche noi abbiamo il nostro senso di ‘io’, malgrado ci
venga in continuazione detto di investigare il ‘non-sé’ o il ‘non-io’,
sicché quando si parla di “stare con il senso del sé” o della
“sensazione ‘io'” questo può apparire in contraddizione con il
buddhismo. Tuttavia quello che Ramana Maharshi effettivamente indica è
lo stare proprio qui, in questo punto di intersezione, o convergenza,
per così dire. Esattamente dove vi trovate, mentre mi state guardando,
ma privi di piacere e dis-piacere. Siete consapevoli di questo senso
del guardarmi attraverso i vostri occhi.

Ecco, proprio qui, questo senso dell”essere-io/me (7-am-ness) rispetto
a questa cosa’. La tua attenzione mi sta guardando. Io guardo te — in
questo c’è una sorta di senso di `io sono’. È questo a cui, secondo la
mia comprensione, si riferisce Ramana Maharshi. Seguendo questa linea
di investigazione, ritroviamo anche un altro insegnamento, la nozione
del “testimone”. Vorrei aggiungere che non intendo dire che tutte
queste dottrine e questi insegnamenti raggiungano necessariamente la
piena comprensione che fu raggiunta dal Buddha. Non sono nella
posizione di fare questo genere di affermazioni, ma mettono in luce
uno medesimo orientamento generale, puntando cioè nella direzione del
vedere attraverso la nostra identificazione con 1″io’. E questo vedere
richiede ‘attenzione saggia’. Un’attenzione libera dall’avidità e
dall’odio. In uno dei colloqui mi è stato chiesto di soffermarmi su
quanto avevo accennato a proposito dell'”essere il testimone” di tutto
quello che accade all’interno e all’esterno di se stessi. Mi è stato
poi chiesto: “Il testimone è la stessa cosa che la presenza mentale?”.

Questi sono tutti modi di dire approssimativamente la stessa cosa. Noi
usiamo delle parole ma il luogo della presenza mentale è
un’esperienza, non un concetto. Questo ci richiama alla mente l'”Ora è
il Conoscere” (“Now is the Knowing”) e all'”Essere colui che conosce”
(“To be the Knower”) di Ajahn Sumedho.5

Ho citato un altro esempio usato da Ajahn Chah: l’immagine di un’unica
sedia in una stanza.’ Immagina di essere seduto su quest’unica sedia
in una stanza, con vari ospiti che vengono nella stanza e cercano di
farti spostare. Arriva una splendida donna, se sei un uomo, o un
bell’uomo, se sei una donna, e cercano di farti spostare dalla tua
sedia. Tentano di sedurti allo scopo di farti cedere la sedia — “Dai,
alzati da quella sedia” — ti dicono. Tu li vedi arrivare ma resti
sulla sedia. Loro possono trattenersi per un po’, danzando davanti a
te, ma tu resti fermo al tuo posto. Dopo un po’ di tempo, tanto o poco
che sia, gli avventori si rendono conto che non hai intenzione di
mollare la sedia, e allora sono loro ad andarsene. Dei mostri
potrebbero poi venire a tentare di terrorizzarti per farti cadere
dalla sedia, ma uno prende la risoluzione di non muoversi fino a
quando anche loro non abbiano desistito dal loro intento e se ne siano
andati.

Semplicemente conoscerli, ossia essere testimone del loro giungere e
andar via. Basta questo. Nel corso del tempo, sarà sempre meno quello
che ti verrà a disturbare. Non vuol dire che loro smetteranno di
venire. È che non riescono a farci spostare. Si potrebbe dire che
diventano irrilevanti. Quando mi guardate, o io vi guardo, in questo
c’è un conoscere. Questo conoscere è già presente in noi, ma quello
che succede è che si presentano le sensazioni e i pensieri con cui ci
identifichiamo, e sono loro a scalzare noi anziché noi a conoscere
loro con il semplice stare fermi su quella sedia, lasciando che se ne
vadano pacificamente.

È come trovarsi su un fiume. Siamo su una barca. Su una sponda del
fiume stanno le cose che non ci piacciono, i nostri dis-piaceri, e
sull’altra sponda quello che ci piace, i nostri piaceri. Il nostro
desiderio di ottenere e il nostro desiderio di sbarazzarci —
sbarazzarci dei grandi problemi che pensiamo di avere, fino alla
semplice irrequietezza, torpore, e cose del genere. Quello che
facciamo nella nostra pratica è questo: veniamo catturati da questa
sponda, il piacere, poi spingiamo noi stessi via da questa e ci
andiamo a incagliare nell’altra sponda, il dis-piacere, fino a quando
non incominciamo a vedere cos’è che sta accadendo: la natura
passeggera, insoddisfacente e vacua delle cose; la sofferenza che
creiamo a noi stessi; com’è che stiamo finendo con l’essere catturati
da questa sponda, e com’è che stiamo finendo con l’essere catturati da
quest’altra sponda. È proprio da tale vedere che veniamo spostati più
prossimi al centro del fiume. Non dobbiamo neppure starci a pensare,
ma con il semplice osservare, accade da sé. Muoversi con il flusso,
nel centro, è una cosa piena di calma, e abbiamo una visione assai più
chiara delle due rive. Allora possiamo riuscire a vedere anche quello
che è il nostro desiderio semplicemente di essere.

Quando ti trovi a casa, al lavoro, o mentre stai facendo qualunque
cosa hai da fare, continua a guardare quello che si presenta passando
attraverso le porte dei sensi, a conoscerlo, ‘conoscere’ che tu non
sei ciò che è conosciuto, essere testimone di ciò che sta succedendo.
Puoi fare questo ovunque, perché hai la mente per conoscere! Il
conoscere c’è sempre, la consapevolezza c’è sempre, quando stiamo
attenti a non stare sempre lì pronti a scegliere. Gradualmente questo
aspetto del conoscere, questa presenza mentale, sembrano espandersi, e
incominciano a vedere come gli ostacoli e il falso senso del sé
inibiscono noi e la nostra libertà. Come ha detto il venerabile
Subhaddo:7 “È solo questo momento…”. Eppure, in realtà, anche l’idea
stessa di stare nel momento presente è dipendente dal concetto di
passato e futuro, e di tempo. Come dice Ajahn Sumedho: “Il Conoscere è
Ora!” (“Now is the Knowing! “).

C’era un monaco tailandese molto famoso chiamato Phra Ajahn Dune
Atulo,8 che era considerato un arahant. E c’è un libricino di risposte
date da Ajahn Dune a domande che gli erano state fatte, il cui titolo
mi pare sia “Doni che ha lasciato” (Gifis he lefi behind). C’è una
cosa detta da Ajahn Dune che ho letto in questo libro e che mi è
piaciuta istantaneamente: la sua visione delle Quattro nobili verità.
Le Quattro nobili verità del buddhismo sono: c’è dukkha, la
sofferenza; c’è una causa della sofferenza; c’è la fine, la cessazione
della sofferenza; e c’è una via che porta alla fine della sofferenza”.
Ajahn Dune invertì la prima e la seconda nobile verità e poi la terza
e la quarta.

Disse: “La mente lanciata fuori è la causa della sofferenza” — questa
è la seconda nobile verità; “Il risultato della mente che viene
lanciata fuori è la sofferenza” — questa è la prima nobile verità.
Quindi, come terza nobile verità espose la quarta nobile verità: “La
mente che vede la mente è la via”, e come quarta insegnò la terza: “Il
risultato della mente che vede la mente è la fine di tutta la
sofferenza”.9 Così, come si può vedere, ha invertito tra di loro le
prime due e tra di loro le seconde due. Quello di cui Ajahn Dune sta
parlando è la mente che sta con la mente, la mente che vede la mente,
ciò che è chiamato il Citta, ovvero il cuore. È simile a Ramana
Maharshi, ma sviluppato in una maniera diversa. È riportare noi stessi
al Citta, e avere la fede di stare esattamente lì.

Noi diciamo “essere presenti” (to be mindful) mentre, nell’atto
effettivo del compiere tale movimento, in realtà ci stiamo
concentrando, stiamo prestando attenzione compiamo una determinata
azione. Facciamo ogni cosa ‘con presenza’ (mindfully), o come noi
riteniamo che ‘sia presente’ (what we think is mindful), ma in realtà
questa è un’attenzione, manasikàra, spesso mancante della saggezza, di
‘ yoniso’ , cioè. Qualcuno può essere estremamente abile a manomettere
una cassaforte per impossessarsi del bottino che vi è racchiuso, ma
quello che spesso non viene evidenziato abbastanza è che perché vi sia
presenza mentale (mindfulness) noi dobbiamo avere yoniso manasikàra,
l’attenzione saggia.

E l’attenzione saggia è l’attenzione che è libera dall’avidità,
dall’odio e dall’ignoranza. Se uno scassinatore avesse presenza
mentale, tanto per cominciare egli non si troverebbe nel luogo dove si
trova, cioè a manomettere la cassaforte, perché non cadrebbe in stati
mentali insani, per come la vedo io.’

Così, quando siamo consapevoli di queste due tendenze, quello che è
consapevole di queste due si trova nel mezzo, con l'”io sono”, “con il
Citta”, sta “vedendo il Citta” direttamente in quel punto. Essere
sempre consapevoli di questo è molto importante, perché quando la tua
attenzione è saggia, ti puoi muovere veloce o andare piano, puoi
correre o camminare con consapevolezza, e la Conoscenza può sorgere.
Se hai un senso di dove si trova la mente rispetto al mi-piace e
non-mi-piace, questo è spostarsi al centro, spostarsi verso
l’equanimità, upekkhà. Ed è anche il punto di rottura nel
paticca-samuppadà, l’originazione dipendente. L’inganno “IO SONO” può
allora essere penetrato.

Per me la storia dell’Illuminazione del Buddha simboleggia questo. Il
Buddha viveva in un palazzo con ogni cosa desiderata, e intravide che
questo non portava felicità, che non lo appagava. Allora andò
all’altro estremo. Ebbe due insegnanti che lo istruirono nei poteri
della mente, ma non mi soffermerò su questo. La prima parte della sua
vita era stata quindi occupata dal ‘desiderare’. Rendendosi conto che
non aveva funzionato, trascorse altri anni dedito alle austerità, cioè
al `cercare di liberarsi da’. Dopo aver deciso che nessuno di questi
due estremi andava bene per raggiungere la conoscenza, o la
pacificazione, decise di camminare proprio nel mezzo: una moderazione
in ogni cosa, mantenendo questo ‘mezzo’, la mente che vede il Citta,
lo stare con il Citta, facendo quello che doveva fare nel corso della
giornata, senza muoversi verso le cose o allontanandosene, senza il
desiderio e l’avversione.

Tuttavia a quel tempo egli non si rese conto che quella era la via di
mezzo: questo fu chiaro solo in retrospettiva. In questo modo la sua
pàrami, la sua virtù, maturò secondo il proprio corso fino a quando il
Buddha non andò a sedersi sotto l’albero della Bodhi. Fu allora che
acquisì le conoscenze,” dopodiché, con equanimità e presenza mentale,
egli penetrò la Verità. Potete quindi vedere che è molto importante
muoversi nella direzione dell’essere consapevoli di quando si sta
provando piacere e dis-piacere per qualcosa.

Mentre mi state guardando, in questo momento, avete un oggetto visivo,
e se non mi desiderate — e spero che non mi desideriate, visto che
sono troppo vecchio –, e non mi detestate -perché sono piuttosto
arrogante –, allora vi trovate in uno spazio naturale, neutrale, vi
trovate nel mezzo, state semplicemente vedendo un oggetto visivo. In
realtà non state guardando me, ma state guardando la vostra stessa
mente, in quanto la luce riflette me dentro di voi, attraverso i
vostri occhi. Come una macchina fotografica che viene ribaltata, il
vostro cervello gira l’immagine nella maniera corretta e poi ci mette
un sacco di condizionamento, percezioni, e tutte queste cose, che
derivano dalla vostra storia personale. A quel punto l’immagine viene
ri-proiettata lì fuori e la vostra mente dice: “Ecco cosa c’è lì
fuori!”.

Non vedi mai realmente cosa c’è lì fuori. E poi, quando percepiamo
qualcosa, noi siamo quella cosa. Questo è il motivo per cui quando
siamo di umor nero, tutto il mondo può sembrarci di umor nero. Tu stai
collocando l’oggetto esternamente, lì fuori, perciò quando mi guardi,
tutto quello che io sono per te è la scena in quello spazio che tu
credi essere la tua faccia. Se un po’ di quel condizionamento venisse
a mancare, allora potrebbe esserci un senso di non dualità, potrebbe
esserci una semplice conoscenza di ciò che è visto, senza nessuno
dietro a questo. Nuda attenzione. Con una mente che è libera dal
mi-piace e non-mi-piace. L’illusione poi, mohà, è un altro aspetto,
nel quale però non entrerò in questa occasione. In Inghilterra, un
maestro spirituale scrisse un libro con un titolo che mi piace
proprio. Questo libro è chiamato “Sul non avere una testa” (On Having
No Head).12 Quando realmente fai tuo questo modo ti vedere, nel senso
visivo/visuale, è come scoprirti improvvisamente senza testa…

…Durante la pausa sono andato a fare una passeggiata. Contemplando
le colline, e lasciando andare e riposando in quel senso del
conoscere, si può avere la sensazione che si è le colline Ogni cosa
può apparirti penetrata da quel senso del conoscere: perché è la mente
che sta percependo tutto questo. Quando te ne vai all’aperto, in cima
a una collina, e vedi il cielo e il paesaggio, tu stai percependo
tutto questo, ossia questo si trova nella percezione, ma quello che di
solito facciamo è lasciarci sedurre dai nostri umori e sentimenti, da
quello che ci piace e quello che non ci piace.

A quel punto, invaghiti di tutto ciò, concepiamo i nostri mondi
personali: desiderare di ottenere, desiderare di sbarazzarsi, e tutto
il resto. In realtà, se siamo consapevoli, quando saliamo qui su, su
queste colline, possiamo provare un senso del conoscere le colline
Questo conoscere incomincia a ritornare attraverso di noi. Per
“attraverso di noi” intendo che il conoscere ritorna attraverso quella
che noi crediamo essere la nostra faccia — come ho detto prima —
sicché è il conoscere non solo tutto quello che c’è all’esterno, ma è
conoscere a trecentosessanta gradi –, come uno specchio che riflette:
la sua superficie è ovunque, priva di un dentro e priva di un fuori.
Le nostre relazioni con le persone, e tutto cambia quando incominciamo
a realizzare che non c’è nulla cui aggrapparsi e nulla da temere.
Quello stesso conoscere conosce le limitazioni che sovrimponiamo su
noi stessi, e possiamo incominciare a fare un passo oltre. Le nostre
resistenze incominciano a cadere e la nostra vita incomincia a essere
un’esperienza totale, momento per momento…

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