Il valore della consapevolezza, nel percorso yogico 1

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Il valore della consapevolezza, nel percorso yogico 1

Ivan Di Piazza – Domenico Puleo

(parte prima)

1. INTRODUZIONE

Il tema della consapevolezza rappresenta un elemento comune a varie tradizioni di ricerca interiore,
sia orientali che, in una certa misura, anche occidentali. Lo yoga che fa capo alla tradizione del
Raja, il Vedanta, gran parte delle diverse scuole buddhiste e le mistiche cristiane fanno di essa un
mezzo interiore di avanzamento spirituale.

Anche le tecniche yoga legate alla tradizione della Kundalini, pur mettendo l’accento sulla
dimensione energetica delle pratiche, hanno come scopo l’unione delle due polarità: l’aspetto
dinamico dalla manifestazione (shakti) e l’aspetto coscienziale (shiva), il quale rimane dunque un
elemento pregnante.

Nell’ambito della modernità, la psicologia transpersonale rappresenta probabilmente il tentativo di
indagine interiore più aperto che la tradizione occidentale sia riuscita a produrre, o almeno quello
che ha più attinenza con un percorso di tipo yogico; lo stesso Jung, padre nobile della psicologia
umanistica e transpersonale, sottolinea1 come il lungo lavoro sull’inconscio debba, in fin dei
conti, essere rapportato al piano coscienziale, e che dunque la coscienza-consapevolezza rappresenta
il fattore decisivo del ‘processo individuativo’.

Quanto forte sia l’esigenza interiore di recupero di una dimensione di ascolto nella società moderna
è molto evidente dai comportamenti e dalle atmosfere che incontriamo tutti giorni. L’esaltazione
culturale dell’io-mio e di elementi fortemente narcisisti, alimentata dall’influenza condizionante
dei mezzi di comunicazione, accentua la separazione dal mondo e dalla natura che, secondo lo yoga, è
alla radice della sofferenza.

Alan Watts3 caratterizza bene l’epoca attuale come ‘l’età dell’angoscia’, in cui la modernità e la
visione occidentale riduzionista ha distrutto ogni certezza interiore, creando una situazione di
forte pressione psicologica ed esaltando, invece che attenuando, la divisione da ciò che ci
circonda. Il risultato è un individuo dominato in gran parte da meccanismi reattivi di tipo
automatico (in termini psicologici, un nevrotico) ed inseguito dall’esistenza. Tutto ciò aggrava la
condizione esistenziale ‘naturale’ di sofferenza che la filosofia yoga collega all’identificazione
egoica (asmita).

In questo contesto, l’esperienza della consapevolezza si manifesta come luce, come scoperta della
profondità dell’esistenza anche nelle piccole cose, e della totale gratuità del vivere e dei
fenomeni. L’attenzione è portata sul ‘qui e ora’, sul presente (agata), unica dimensione che
effettivamente ci appartiene. La pratica consapevole di asana, pranayama, meditazione può essere
proposta quindi come una sorta di innesco per recuperare una dimensione di vita più a misura d’uomo.
Essa

conduce, gradualmente, ad osservare la tendenza della mente a proiettarsi nel futuro (anagata) e
rifugiarsi nel passato (atita); dunque si tratta, in termini riduttivi, di una ‘tecnica di
svelamento’ (cfr. J. Engler, che mostra pian piano al praticante il proprio essere e le proprie
tendenze, esplorando il confine interno-esterno e creando un radicamento nell’eterno presente.

Questo tipo di presenza mentale è caratterizzato dalla spontaneità con cui si manifesta, ma vi può
anche essere una pratica deliberata in questo senso: si può parlare, con Husserl,5di intenzionalità
della coscienza, ovvero della capacità della coscienza di essere indirizzata verso un oggetto
specifico. Una libera e semplice adesione alle cose, non ‘forzata’ da alcuna intenzionalità, può
emergere proprio a seguito di un lungo lavoro ‘intenzionale’.

E’ qui necessario mettere l’accento su due diverse modalità di dharana (pratica formale della
concentrazione): la calma concentrata e la consapevolezza aperta. Nella calma concentrata la
coscienza indirizza la mente verso un unico oggetto (ad esempio il respiro), e, quando una
distrazione sopravviene, la mente viene riportata sull’oggetto scelto. La pratica di consapevolezza
aperta si volge invece a tutto ciò che si manifesta, dunque non esistono distrazioni: semplicemente
si sta con ciò che è. Quest’ultimo tipo di pratica viene interpretata da alcuni autori (cfr. Vimala
Thakar, come dhyana, e richiede come presupposto una certa dimestichezza con la calma concentrata,
che riduce le fluttuazioni del mentale. Una lunga pratica di hatha yoga può rivelarsi preziosa a
questo scopo.

La consapevolezza è il fondamento della coscienza e precede il mentale, il pensiero discriminante,
le emozioni, e l’io cosciente (cfr. Panikkar7). Posso comprendere razionalmente qualcosa usando la
mente discriminante, e posso rendermi conto contestualmente di stare comprendendo qualcosa; analoga
cosa si può dire rispetto a qualsiasi altra funzione della mente. C’è una ‘energia’, una coscienza
più profonda dell’io, che precede le cose e le osserva.

Esiste in occidente una confusione concettuale e linguistica tra la comune accezione di ‘coscienza’
e l’accezione yogica proposta dagli Yoga Sutra. Eccetto correnti minoritarie, in termini di
psicologia classica, con ‘coscienza’ viene di solito indicata la ‘coscienza dell’io’; non esiste
l’idea di una dimensione più profonda, ontologicamente distinta dalla precedente, che osserva la
stessa coscienza dell’io. Nella prospettiva psicologica stretta, si mantiene un approccio puramente
fenomenologico e parziale, legato cioè al paradigma scientifico-materialista su cui la disciplina si
è formata. Questo fraintendimento esiste anche in Jung, che al massimo identifica l’inconscio con la
nostra dimensione più profonda, e considera il ‘Sè’ come il perfetto baricentro tra coscienza
dell’io ed inconscio.

L’energia cosciente del puro testimone sembra essere una peculiarità dello Yoga e di alcune vie
introspettive a sfondo mistico-trascendente.

– Le radici della sofferenza: i klesha –

Ogni scuola di ricerca interiore ha la sua mappa di riferimento. Una tentazione culturale dell’uomo
moderno è quella di confondere o identificare la mappa con il territorio8. Questa diffusa
sopravvalutazione del pensiero (cognicentrismo) si manifesta spesso come tendenza dogmatica, e va
rovesciata, almeno a livello personale e di pratica, intendendo gli insegnamenti come indicazioni
per interiorizzare e maturare una esperienza, piuttosto che come espressioni di una verità assoluta.

Gli Yoga Sutra di Patanjali, rappresentano la ‘mappa’ per quanto riguarda la tradizione dello yoga
e, per il loro carattere fortemente intuitivo ed adogmatico, si pongono come un testo aperto, che
rimanda continuamente all’esperienza personale. Patanjali non propone una visione del mondo e delle
cose a cui aderire, ma un percorso esperienziale da cui trarre gradatamente gli insegnamenti. Come
ben sottolinea Vimala Thakar, la partita dello yoga si gioca sulla percezione. Un difetto percettivo
di fondo è, secondo Patanjali e gran parte della tradizione orientale, all’origine della condizione
esistenziale di sofferenza dell’uomo. Dunque lo Yoga si caratterizza e si presenta prima di tutto
come una ‘disciplina della percezione’, che si ripromette di togliere il velo che impedisce alla
dimensione della pura coscienza, della pura consapevolezza, di manifestarsi. L’opera di Patanjali è
composta da circa 300 sutra o aforismi, suddivisi in quattro libri (pada). Il I libro si intitola
Samadhi Pada, e descrive la via che porta alla consapevolezza di sè. I primi quattro sutra del I
libro riassumono in modo geniale la via dello yoga:

I.1 Atha yoganusasanam. Adesso comincia l’esposizione della disciplina dello yoga. Anusasanam è la
disciplina, cioè occorre una disciplina della percezione e della visione, per togliere il velo
dell’illusione.

I.2 Yogas citta vritti nirodha. Lo yoga è la cessazione delle fluttuazioni della mente.

I.3 Tada drstuh svarupe vasthanam. Quando ciò è realizzato, la coscienza (drasta) riposa nella sua
natura essenziale (svarupe).

I.4 Vritti sarupyam itaratra. Altrimenti la coscienza si identifica con le fluttuazioni della mente.
Lo yoga si propone immediatamente come l’arresto del funzionamento ordinario della mente, legato
alle fluttuazioni mentali di origine inconscia. Ordinariamente, la coscienza e la mente tendono a
prendere la forma degli oggetti con cui vengono a contatto, e dunque vi è confusione,
identificazione. Se, attraverso un lungo lavoro, si attenua l’agitazione della mente,
l’identificazione cessa, e la percezione recupera la sua vera natura.

Alla base vi è l’idea che esistano nell’uomo due menti o nature, una egoica e personale ed una
universale. Il flusso estroverso del citta vritti (citta vritti sutra) ha origine e si sviluppa
nell’ambito ristretto dell’identificazione egoica. Scopo dello yoga è quello di arrestare questa
corrente e quindi porre fine alla dinamica della sofferenza. Citta vritti sutra impedisce alla pura
dimensione esistenziale consapevole, la pura ‘energia del vedere’o citi shakti di aderire agli
oggetti della percezione senza i vincoli della memoria (smriti) e dei condizionamenti inconsci
(vasana e samskara), sorretti dalla dinamica dei klesha-vritti, di cui parleremo in seguito. Questa
‘energia del vedere’ è la consapevolezza, che tende ad emergere se i principali ostacoli interiori
ed esteriori sono stati rimossi.

Si ha allora una naturale adesione della coscienza alla manifestazione, che ritrova la sua natura
non-duale e di vuoto (sunyata). Questi contenuti di Patanjali richiamano il ‘Sutra del cuore’
buddhista, che recita esplicitamente ‘il vuoto è forma, e la forma è vuoto’. Esistono due livelli
interpretativi di questi insegnamenti: il primo, che ogni cosa è vuota di un sè separato, la
divisione è arbitrariamente posta dalla mente dell’uomo, e la dualità dei fenomeni è illusoria (cfr.
Thich Nath Hanh;

nella seconda interpretazione possiamo identificare il vuoto buddhista con la dimensione più
profonda della coscienza che Patanjali definisce drasta, tradotto come ‘energia del vedere’ (cfr.
V.Thakar o ‘testimone’. La ‘forma’ corrisponde invece all’altro principio ontologico della ‘cosa
vista’, darsana shakti, che si manifesta in modo duale attraverso i guna o qualità della
manifestazione. La dimensione primordiale indifferenziata del brahman , l’indistinto, si è quindi
polarizzata in questi due principi del vedente e del veduto, al fine di manifestarsi e di creare una
dinamica. Lo scopo dello yoga è ritrovare l’unità di vuoto e forma, favorire il re-incontro di
queste due dimensioni esistenziali nell’uno-tutto che le trascende. Ricordiamo la perentoria
affermazione di Krishnamurti: ‘l’osservatore è l’osservato’.

La seconda interpretazione, a mio avviso, è più attinente all’ultimo sutra del IV libro di
Patanjali, che recita: la liberazione (kaivalyam) è lo stabilirsi dell’energia del vedere (citi
shakti) della coscienza nella sua vera natura (svarupa pratisha), il ritorno della manifestazione
(guna) alla sua condizione originale vuota (sunyam). Ritroviamo qui una sostanziale coincidenza
dell’insegnamento degli Yoga Sutra con il cuore della Prajnaparamita (perfezione della saggezza),
nucleo dell’insegnamento buddhista.

Le tradizioni orientali sono spesso fraintese in occidente, perchè si applicano ad esse categorie di
pensiero della nostra cultura, cioè si considerano filosofie o religioni. Si tratta invece
tecnicamente di soteriologie, ovvero discipline volte alla liberazione dalla sofferenza
esistenziale. A questo scopo, Patanjali propone la via graduale delle otto membra (ashtangha1). Le
otto membra constano di una serie di discipline interiori ed esteriori e di pratiche, volte alla
liberazione della coscienza dai condizionamenti e dalla sofferenza.

I principali ostacoli sulla via della liberazione vengono citati nel secondo libro: si tratta delle
‘formazioni mentali negative’ o klesha: la presa di coscienza di tali barriere è già per il
praticante un grosso passo avanti. Patanjali elenca cinque klesha principali: avidya, asmita, raga,
dvesa, abhinivesa.

Avidya è l’ignoranza della nostra natura essenziale, e consiste nell’attribuire alla percezione
della dualità dei fenomeni un carattere assoluto, piuttosto che relativo al linguaggio ed alla
necessità di concettualizzare. L’uomo, per la sua struttura culturale ed antropologica, cioè per via
della memoria (smriti) e del linguaggio, ha dimenticato la sua vera natura, e quindi vive un
rapporto conflittuale ed inquieto con l’universo e con la sua condizione. Avidya è considerata il
peccato originale, l’ignoranza fondamentale alla radice della sofferenza esistenziale dell’uomo. La
mente ‘duale’, cioè l’io cosciente, attribuisce illusoriamente agli oggetti con cui viene in
contatto una natura permanente e una totale indipendenza dal contesto, cioè una estraniazione
(alienazione) dalla natura, condizione che comprende anche se stessi e la propria ristretta
identificazione. L’intuizione profonda trascendente (prajna), invece, caratterizza il tutto con
l’impermanenza e l’interdipendenza. Tutto ciò, tra l’altro, sembra essere in buona sostanza
confermato ad un livello di scienze fisiche dalle interpretazioni più aperte della meccanica
quantistica e della fisica moderna.

Come conseguenza di avidya, il peccato originale, si produce una confusione percettiva di base che
porta ad asmita.

Asmita significa ‘identificazione’, ed è quel processo necessario, ma da trascendere, che ci fa
identificare con una parte degli oggetti con cui la coscienza viene in contatto (il nostro corpo, la
nostra mente); in termini moderni si tratta dell’io che vuole possedere le cose (io-mio). Lo yoga
propone una integrazione di tutti questi aspetti ed una disidentificazione da emozioni ed istinti,
per 1 Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana, Samadhi.

Yama sono le 5 discipline etiche: ahimsa (non violenza), satya (verità), asteya (non rubare),
brahmacharya (continenza), aparigraha (non appropriarsi di ciò che non viene dato spontaneamente);

Niyama sono le 5 regole di condotta interiore: saucha (purezza), santosa (contentarsi), tapas
(austerità), svadhyaya (studio di sè), Isvara pranidana (abbandono al principio creatore
universale).

Gli altri anga verranno introdotti nel corso della tesi.

viverli consapevolmente. L’identificazione è il nodo fondamentale del nostro percorso interiore.
Identificarsi significa ‘essere posseduti’ da qualcosa, e dunque è l’opposto di essere liberi. Raga
e dvesa sono desiderio ed avversione, e si tratta evidentemente di aspetti diversi di una unica
forza fondamentale. La dinamica raga-dvesa ha, come vedremo nel terzo capitolo, un ruolo
particolarmente importante nella pratica della consapevolezza.

Desiderio ed avversione si strutturano nel momento in cui, avendo innalzato con asmita una barriera
tra l’io ed il mondo esterno, emerge una coscienza manipolatoria e giudicante nei confronti degli
oggetti della percezione. Su questo terreno, raga e dvesa hanno modo di crescere e svilupparsi.
L’effetto di asmita e della coscienza duale è una dinamica conflittuale nei confronti delle cose e
delle persone, che vengono considerate in funzione della possibilità di soddisfare o meno la nostra
piccola identificazione. Di conseguenza tendiamo ad attaccarci all’identificazione, cercando di
perpetuarla a tutti i costi. La centratura dell’essere umano dominato dai klesha è dunque
posizionata nei primi tre chakra legati alla sopravvivenza e all’individuo, ed a un atteggiamento
competitivo nei confronti dell’ambiente.

Abhinivesa è l’attaccamento alla vita, inteso come la non accettazione della dimensione finita
dell’esistenza fisica. Uno dei sutra di Patanjali recita: abhinivesa è radicata anche nel saggio;
quindi accogliere la morte, aprendosi ad una dimensione di mistero, rappresenta l’ultima fase del
processo di integrazione (kaivalya o moksa).

Il tema dei klesha è correlato con quello della consapevolezza, poichè è facendo chiarezza su questi
aspetti così cruciali della nostra interiorità che è possibile una maggiore adesione alla vita e
alla sua profondità. Inoltre i klesha rappresentano la catena chiusa, il circolo vizioso, che
incatena la coscienza ed alimenta la sofferenza, ed hanno una corrispondenza nel buddhismo delle
origini con la ‘coproduzione condizionata’.

– Una differente prospettiva sulla libertà –

La civiltà occidentale, con il suo paradigma culturale etnocentrico, ha strutturato una differente
idea di libertà rispetto alla proposta delle vie interiori. Normalmente, la società con i suoi
modelli ci lancia il messaggio che libertà significa fare ciò che si vuole a prescindere da tutto il
resto, dal contesto, dal rispetto degli altri esseri, del pianeta, dell’universo. Viene quindi
incoraggiata l’autodeterminazione in una prospettiva fortemente egoica o super-egoica, ed in
definitiva superficiale.

Lo yoga propone un concetto di libertà totalmente diverso. Libertà è seguire il proprio Dharma,
ascoltare la propria voce interiore e realizzare il proprio compito. La stessa vita nel Dharma,
insieme alla sadhana (pratica) di una disciplina interiore vissuta con la qualità di abhyasa
(costanza) e tapas (naturale austerità), fornisce tutti gli insegnamenti necessari per trascendere i
condizionamenti e realizzare la liberazione (moksa, kaivalya). In questa prospettiva, la libertà non
è poter fare o non fare qualcosa, ma rappresenta una dimensione esistenziale nuova, anzi ‘la’
dimensione di totale consapevolezza incondizionata, di recupero della purezza originaria.

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