Il Vangelo del Buddha 2
Paul Carus
IL VANGELO DEL BUDDHA
Estratto da INTERNET- www.sacred-texts.com/
A cura del CENTRO NIRVANA – Roma
“IL VANGELO” del BUDDHA
di Paul Carus (The Open Court Publishing Company, Chicago) [1894] (Tratto da INTERNET – www.sacred-texts.com/bud/index.htm)
…
IL SERMONE A RAJAGRAHA
Il Benedetto avendo dimorato per qualche tempo in Uruvela andò a Rajagraha,
accompagnato da numerosi bhikkhu che prima erano stati Jatila. Andò con lui
il grande Kassapa, capo dei Jatila e in precedenza adoratore del fuoco.
Quando il Re Magadha, Seniya Bimbisara, sentì dell’arrivo di Gotama
Sakyamuni, di cui le persone dicevano, “Egli è il Santo, il Buddha Beato,
che guida gli uomini così come un conducente tiene a freno le giovenche, il
maestro del sacro e del profano”, andò fuori circondato dai suoi consiglieri
e generali e venne al boschetto dove stava il Benedetto. Là essi videro il
Beato in compagnia di Kassapa, il grande maestro religioso dei Jatila, ne
furono stupiti e pensarono: “Il grande Sakyamuni si è messo sotto la
direzione spirituale di Kassapa, o è Kassapa che è divenuto un discepolo di
Gotama?”
Il Tathagata, leggendo i pensieri delle persone, disse a Kassapa: “Che tipo
di conoscenza hai tu guadagnato, O Kassapa, e che cosa ti ha indotto a
rinunciare al fuoco sacro ed alle tue austere penitenze?”
Kassapa disse: “Il vantaggio che avevo avuto dall’adorare il fuoco era la
continuità nella ruota dell’individualità con tutte le sue pene e vanità.
Questo servizio io l’ho gettato via e, invece di continuare con penitenze e
sacrifici, sono andato in ricerca del supremo Nirvana. Siccome io ho visto
la luce della verità, io ho abbandonato l’adorazione del fuoco.”
Il Buddha, percependo che l’intera assemblea era come un vaso, pronta per
ricevere la dottrina, così parlò al re Bimbisara: “Colui che conosce la
natura del ‘sé’ e capisce come agiscono i sensi, non ha spazio per
l’egoismo, e così otterrà la pace infinita. Il mondo sostiene il pensiero
del ‘sé’, e da questo sorge il falso modo di apprendere. Alcuni dicono che
il ‘sé’ resiste dopo la morte, altri dicono che perisce. Sbagliano entrambi
ed il loro errore è assai doloroso. Perché se essi dicono che il ‘sé’ è
deperibile, anche il frutto per il quale essi si sforzano dovrà perire, e
nel contempo non ci sarà futuro. Sarebbe indifferente sia fare il bene che
il male. Questo tipo di salvezza dall’egoismo è senza meriti.
“E, d’altra parte, quando altri dicono che il ‘sé’ non perirà, allora in
mezzo ad ogni vita e morte non c’è che un’unica identità imperitura e
non-nata. Se tale è il loro ‘sé’, allora esso sarebbe perfetto e non può più
essere perfezionato dalle azioni. Il ‘sé’ permanente e imperituro non
potrebbe mai essere cambiato. Il ‘sé’ sarebbe il Signore e padrone, e non ci
sarebbe utilità nel perfezionare ciò che è perfetto; salvezza e scopi morali
non sarebbero necessari.
“Ma ora noi vediamo i segni della gioia e del dolore. Dov’è la costanza? Se
non c’è alcun permanente ‘sé’ che fa i nostri atti, allora non c’è nessun
‘sé’; non c’è alcun attore dietro le nostre azioni, nessun percettore dietro
le nostre percezioni, nessun padrone dietro i nostri atti.
“Ora seguitemi, ed ascoltate: I sensi incontrano l’oggetto e dal loro
contatto nasce la sensazione. Da ciò ne risulta il ricordo, o memoria. Così,
come il potere del sole attraverso una lente causa il sorgere del fuoco,
così attraverso la cognizione nata dal senso e l’oggetto, ha origine la
mente e con essa l’ego, il pensiero di ‘sé’, che alcuni maestri bramani
chiamano il Signore. Il germoglio sorge dal seme; il seme non è il
germoglio; sono entrambi né gli stessi né una cosa sola, ma successive fasi
in una continua crescita. Così è la nascita della vita animata.
“Voi che siete schiavi del ‘sé’ e vi affaticate al suo servizio da mattina a
sera, voi che vivete nella continua paura di nascita, vecchiaia, malattia, e
morte, siate lieti di ricevere la buona novella che il vostro crudele
padrone non esiste. Il ‘sé’ è un errore, un’illusione, un sogno. Aprite i
vostri occhi e risvegliatevi. Vedete le cose come realmente sono e ne sarete
confortati. Colui che si è risvegliato non avrà più paura degli incubi.
Colui che ha riconosciuto la natura della corda, che sembrava essere un
serpente, cesserà di tremare.
“Colui che ha scoperto che non c’è alcun ‘sé’ abbandonerà tutte le
concupiscenze e i desideri dell’egotismo. Il sentirsi separati dalle cose,
la brama e la sensualità, ereditati dalle precedenti esistenze, sono le
cause delle nostre miserie e vanità del mondo. Sottomettete l’avida tendenza
dell’egoismo, ed arriverete a quello stato di calma mentale che porta
perfetta pace, bontà, e saggezza.”
Ed il Buddha emise un forte respiro con questa solenne espressione:
“Non ingannatevi, non disprezzatevi l’un l’altro, dovunque.
“Non siate adirati, e non portate con voi segreti risentimenti;
“Come una madre che rischia la vita e controlla il suo bimbo,
“Così altrettanto illimitato, mite e gentile, sia il vostro amore per tutti.
“Anzi, siate amorevoli e benevolenti a destra come a sinistra,
“Perché tutti, prima o dopo, senza ostacoli e senza restrizioni,
“Siano inevitabilmente liberati dall’invidia e dall’odio;
“Stando in piedi, camminando, stando seduti o distesi,
“Per sempre ricordate: La migliore regola di vita da osservare
“E’ quella di essere sempre assai amorosi e gentili con tutti!”.
“Le offerte che fate sono grandi, la fondazione di vihara (monasteri) è
meritoria, le meditazioni e gli esercizi religiosi pacificano il cuore, la
comprensione della verità conduce al Nirvana, ma più grande di tutte queste
azioni è la bontà. Così come la luce della luna è sedici volte più forte
della luce di tutte le stelle, così la bontà è sedici volte più efficace,
nel liberare il cuore, di tutti gli altri compimenti religiosi presi
insieme. Questo stato di cuore è il meglio che c’è nel mondo. Che un uomo
rimanga fermo e costante in se-stesso mentre è sveglio, sia stando in piedi,
camminando, sedendo, o giacendo giù.”
Quando l’Illuminato ebbe finito il suo sermone, il re di Magadha disse al
Beato: “In passato, o Signore, quando ero un principe, avevo cinque
desideri. Io mi ero augurato di poter essere eletto come re. Questo era il
mio primo augurio, ed è stato adempiuto. Inoltre, io desiderai che il Santo
Buddha, il Perfetto, apparisse sulla terra mentre io governavo e che egli
potesse venire nel mio regno. Ed anche questo mio secondo desiderio è stato
adempiuto. Inoltre io desiderai: Possa io offrire a lui i miei omaggi.
Questo era il mio terzo augurio ed ora anch’esso è adempiuto. Il quarto
augurio era che il Beato predicasse a me la dottrina, ed ora anche questo è
stato adempiuto.
“Tuttavia, il più grande augurio era il quinto desiderio: Che io possa
comprendere la dottrina del Beato. Ed anche questo augurio ora è stato
adempiuto. Glorioso Signore! Ancor più gloriosa è la verità predicata dal
Tathagata! Il Buddha, nostro Signore, rimette a posto ciò che era stato
rovesciato; egli rivela ciò che era celato; indica la via al viaggiatore che
aveva perso la strada; accende nell’oscurità una luce così che quelli che
hanno occhi per vedere possano vedere. Io prendo il mio rifugio nel Buddha.
Io prendo il mio rifugio nel Dharma. Io prendo il mio rifugio nel Sangha.”
Il Tathagata, con l’esercizio della sua virtù e saggezza, mostrò il suo
spirituale ed illimitato potere. Egli soggiogò ed armonizzò tutte le menti.
Fece in modo che essi vedessero e accettassero la verità, e i semi della
virtù furono visti in tutto il regno.
IL REGALO DEL RE
Il re Seniya Bimbisara, avendo preso il suo rifugio nel Buddha, invitò il
Tathagata al suo palazzo, dicendo: “Vorrebbe il Beato acconsentire di
prendere domani il suo pasto insieme con me e con la fraternità di
bhikkhu?”. La mattina seguente il re annunciò al Beato che era ora di
prendere il cibo: “Tu sei il mio più benvenuto ospite, O Signore del mondo,
vieni; il pasto è pronto!”.
Il Beato avendo indossato le sue vesti, prese la sua ciotola delle elemosine
e, insieme con un gran numero di bhikkhu, entrò nella città di Rajagraha.
Sakka, il re dei Deva, avendo assunto l’aspetto di un giovane bramano,
camminava davanti e così disse: “Colui che insegna l’autocontrollo con
quelli che hanno imparato l’auto-controllo; il redentore con quelli che ha
redento; il Beato con quelli a cui ha dato la pace, stanno entrando in
Rajagaha. Onore al Buddha, il nostro Signore! Onore al suo nome e
benedizioni a tutti coloro che prendono rifugio in lui.” Sakka intonò poi
questa strofa:
“Benedetto è il luogo dove cammina il Buddha,
“E benedette le orecchie che sentono i suoi discorsi;
“Benedetti i suoi discepoli, perché essi sono
“I testimoni della sua verità sia vicino che lontano.
“Se tutti potessero sentire questa verità così buona,
“Allora tutte le menti degli uomini avrebbero un ricco cibo,
“E forte crescerebbe la fratellanza tra gli uomini!”
Quando il Beato ebbe finito il suo pasto, pulì la sua ciotola e le sue mani,
ed il re si sedette vicino a lui, pensando:
“Dove posso trovare un luogo per farci vivere il Beato, non troppo lontano e
non troppo vicino dalla città, appropriato per andare e venire, facilmente
accessibile a tutte le persone che vogliano vederlo, un luogo che non sia
troppo frequentato di giorno e non esposto al rumore di notte, salubre e
ben-adatto per una vita di ritiro? Vi sarebbe il mio piacevole giardino, il
boschetto di bambù Veluvana, che può adempiere a tutte queste condizioni. Lo
proporrò al Sangha, alla cui testa c’è il Buddha.”
Il re offrì il suo giardino alla fratellanza monastica, dicendo: “Che il
Beato accetti il mio regalo.” Allora il Beato, avendo silenziosamente
dimostrato il suo beneplacito ed essendone allietato, dedicò al Re di
Magadha un discorso religioso, si alzò dal suo posto ed andò via.
SARIPUTTA E MOGGALLANA
A quel tempo, Sariputta e Moggallana, due Brahmani capi dei seguaci di
Sanjaya, conducevano una vita religiosa. Essi si erano ripromessi l’un
l’altro: “Colui che otterrà prima il Nirvana lo dirà all’altro”.
Sariputta, vedendo il venerabile Assaji implorare per l’elemosina, dignitoso
nel comportamento e tenendo modestamente i suoi occhi in terra, esclamò:
“Invero, questo samana è entrato nel retto sentiero; Io gli chiederò con che
nome lui si è ritirato dal mondo e quale dottrina professa.” Così
interpellato da Sariputta, Assaji rispose: “Io sono un seguace del Buddha,
il Beato, ma poiché sono solo un novizio posso dirti solamente la sostanza
della dottrina.” Sariputta disse: “Dimmi, venerabile monaco; è proprio la
sostanza che io voglio.” Ed Assaji recitò la seguente strofa:
“Niente che noi cerchiamo di toccare o vedere
“Può davvero rappresentare l’Eternità.
“Tutto si guasta e muore: quindi cerchiamo di trovare
“La Verità eterna all’interno della mente.”
Avendo sentito questa stanza, Sariputta ottenne il puro ed immacolato occhio
della verità e disse: “Ora io vedo chiaramente, ciò che è soggetto a
originazione è anche soggetto alla cessazione. Se questa è la dottrina, io
ho raggiunto lo stato di entrare nel Nirvana, che finora mi era rimasto
ignoto”. Sariputta andò quindi da Moggallana e glielo disse, ed entrambi
allora dissero: “Dovremo andare dal Beato, così che lui, il Beato, possa
essere il nostro insegnante.”
Quando il Buddha vide da lontano Sariputta e Moggallana che venivano, disse
ai suoi discepoli, “Questi due monaci sono estremamente di lieto auspicio.”
Quando i due amici ebbero preso rifugio nel Buddha, Dharma e Sangha, il
Beato disse agli altri suoi discepoli: “Sariputta, come figlio primogenito
di un monarca che domina il mondo, è idoneo ad assistere il re come suo
seguace principale per far rotolare la Ruota della Legge.”
Ora la gente del luogo era imbronciata. Vedendo che molti giovani distinti
del regno di Magadha stavano conducendo una vita religiosa sotto la
direzione del Beato, essi si arrabbiarono: “Gotama Sakyamuni incita i padri
a lasciare le loro mogli e così provoca l’estinzione delle famiglie”. Quando
videro i bhikkhu, essi li ingiuriarono, dicendo: “Il grande Sakyamuni è
venuto a Rajagraha per soggiogare le menti degli uomini. Quali saranno i
prossimi ad essere deviati da lui?”
I bhikkhu lo raccontarono al Beato, e il Beato disse: “Questo mormorìo, o
bhikkhu, non durerà per molto. durerà sette giorni. Se essi vi ingiuriano,
rispondete loro con queste parole: “Il Tathagata spinge gli uomini
predicando la verità. Chi avrà il coraggio di mormorare al saggio? Chi
biasimerà il virtuoso? Chi mai condannerà l’autocontrollo, la rettitudine, e
la gentilezza?”. Ed il Beato proclamò:
“Non commettete alcun errore, ma fate solo il bene,
“E fate in modo che il vostro cuore possa essere puro.
“Questa è la dottrina che il Buddha insegna,
“E questa dottrina durerà per l’eternità!”
ANATHAPINDIKA, L’UOMO DI RICCHEZZA
Vi era, a quel tempo, un tale Anathapindika, uomo di una ricchezza
smisurata, che venne a visitare Rajagraha. Essendo di tendenza caritatevole,
egli era chiamato “Benefattore di orfani e amico dei poveri”. Sentendo che
il Buddha era in città e stava nel vicino boschetto di bambù, egli stabilì
che quella stessa notte avrebbe dovuto incontrare il Beato.
E il Beato vide subito la qualità genuina del cuore di Anathapindika e lo
salutò con parole di religioso conforto. Essi si sedettero insieme, ed
Anathapindika ascoltò la dolcezza della verità predicata dal Beato. Il
Buddha disse: “L’angosciante e irre-quieta natura del mondo, è ciò che io
dichiaro essere alla radice del dolore. Raggiungete quella calma di mente
che si trova nella pace dell’immortalità. Il ‘sé’ non è altro che una somma
di qualità composite, ed il suo mondo è vuoto come una fantasia.
“Chi è che plasma le nostre vite? È Isvara, il creatore personale? Se Isvara
è il creatore, tutte le cose viventi dovrebbero silenziosamente essere
sottoposte al potere del loro creatore. Esse sarebbero come vasi formati
dalla mano del vasaio; e se fosse così, come sarebbe possibile praticare la
virtù? Se il mondo fosse stato fatto da Isvara non dovrebbe esservi nessun
dolore, o calamità, o male; perchè azioni pure ed impure dovrebbero venire
da lui. Se non è così, dovrebbe esservi un’altra causa oltre a lui, e lui
non sarebbe auto-esistente. Perciò, vedi, il pensiero di Isvara è sconfitto
e superato.
“Inoltre, si dice che ci ha creati l’Assoluto. Ma ciò che è assoluto non può
essere una causa. Tutte le cose intorno a noi vengono da una causa, come la
pianta che viene dal seme; ma come può essere similmente l’Assoluto la causa
di tutte le cose? Se le pervade, allora certamente, non le fa.
“Ancora, si dice che il Sé sia il creatore. Ma se il creatore è il ‘sé’,
perché non ha fatto solo le cose piacevoli? Le cause di gioia e dolore sono
vere e palpabili. Come possono essere state fatte dal ‘sé’?
“Ancora, se noi riteniamo che non vi sia un creatore, e che il nostro
destino è così com’è, e non c’è causazione, che scopo ci sarebbe nel
plasmare le nostre vite ed adattare i mezzi per un fine? Perciò, noi
dichiariamo che tutte le cose che esistono non sono senza-causa. Tuttavia,
il creatore non è né Isvara, né l’Assoluto, né il ‘sé’, né il caso senza una
causa, ma sono i nostri atti che producono risultati buoni e cattivi secondo
la legge della causazione.
“Abbandoniamo dunque l’eresia di adorare Isvara e di pregarlo; e finiamola
col perderci invano in speculazioni o inutili sottigliezze; smettiamola di
cedere al ‘sé’ e ad ogni egoismo, e poiché tutte le cose sono fissate dalla
causazione, pratichiamo il bene così che buono possa essere il risultato
delle nostre azioni.”
E Anathapindika disse: “Io vedo che tu sei il Buddha, il Beato, il
Tathagata, ed io desidero aprire la mia intera mente. Ascolta le mie parole
e consigliami quello che io dovrò fare. La mia vita è piena di lavoro, ed
avendo acquisito grande ricchezza, sono circondato da preoccupazioni. Eppure
il mio lavoro mi piace, e mi ci applico con molta diligenza. Molte persone
lavorano per me e dipendono dal successo delle mie imprese.
“Ora, io ho sentito i tuoi discepoli lodare la beatitudine dell’essere
eremiti e per contro denunciare l’agitazione del mondo. ‘Il Santo’, essi
dicono, ‘ha abbandonato il suo regno e la sua eredità, e ha trovato il
sentiero della rettitudine, mettendo così un esempio per tutto il mondo su
come raggiungere il Nirvana’. Il mio cuore agogna di fare ciò che è corretto
e di essere una benedizione per i miei. Perciò, ti chiedo, devo abbandonare
la mia ricchezza, la mia casa, e le mie imprese commerciali e, come te,
andare in giro senza-casa per raggiungere la beatitudine di una vita
religiosa?”
Ed il Buddha rispose: “La beatitudine di una vita religiosa è ottenibile da
chiunque percorra l’ottuplice nobile sentiero. Colui che si separa dalla
ricchezza, più che gettarla via, non deve permettere al suo cuore di esserne
avvelenato; ma colui che non si separa dalla ricchezza, e possedendo la
ricchezza, la usa rettamente, sarà una benedizione per i suoi cari. Non è la
vita, o la ricchezza ed il potere, che rendono schiavi gli uomini, ma il
separarsi dalla vita, dalla ricchezza e dal potere. I bhikkhu che si
ritirano dal mondo per fare una vita di comodo non avranno alcun guadagno,
perché una vita indolente è abominevole, e la mancanza di energia sarà
disprezzata. Il Dharma del Tathagata non costringe l’uomo ad andare in giro
senza-casa o a dimettersi dal mondo, a meno che egli non si senta chiamato
per fare così; ma il Dharma del Tathagata richiede ad ogni uomo di liberare
se-stesso totalmente dall’illusione del ‘sé’, purificare il suo cuore,
abbandonare la sua sete per il piacere e condurre una vita di rettitudine. E
qualunque uomo lo faccia, sia che rimanga nel mondo come artigiano,
mercante, ed ufficiale del re, o che si ritiri dal mondo e si dedichi ad una
vita di meditazione religiosa, dovrà far in modo di dedicarsi con tutto il
cuore al proprio compito, facendo in modo di essere diligente ed energico.
Egli dovrà essere come il fiore del loto che, pur crescendo nell’acqua, ne
resta immune ed intatto, sia che lotti nella vita senza alimentare invidia o
odio, o sia che nel mondo viva una vita senza un ‘sé’ ma piena di verità;
allora di sicuro la gioia, la pace, e la beatitudine dimoreranno nelle loro
menti”.
IL SERMONE SULLA CARITÀ
Alle parole del Beato Anathapindika si allietò e disse: “Io dimoro a
Savatthi, la capitale del Kosala, una terra ricca nel produrre e godere la
pace. Pasenadi è il re del paese, ed il suo nome è rinomato fra il nostro
popolo ed i nostri vicini. Ora io desidero fondarvi un vihara (monastero)
che sarà un luogo di devozione religiosa per il tuo Sangha, ed io ti prego
gentilmente di accettarlo.”
Il Buddha lesse nel cuore del benefattore; e comprendendo che la causa
movente della sua offerta era la carità altruistica, accettando il regalo,
il Beato gli disse: “L’uomo caritatevole è amato da tutti; la sua amicizia è
estremamente apprezzata; quando muore il suo cuore è in pace e pieno di
gioia, perchè non ha rimpianti; egli riceve l’apertura del fiore della sua
ricompensa e il frutto che matura da esso. E’ duro da capire che offrendo il
nostro cibo, noi troviamo più forza, dando vestiti agli altri noi ne
guadagniamo in bellezza, e donando dimore di purezza e verità, noi
acquisiamo i più grandi tesori.
“Vi è un tempo adeguato ed un modo appropriato nella carità; proprio come un
vigoroso guerriero che va a combattere, così è l’uomo che è capace di dare.
Egli è come un abile guerriero, un forte campione e saggio nell’azione.
Compassionevole e amorevole, egli dona con rispetto e bandisce ogni odio,
invidia, e rabbia.
“L’uomo caritatevole ha trovato il sentiero della salvezza. Egli è come
l’uomo che pianta un alberello, assicurandosi con ciò l’ombra, i fiori, e la
frutta negli anni a venire. Cosippure è il risultato della carità, ed anche
così è la gioia di chi aiuta coloro che hanno bisogno di assistenza; così è
il grande Nirvana. Noi giungiamo al sentiero immortale solamente con
continui atti di gentilezza e poi perfezionando le nostre anime con la
compassione e la carità.”
Anathapindika invitò Sariputta ad accompagnarlo nel suo ritorno a Kosala, e
ad aiutarlo nello scegliere un luogo piacevole per il vihara.
JETAVANA, IL VIHARA
Anathapindika, l’amico dei bisognosi e sostenitore di orfani, essendo
ritornato a casa, vide il giardino dell’erede reale, Jeta, coi suoi
boschetti verdi e ruscelletti limpidi e pensò: “Questo è un luogo molto
appropriato per fare un vihara per il Sangha del Beato”. Egli andò così dal
principe e chiese il permesso di comprare la terra. Il principe non era
incline a vendere il giardino, poiché lo teneva molto in considerazione.
Egli in principio rifiutò ma alla fine disse, “Se puoi coprirlo d’oro,
allora, e per nessun altro prezzo, tu lo avrai!”. Anathapindika si allietò e
cominciò a disseminare il suo oro; ma Jeta disse: “Risparmiati il cruccio,
perché ho deciso di non venderlo”. Ma Anathapindika insistè. Così essi se lo
contesero finché ricorsero al magistrato.
Nel frattempo le persone cominciarono a parlare dell’insolito procedimento,
ed il principe, sentendo più dettagli e sapendo che Anathapindika non solo
era molto ricco ma anche retto e sincero, indagò nei suoi piani. Nel sentire
il nome del Buddha, il principe divenne ansioso di partecipare alla
fondazione e accettò solo la metà dell’oro, dicendo: “La terra è tua, ma gli
alberi sono miei. Io darò gli alberi come mia parte di questa offerta al
Buddha.”
Allora Anathapindika si prese la terra e Jeta gli alberi, e loro li
offrirono a Sariputta in fede per il Buddha. Dopo che furono gettate le
fondamenta, essi cominciarono a costruire la sala che fu fatta alta nelle
dovute proporzioni secondo le indicazioni suggerite dal Buddha; e fu
meravigliosamente decorata con adatti intagli. Questo vihara fu chiamato
Jetavana, e il benefattore invitò il Signore Buddha a venire a Savatthi per
ricevere la donazione. Ed il Beato lasciò Kapilavatthu e venne a stare a
Savatthi.
Mentre il Beato stava entrando in Jetavana, Anathapindika sparse fiori e
bruciò incenso, e come segno di offerta versò acqua da una caraffa dorata,
dicendo, “Questo vihara qui a Jetavana io offro per l’uso della fratellanza
in tutto il mondo.” Il Beato ricevette il dono e rispose: “Possa ogni
cattiva influenza essere superata; possa l’offerta promuovere il regno della
rettitudine ed essere una benedizione permanente per l’umanità in generale,
a tutto il paese di Kosala, e specialmente anche al donatore.”
Allora il re Pasenadi, sentendo che era venuto il Buddha, andò con il suo
reale seguito al Jetavana-vihara e con mani giunte salutò il Beato, dicendo:
“‘Beato è il mio regno indegno ed oscuro che ha incontrato una così grande
fortuna. Perché come potranno accadere calamità e pericoli in presenza del
Signore del mondo, il Dharmaraja, il Re della Verità. Ora che io ho visto la
tua espressione sacra, lascia che io partecipi delle acque rinfrescanti dei
tuoi insegnamenti. Il profitto mondano è fugace e deteriorabile, ma quello
religioso è eterno ed inesauribile. Un uomo mondano, benché re, è pieno di
guai, ma un uomo comune che sia santo ha pace nella mente.”
Conoscendo la tendenza del cuore del re, oppresso dall’avidità e dall’amore
per il piacere, il Buddha colse l’occasione e disse: “Anche coloro che, per
il loro cattivo karma, sono nati in una bassa condizione, quando vedono un
uomo virtuoso, sentono riverenza per lui. Quanto più lo deve un re
indipendente, in base ai meriti acquisiti in esistenze precedenti, che
quando incontra un Buddha, sente riverenza per lui. Ed ora io espongo
brevemente la legge, e che il Maharaja ascolti e pesi le mie parole, e tenga
conto di ciò che dico!”
“I nostri atti, buoni o cattivi, ci seguono continuamente come ombre. Ciò di
cui abbiamo più bisogno è un cuore amorevole! Considerail tuo popolo come
uomini che fanno un unico figlio. Non opprimerli, non distruggerli; mantieni
nel dovuto conto ogni membro del tuo corpo, abbandona l’ingiusta dottrina e
cammina nel retto sentiero. Non esaltare te stesso calpestando gli altri, ma
confortali ed aiutali nella sofferenza. Non valutare la tua dignità regale,
e non ascoltare le subdole parole degli adulatori.
Non è necessario costringersi all’austerità, ma medita sul Buddha e pesa la
sua retta legge. Noi siamo rinchiusi da tutti i lati da rocce, che sono
nascita, vecchiaia, malattia, e morte, e solo valutando e praticando la vera
legge possiamo sfuggire questa montagna di dolore. Perciò, che vantaggio c’è
nel praticare l’iniquità?”
“Tutti coloro che sono saggi rifiutano i piaceri del corpo. Essi aborriscono
la concupiscenza e cercano di promuovere la loro esistenza spirituale.
Quando un albero sta bruciando con feroci fiamme, come possono radunarvisi
gli uccelli? La verità non può indulgere dove vive la passione. Colui che
non sa questo, benché possa essere un uomo dotto e lodato dagli altri come
un saggio, è oscurato dalla ignoranza. A chi ha questa conoscenza spunta la
vera saggezza, ed egli si terrà lontano dalla brama per il piacere. Per
avere questo stato di mente, la sola cosa indispensabile è la saggezza.
Trascurare la saggezza condurrà al fallimento della vita. Gli insegnamenti
di tutte le religioni dovrebbero concentrarsi su questa cosa, perché senza
la saggezza non c’è la ragione”.
“Questa verità non è soltanto per l’eremita; essa riguarda similmente ogni
essere umano, prete e laico. Non c’è distinzione tra il monaco che ha preso
i voti, e l’uomo del mondo che vive con la sua famiglia. Ci sono eremiti che
cadono nella perdizione, e ci sono umili padroni di casa che salgono al
rango di rishi. Cercare il piacere è un pericolo comune a tutti; trascina
via il mondo. Colui che è coinvolto nei suoi gorghi non trova scampo. Se la
saggezza è una valida barca, la riflessione è il timone. La religione ti
chiama per superare gli assalti di Mara, il nemico”.
“Siccome è impossibile sfuggire il risultato dei nostri atti, facciamo opere
di bene. Proteggiamo i nostri pensieri per non fare alcun male, perché come
noi seminiamo così poi raccogliamo. Ci sono vie dalla luce all’oscurità e
dall’oscurità alla luce. Ci sono anche vie che vanno dall’oscurità fino
all’oscurità più profonda, e dalla luce lieve fino alla luce più brillante.
L’uomo saggio userà la luce che ha per ottenerne ancora più luce. Egli
avanzerà continuamente nella conoscenza della verità”.
“Mostra la tua vera superiorità con una condotta virtuosa e con l’esercizio
della ragione; medita profondamente sulla vanità delle cose terrene, e
comprendi la mutevolezza della vita. Eleva la mente, e cerca la sincera fede
con un fermo proposito; non trasgredire le regole del comportamento regale,
e lascia che la tua felicità non dipenda dalle cose esterne, ma dalla tua
propria mente. Così avrai un buon nome per lunghi secoli e ti assicurerai il
favore del Tathagata.” Il re ascoltò con riverenza e ricordò tutte le
parole del Buddha nel suo cuore.
LE TRE CARATTERISTICHE E L’INCREATO
Quando il Buddha stava al Veluvana, il boschetto di bambù a Rajagraha, così
egli si indirizzò ai fratelli: “O monaci, se il Buddha sorge o se il Buddha
non sorge, resta un fatto, e la ferma e necessaria costituzione di essere
che tutte le forma-zioni sono transitorie. Un Buddha scopre e padroneggia
questo fatto, e quando lui lo ha scoperto e dominato, egli annuncia, rivela,
proclama, dischiude, spiega minutamente e chiarisce che tutte le formazioni
sono transitorie.
“O monaci, se il Buddha sorge, o se il Buddha non sorge, resta un fatto, ed
una ferma e necessaria costituzione di essere, che tutte le formazioni sono
sofferenza. Un Buddha scopre e padroneggia questo fatto, e quando lui lo ha
scoperto e dominato, egli annuncia, rivela, proclama, dischiude, spiega
minutamente e chiarisce che tutte le formazioni sono sofferenza.
“O monaci, se il Buddha sorge, o se il Buddha non sorge, resta un fatto, ed
una ferma e necessaria costituzione di essere, che tutte le formazioni sono
prive di un ‘sé’. Un Buddha scopre e padroneggia questo fatto, e quando lui
lo ha scoperto e dominato, egli annuncia, rivela, proclama, dischiude,
spiega minutamente e chiarisce che tutte le formazioni sono prive di un ‘sé’.
E in un’altra occasione il Beato dimorava a Savatthi nel Jetavana, il
giardino di Anathapindika. Allora il Beato ammaestrò, risvegliò, stimolò ed
allietò i monaci con un discorso religioso sul soggetto del Nirvana. E
questi monaci, afferrando il significato, pensandolo, ed accettando nei loro
cuori l’intera dottrina, ascoltarono attentamente. Ma c’era un fratello che
aveva dei dubbi nel suo cuore. Egli si alzò e giungendo le mani fece la
richiesta: “Posso avere il permesso di fare una domanda?” Quando il permesso
gli fu accordato egli disse come segue:
“Il Buddha insegna che tutte le conformazioni sono transitorie, che tutte le
conformazioni sono soggette a dolore e che tutte le conformazioni sono prive
di un ‘sé’. Allora come può essere il Nirvana uno stato di beatitudine
eterna?”-
Ed il Beato, in occasione di questa connessione, espresse questa solenne
dichiara-zione: “O monaci, vi è uno stato in cui non c’è nessuna terra, né
acqua, né calore, né aria; nessuna infinità di spazio, né infinità di
coscienza, né inesistenza, né percezione né non-percezione; né questo mondo
né quell’altro mondo, né sole né luna. È l’Increato. O monaci, esso è ciò
che io chiamo né venire né andare né restare; non è né morte né nascita. E’
senza stabilità, senza cambiamento; ed è l’eterno che mai origina e mai
passa via. Là vi è la fine del dolore.
“È duro realizzare l’essenziale, la verità non è percepita facilmente; il
desiderio è dominato da colui che sa, ed a colui che vede correttamente che
tutte le cose sono nulla. O monaci, c’è un non-nato, non-originato,
non-creato, non-formato. Se non ci fosse, o monaci, questo non-nato,
non-originato, non-creato, non-formato, non ci sarebbe scampo dal mondo del
nato, originato, creato, formato. Siccome, o monaci, c’è un non-nato,
non-originato, non-creato e non-formato, perciò c’è scampo dal nato,
originato, creato, formato.”
IL BUDDHA VA DA SUO PADRE
Il nome del Buddha divenne famoso in tutta l’India e Suddhodana, suo padre,
gli mandò a dire: “Io sto diventando vecchio e prima di morire vorrei vedere
mio figlio. Altri hanno avuto il beneficio della sua dottrina, ma non suo
padre né i suoi parenti.” Ed il messaggero disse: “O Tathagata onorato dal
mondo, il tuo genitore spera nel tuo arrivo, come il giglio desidera
ardentemente il sorgere del sole.”
Il Beato acconsentì alla richiesta di suo padre e si recò a Kapilavatthu.
Presto la notizia si sparse nel paese natio del Buddha: “Il Principe
Siddhartha che lasciò la sua casa in vagabondaggio per ottenere l’illuminazione,
avendo realizzato il suo scopo, sta facendo ritorno!”.
Suddhodana andò fuori coi parenti e con i suoi ministri per incontrare il
principe. Quando il re da lontano vide Siddhartha, suo figlio, fu colpito
dalla sua bellezza e dignità, e si allietò nel cuore, ma la sua bocca non
trovò parole da esprimere. Questi, era davvero suo figlio; quelle erano le
fattezze di Siddhartha. Oh, il grande samana, com’era vicino al suo cuore,
eppure che distanza c’era tra loro! Quel nobile muni non era più suo figlio
Siddhartha; egli era il Buddha, il Beato, il Santo, il Signore della verità
ed il Maestro dell’umanità. Il re Suddhodana, in considera-zione della
dignità religiosa di suo figlio, discese dal carro e, dopo averlo salutato,
disse: “E’ da sette anni che non ti vedevo. Come ho ardentemente desiderato
questo momento!”
Poi, Sakyamuni si sedette di fronte a suo padre, ed il re con impazienza
guardava fisso suo figlio. Egli desiderava chiamarlo con il suo nome, ma non
volle sfidarlo. “Siddhartha”, si disse silenziosamente dentro il suo cuore,
“Siddhartha, sei tornato dal tuo vecchio padre e sei di nuovo suo figlio!”
Egli provò quasi a esprimerlo, ma vedendo la determinazione di suo figlio,
soppresse i suoi sentimenti, e fu oppresso dalla desolazione. Così il re
sedette faccia a faccia con suo figlio, allietandosi nella sua tristezza e
triste nella sua allegrezza. Benchè fosse orgoglioso di lui, tuttavia il suo
orgoglio svaniva all’idea che il suo grande figlio non sarebbe stato mai più
il suo erede. “Io vorrei offrirti il mio regno” disse il re, “ma se lo
facessi, tu non ne terresti alcun conto”.
E il Buddha disse: “Io so che il cuore del re è pieno di amore e che a causa
di suo figlio egli sente un profondo dolore. Ma se l’amore che lo lega al
figlio che perse, potesse abbracciare con uguale gentilezza tutti gli
esseri, egli ne riceverebbe in cambio uno più grande di Siddhartha;
riceverebbe il Buddha, il Maestro di verità, il predicatore della
rettitudine, e la pace del Nirvana entrerebbe nel suo cuore.”
Suddhodana tremò di gioia quando sentì queste melodiose parole di suo
figlio, il Buddha, e giungendo le mani, esclamò con le lacrime agli occhi:
“Meraviglioso è questo cambio! Il dolore opprimente è andato via. Prima, il
mio cuore addolorato era pesante, ma ora io raccolgo il frutto della tua
grande rinuncia. E’ stato giusto che, mosso dalla tua forte comprensione, tu
abbia rifiutato i piaceri del potere reale e realizzato il tuo nobile scopo
nella devozione religiosa. Ora che tu hai trovato il sentiero, tu puoi
predicare la legge dell’immortalità a tutti coloro che desiderano la
liberazione.” Ciò detto, il re ritornò al palazzo, mentre il Buddha rimase
nel boschetto di fronte alla città.
YASODHARA, LA PRIMA MOGLIE
Il mattino dopo, il Buddha prese la sua ciotola e uscì per elemosinare il
suo cibo. E la notizia si sparse all’esterno: “Il Principe Siddhartha sta
andando di casa in casa per ricevere elemosine nella città in cui egli
cavalcava su un carro accompagnato dal suo seguito. Il suo vestito è color
ocra rossa, e in mano tiene una ciotola fatta di terra”.
Nel sentire la strana diceria, il re andò rapidamente fuori e quando
incontrò il suo figlio esclamò: “Perché mi disonori così? Non sai che io
posso provvedere di cibo facilmente per te e i tuoi bhikkhu?” Ed il Buddha
rispose: “È l’uso del mio ceto.”
Ma il re disse: “Come può essere ciò? Tu discendesti da re, e nessuno di
essi implorò mai per il cibo.”
“O grande re”, aggiunse il Buddha “Tu e ed il tuo ceto possono pretendere di
discendere da re; ma la mia discendenza è dagli antichi Buddha. Essi,
questuando il loro cibo, vissero di elemosine.” Il re non replicò, ed il
Beato continuò: “O Re, è usanza, quando uno ha trovato un ignoto tesoro, che
egli faccia offerta del gioiello più prezioso a suo padre. Quindi,
permettimi di aprire questo mio tesoro, che è il Dharma, ed accetta da me
questa gemma”: Ed il Beato recitò la seguente stanza:
“Svegliati dai sogni e dalle illusioni,
E rimani con la mente aperta e sveglia.
Cerca solo la Verità, perché dove tu la trovi,
Là vi troverai anche la Pace!”
Allora il re condusse il principe nel palazzo, ed i ministri e tutti i
membri della famiglia reale lo salutarono con grande riverenza, ma sua
moglie Yasodhara, la madre di Rahula, non si fece vedere. Il re la mandò a
chiamare, ma lei rispose: “Di sicuro, se io merito un qualche riguardo,
Siddhartha verrà qui a vedermi”.
Il Beato, avendo salutato tutti i suoi parenti ed amici, chiese: “Dov’è
Yasodhara?” E venendo informato che lei aveva rifiutato di venire, lui
subito si alzò ed andò ai suoi appartamenti.
“Io sono libero”, disse il Beato ai suoi discepoli, Sariputta e Moggallana,
che inten-devano accompagnarlo alla camera della principessa; “tuttavia, la
principessa non è ancora libera. Non avendomi visto per molto tempo, lei è
assai addolorata. Fino a ché il suo dolore non avrà avuto il suo corso, il
suo cuore soffrirà. Se lei dovesse toccare il Tathagata, il Santo, voi non
dovete impedirglielo.”
Yasodhara sedeva nella sua stanza, vestita di indumenti umili e coi capelli
tagliati. Quando il Principe Siddhartha fu entrato, lei, per il suo grande
affetto, fu come un vaso traboccante incapace di contenere il suo amore.
Dimenticando che l’uomo che lei amava era il Buddha, il Signore del mondo,
il predicatore della verità, lei lo cinse stringendosi ai suoi piedi e
pianse amaramente.
Ricordando, comunque, che era presente Suddhodana, lei si sentì vergognosa,
e si rialzò, mettendosi riverentemente a sedere ad una certa distanza.
Il re scusò la principessa, dicendo: “Questo deriva dal suo profondo
affetto, ed è più di un’emozione temporanea. In questi sette anni in cui
essa perse suo marito, allorché sentì che Siddhartha si era raso il capo,
lei fece altrettanto; quando seppe che egli aveva abbandonato l’uso di
profumi ed ornamenti, anche lei rifiutò il loro uso. Come suo marito, lei
cominciò a mangiare da una ciotola di terra e solo nei momenti adatti. Come
lui, essa abbandonò i letti alti con splendide coperture, e quando altri
principi la chiesero in sposa, lei rispose che era ancora la sua sposa.
Perciò, accordale il tuo perdono”.
E il Beato parlò gentilmente a Yasodhara, dicendole dei suoi grandi meriti
ereditati dalle vite precedenti. Invero lei era stata sempre di grande aiuto
per lui. La sua purezza, la sua gentilezza e la sua devozione erano state
inestimabili per il Bodhi-sattva, poiché egli aspirava a raggiungere l’illuminazione,
lo scopo più alto per un essere umano. E lei era stata così santa da
desiderare di divenire la moglie di un Buddha. Questo, quindi, era il suo
karma, il risultato di grandi meriti. Anche se il suo dolore è inenarrabile,
la coscienza della gloria che circonda la sua eredità spirituale, sviluppata
grazie al suo nobile atteggiamento durante la vita, sarà un balsamo che
trasformerà miracolosamente tutti i suoi dolori in una gioia paradi-siaca”.
RAHULA, IL FIGLIO
Molte persone in Kapilavatthu credettero nel Tathagata e presero rifugio
nella sua dottrina, fra loro il fratellastro di Nanda Sidhattha, il figlio
di Prajapati; Devadatta, suo cugino e cognato; Upali il barbiere; e
Anuruddha il filosofo. Alcuni anni più tardi anche Ananda, un altro cugino
del Beato, si unì al Sangha.
Ananda era assai vicino al cuore del Beato; egli fu il suo discepolo più
adorato, profondo in comprensione e gentile in spirito. Ed Ananda rimase
sempre vicino al Beato, Maestro di verità, finché la morte li divise.
Nel settimo giorno dopo l’arrivo del Buddha in Kapilavatthu, Yasodhara vestì
il figlio Rahula, dell’età di sette anni, in tutto lo splendore di un
principe e gli disse: “Questo santo uomo, il cui aspetto è così glorioso da
sembrare il grande Brahma, è tuo padre. Egli possiede quattro grandi tesori
che io non ho ancora visto. Vai da lui e imploralo di fartene avere il
possesso, perché il figlio dovrebbe ereditare la proprietà di suo padre”.
Rahula rispose: “Io non conosco altro padre che il re. Chi è mio padre?”.
Allora, la principessa prese il ragazzo nelle sue braccia e dalla finestra
indicò a lui il Buddha che stava chiedendo il cibo presso il palazzo.
Rahula andò allora dal Buddha, e guardandolo in faccia senza paura e con
molto affetto disse: “Padre mio!”. E standogli vicino, aggiunse: “O Samana,
la tua ombra è pari ad un luogo di beatitudine!”
Quando il Tathagata ebbe finito il suo pasto, diede le benedizioni ed andò
via dal palazzo, ma Rahula lo seguì e chiese l’eredità a suo padre. Nessuno
ostacolò il ragazzo, e neppure il Beato stesso lo fece.
Allora il Beato si rivolse a Sariputta, dicendo: “Mio figlio chiede la sua
eredità. Io non posso dargli tesori deteriorabili che danno preoccupazioni e
dolori, ma posso dargli l’eredità di una vita santa che è un tesoro che non
perirà mai.”
Indirizzandosi con serietà a Rahula, il Beato disse: “Io non possiedo oro,
argento e gioielli. Ma se tu desideri ricevere i tesori spirituali, e sei
forte abbastanza per portarli e tenerli con te, io ti darò le quattro verità
che ti insegneranno l’ottuplice sentiero della rettitudine. Desideri dunque
essere ammesso nel Sangha di coloro che dedicano la loro vita alla cultura
del cuore cercando la più alta beatitudine raggiungibile?”
Rahula rispose con fermezza: “Si lo desidero. Voglio unirmi al Sangha di
Buddha.”
Quando il re sentì che Rahula si era unito alla fratellanza dei bhikkhu, ne
fu assai addolorato. Lui aveva già perso Siddhartha e Nanda, i suoi figli, e
Devadatta, suo nipote. Ma ora che anche il suo nipotino era stato preso,
egli andò dal Beato e gli parlò. Ed il Beato promise che da allora in poi
non avrebbe più ordinato nessun minore senza il beneplacito dei suoi
genitori o custodi.
LE REGOLE
Prima che il Beato avesse raggiunto l’Illuminazione, l’auto-mortificazione
era stata l’usanza fra coloro che cercavano sinceramente la salvezza. Essi
consideravano come scopo di religione la liberazione dell’anima da tutte le
necessità della vita e infine dal corpo stesso. Così, essi evitavano tutto
quello che era un lusso in cibo, casa, ed abbigliamento, e vivevano nel
bosco come animali. Alcuni andavano in giro nudi, mentre altri portavano
stracci raccolti nei cimiteri o nelle pattumiere.
Quando il Beato si ritirò dal mondo, riconobbe subito l’errore degli asceti
nudi, e, considerando l’indecenza della loro abitudine, si vestì anch’egli
di stracci.
Avendo raggiunto l’Illuminazione e respinto tutte le mortificazioni non
necessarie, il Beato ed i suoi bhikkhu continuarono per molto tempo a
portare stracci raccolti nei cimiteri e negli scarichi di immondizie. Poi,
accadde che i bhikkhu furono colpiti da malattie di ogni tipo, ed il Beato
permise ed ordinò esplicitamente l’uso di medicine e, ogni qualvolta che ne
ebbe bisogno, lui stesso fece uso di unguenti. Uno dei confratelli soffriva
di un dolore al piede, ed il Beato ordinò che il bhikkhu portasse delle
coperture per i piedi.
Ora accadde che una malattia colpisse proprio il corpo del Beato, ed Ananda
andò da Jivaka, il medico del re Bimbisara. E Jivaka, fedele credente nel
Santo, somministrò al Beato medicine e bagni finché il corpo del Beato fu
completamente ripristinato.
A quel tempo, Pajjota, re di Ujjeni, stava soffrendo di ittero, e venne
consultato Jivaka, il medico del re Bimbisara. Quando al Re Pajjota fu
ripristinata la salute, egl spedì a Jivaka un abito della più eccellente
stoffa. E Jivaka si disse: “Questo abito è fatto della migliore stoffa, e
nessun altro è degno di riceverlo se non il Beato, il perfetto e santo
Buddha, o il re di Magadha, Senija Bimbisara.”
Allora Jivaka prese quell’abito ed andò nel luogo dove stava il Beato;
essendosi avvicinato, ed avendolo rispettosamente salutato, gli si sedette
vicino e disse: “Signore, ho un piacere da chiedere al Beato”. Il Buddha
rispose: “I Tathagata, o Jivaka, non accordano piaceri prima di sapere quali
essi sono.”
Jivaka disse: “O Signbore, questa è una richiesta corretta ed ineccepibile”.
“Allora, parla, Jivaka”, disse il Beato.
“Signore del mondo, il Beato usa soltanto vesti fatte di stracci presi da un
cimitero o da immondezzai, e anche così fa la fratellanza di bhikkhu. Ora,
Signore, è stato a me spedito da Re Pajjota, questo abito che è il meglio,
il più eccellente, ed il più prezioso, ed il più nobile che si possa
trovare. Signore del mondo, che il Beato accetti da me questo abito, e possa
permettere al Sangha di portare abiti adatti”.
Il Beato accettò l’abito, e dopo avere esposto un discorso religioso, così
si indirizzò ai bhikkhu: “D’ora innanzi tutti voi sarete liberi di portare
sia stracci che abiti laici. Qualunque sia la vostra decisione, io
l’approverò.”
Quando la gente di Rajagraha sentì che il Beato aveva permesso ai bhikkhu di
portare vestiti ordinari, quelli che erano disposti a fare regali ne furono
contenti. E a Rajagraha in un giorno molte migliaia di tonache furono
offerte ai bhikkhu.
SUDDHODANA RAGGIUNGE IL NIRVANA
Quando Suddhodana divenne vecchio, cadde ammalato, e mandò a chiamare suo
figlio per farlo venire e poterlo vedere ancora una volta prima di morire; e
il Beato venne e rimase presso il letto dell’ammalato, e Suddhodana, avendo
raggiunto l’Illuminazione, morì tra le braccia del Beato.
Ed è detto che il Beato, per predicare il Dharma a sua madre Maya-devi,
ascese al cielo e dimorò con i dèva. Avendo concluso la sua pia missione,
poi egli ritornò sulla terra e ancora andò convertendo quelli che
ascoltavano i suoi insegnamenti.
DONNE NEL SANGHA
Yasodhara aveva fatto per tre volte richiesta al Buddha affinché venisse
ammessa al Sangha, ma il suo desiderio non era stato accordato. Ora
Prajapati, la matrigna che allevò il Beato, in compagnia di Yasodhara e
molte altre donne, andò dal Tathagata ad implorarlo perché le lasciasse
sinceramente prendere i voti e fossero ordinate come discepoli.
Il Beato, prevedendo il pericolo che si celava nell’ammettere le donne al
Sangha, ammonì che se la buona religione doveva di sicuro durare almeno
mille anni, se vi si univano le donne, sarebbe decaduta dopo soli
cinquecento anni; ma osservando lo zelo di Prajapati e Yasodhara di voler
fare una vita religiosa, non potè resistere più e alla fine assentì per
ammetterle come suoi discepoli.
Allora il venerabile Ananda così si indirizzò al Beato: “Venerabile Signore,
le donne sono competenti, se dalla vita di famiglia si ritirano allo stato
senza casa, sotto la dottrina e disciplina annunciata dal Tathagata, per
ottenere la conversione, per raggiungere la liberazione da una pesante
ripetizione di rinascite, per raggiungere la santità?”
Il Beato dichiarò: “Le donne sono competenti, Ananda, se dalla vita di
famiglia si ritirano allo stato senza casa, sotto dottrina e disciplina
annunciata dal Tathagata, ad ottenere la conversione, raggiungere la
liberazione da una pesante ripetizione di rinascite, e raggiungere la
santità. Considera, Ananda, che gran benefattrice sia stata Prajapati. Lei
fu la sorella della madre del Beato, e come una madre lo allevò ed allattò,
educò il Beato dopo la morte di sua madre. Quindi, Ananda, anche le donne
possono ritirarsi dalla vita di famiglia allo stato senza casa, sotto la
dottrina e disciplina annunciata dal Tathagata.”
Prajapati fu la prima donna che diventò un discepolo del Buddha e ricevette
l’ordinazione come bhikkhuni (monaca).
SULLA CONDOTTA VERSO LE DONNE
I bhikkhu vennero dal Beato e gli chiesero: “O Tathagata, Signor nostro,
quale condotta verso le donne tu prescrivi al samana che ha lasciato il
mondo?”
Il Beato disse: “State attenti a come guardate una donna. Se vedete una
donna, fate come se i vostri occhi non la vedessero, e cercate di non
parlarle. Se, dopo tutto, dovete proprio parlare con lei, dovete farlo con
un cuore puro, e dovreste pensare, ‘Io sono un samana che vive in questo
mondo peccaminoso come la foglia immacolata del loto, non sporcato dal fango
in cui cresce.’
“Se la donna è più vecchia di voi, consideratela vostra madre, se più
giovane, come vostra sorella, se molto più giovane, come vostra figlia. Il
samana che guarda una donna come una donna, o la tocca come una donna, ha
rotto il suo voto e non è più un discepolo del Tathagata. Il potere della
lussuria è grande per gli uomini, e sarà pure temuto; prendete quindi l’arco
della seria perseveranza, e le acute freccie della saggezza. Riparate le
vostre teste con l’elmo del retto pensiero, e lottate con fermo proposito
contro i cinque desideri. La concupiscenza oscura il cuore di un uomo,
quando è confuso con la bellezza della donna, la sua mente è stordita.
“Molto meglio sarebbe estrarsi fuori con ferri incandescenti entrambi gli
occhi, che lasciarvi prendere dai pensieri sensuali, o reputare la forma di
una donna con desideri lussuriosi. Meglio cadere nella bocca di una feroce
tigre, o sotto il coltello acuto del carnefice, che stare insieme con una
donna ed eccitarsi con pensieri concupiscenti.
“Una donna del mondo è ansiosa di esibire la sua forma e la sua bellezza,
sia mentre cammina, stando in piedi, sedendo, o dormendo. Perfino quando è
raffi-gurata in un ritratto, lei desidera incantare col fascino della sua
bellezza, e così rubare agli uomini la costanza del loro cuore. Allora, come
potete proteggervi? Considerando le sue lacrime ed i suoi sorrisi come
nemici, la sua forma ricurva, le sue braccia tese, e i suoi capelli sciolti
come strumenti progettati per intrappolare il cuore dell’uomo. Perciò, io vi
dico, frenate il cuore, non dategli nessuna licenza di sfrenarsi.”
VISAKHA ED I SUOI REGALI
Visakha, una ricca donna di Savatthi che aveva molti bambini e nipoti, aveva
fatto dono all’ordine del Pubbarama, o Giardino Orientale, e nel Kosala
Settentrionale fu la prima a diventare una matrona delle sorelle laiche.
Quando il Beato stava a Savatthi, Visakha salì al luogo dov’era il Beato, e
gli offrì un invito per venire a pranzo nella sua casa, che il Beato accettò
volentieri. Ma, durante la notte e per tutta la mattina seguente cadde una
forte pioggia; e tutti i bhikkhu si tolsero le loro tonache per tenerle
asciutte e così la pioggia bagnò i loro corpi.
Il giorno dopo, quando il Beato ebbe finito il suo pasto, lei si sedette al
suo fianco e così parlò: “Otto sono i benefici, o Signore, che io imploro
dal Beato.”
Il Beato disse: “I Tathagata, o Visakha, non accordano piaceri finché non
sanno quali essi sono.” Visakha rispose: “O Signore, confacenti ed
ineccepibili sono i benefici che io chiedo.”
Avendo ricevuto il permesso per rendere note le sue richieste, Visakha
disse: “Per tutta la mia vita, O Signore, io desidero dare al Sangha i
mantelli per la stagione piovosa, cibo per i bhikkhu che arrivano, cibo per
i bhikkhu in partenza, cibo per gli ammalati, cibo per quelli che assistono
gli ammalati, medicine per gli ammalati ed un continuo approvvigionamento di
latte di riso per il Sangha, e accappatoi per le sorelle bhikkhuni.”
Allora il Buddha disse: “O Visakha, qual è la circostanza che tu hai in
mente nel chiedere questi otto benefici al Tathagata?”
Visakha rispose: “Io diedi l’ordine, Signore, alla mia domestica dicendole,
‘Vai, ed annuncia alla fratellanza che il pasto è pronto.’ E la domestica
andò, ma quando arrivò al vihara, lei osservò che i bhikkhu si erano tolti i
loro vestiti perché stava piovendo, e lei pensò: ‘Questi non sono bhikkhu,
ma asceti nudi che lasciano che piova su di loro’. Quindi lei ritornò da me
e riportò di conseguenza il fatto, ed io dovetti rispedirla una seconda
volta. O Signore, la nudità è impura e rivoltante. Fu questa circostanza,
Signore, che io avevo in mente nel desiderare, per tutta la durata della mia
vita, di fornire il Sangha di indumenti speciali da usare nella stagione
piovosa”.
“Quanto al mio secondo desiderio, Signore, un bhikkhu che arriva, non
essendo capace di prendere le strade dirette e non conoscendo il luogo dove
egli si può procurare il cibo, nel suo cammino viene a stancarsi per cercare
elemosine. Fu questa circostanza, Signore, che io avevo in mente nel
desiderare per tutta la durata della mia vita di fornire al Sangha cibo per
i bhikkhu che arrivano. In terzo luogo, Signore, un bhikkhu in partenza
dovendo cercare l’elemosina, può essere rimasto dietro, o può arrivare
troppo tardi al luogo in cui desidera andare, e sarà stanco quando si
rimetterà sulla strada.
“Come quarta cosa, Signore, se un bhikkhu malato non ottiene cibo
appropriato, la sua malattia può peggiorare, e lui può morire. Quinto,
Signore, un bhikkhu che sta assistendo l’ammalato perderà la sua opportunità
di andare a cercare cibo per sé. Sesto, Signore, se un bhikkhu malato non
ottiene medicine appropriate, la sua malattia può peggiorare, e lui può
morire.
“Settimo, Signore, avendo io sentito che il Beato ha lodato il latte di
riso, dato che dà prontezza di mente e disperde la fame e la sete; è salubre
come nutrimento per il sano, e come una medicina per l’ammalato. Perciò io
desidero per tutta la durata della mia vita fornire al Sangha un continuo
rifornimento di latte di riso.
“E infine, Signore, le sorelle bhikkhuni hanno l’abitudine di bagnarsi nel
fiume Achiravati, nude e nello stesso luogo delle cortigiane. E le
cortigiane, Signore, mettono in ridicolo le bhikkhuni, dicendo, ‘Che c’è di
bello, sorelle, nel mantenere la vostra castità ora che voi siete giovani?
Quando sarete vecchie, mantenete pure la castità; così voi otterrete sia il
piacere mondano che la consolazione religiosa.’ O Signore, impura è la
nudità per una donna, disgustosa e rivoltante. Queste sono le circostanze,
Signore, che io avevo in mente.”
Il Beato disse: “Ma quale era il vantaggio che tu avevi in mente per te, O
Visakha, nel chiedere gli otto benefici al Tathagatha?”
Visakha rispose: “O Signore, a Savatthi verranno per visitare il Beato dei
Bhikkhu che hanno passato le stagioni piovose nei vari luoghi. E nel venire
dal Beato essi chiederanno, dicendo: ‘Tale e tale bhikkhu, Signore, è morto.
Qual’è, ora, il suo destino?’ Allora il Beato spiegherà che lui ha raggiunto
il frutto della conversione; che lui ha raggiunto lo stato di Arahat, o è
entrato nel Nirvana, a seconda del caso. Ed io, salendo da loro, chiederò,
“Era quel fratello, Signori, uno di quelli che in precedenza erano stati a
Savatthi?’ Se mi si risponde, ‘Si, egli in precedenza è stato a Savatthi’ io
allora arriverò alla conclusione che, certamente, quel fratello aveva goduto
dei mantelli per la stagione piovosa, o del cibo per il bhikkhu che arriva,
o del cibo per il bhikkhu in partenza, o del cibo per l’ammalato, o del cibo
per quelli che assistono l’ammalato, o della medicina per l’ammalato, o
almeno del continuo approvvigionamento di latte di riso’.
“Allora la contentezza sprizzerà dentro di me; così allietata, la gioia
verrà a me; e così rallegrata tutta la mia mente sarà in pace. Essendo così
in pace, io sperimen-terò un felice sentimento di contentezza; ed in quella
beatitudine il mio cuore sarà in pace. Questo per me sarà un esercizio del
mio senso morale, un esercizio dei miei poteri morali, un esercizio dei
sette tipi di saggezza! Questo, Signore, era il vantaggio che avevo in mente
per me nel chiedere quegli otto benefici al Beato”.
Il Beato disse: “Bene, bene, Visakha. Tu hai fatto bene a chiedere questi
otto piaceri al Tathagata con tali vantaggi in vista. La carità data a
coloro che ne sono degni è come un buon seme seminato su un buon terreno che
produrrà un’abbon-danza di frutti. Mentre l’elemosina fatta a coloro che
sono ancora sotto la tirannia delle passioni sono come un seme depositato in
un cattivo suolo. Le passioni di colui che riceve l’elemosine, in qualche
modo, soffocano lo sviluppo dei meriti.”
Ed il Beato diede questa strofa a Visakha come ringraziamento:
“O nobile donna con una corretta vita,
“Discepola del Beato, tu hai donato
“Copiosamente con purezza di cuore.
“In te sprizzerà la gioia, si allevierà il dolore,
“E veramente i tuoi doni saranno una benedizione
“Tanto per le altre persone quanto per te”.
L’UPOSATHA E IL PRATIMOKSHA
Quando Seniya Bimbisara, il re di Magadha, fu avanzato negli anni, si ritirò
dal mondo e condusse una vita religiosa. Lui osservò che in Rajagraha vi
erano delle sètte Brahmaniche che ritenevano certi giorni sacri, e le
persone andavano alle loro riunioni ed ascoltavano i loro sermoni. Sentendo
la necessità di tenere giorni regolari per il ritiro dai lavori mondani e
per l’istruzione religiosa, il re andò dal Beato e disse: “I Parivrajaka,
che appartengono alla scuola Titthiya, prosperano e guadagnano aderenti
perché si intrattengono ogni otto giorni, ed anche il quattor-dicesimo o
quindicesimo giorno di ogni mese. Non sarebbe consigliabile anche per i
reverendi fratelli del Sangha fare assemblee in giorni debitamente nominati
per quello scopo?”
Il Beato allora dette ordine ai bhikkhu di riunirsi nell’ottavo giorno ed
anche nel quattordicesimo o quindicesimo giorno di ogni mezzo-mese, e di
dedicare questi giorni agli esercizi religiosi.
Un bhikkhu debitamente nominato avrebbe dovuto indirizzare la congregazione
ed esporre il Dharma. Egli doveva esortare le persone a percorrere l’ottuplice
sentiero della rettitudine; doveva confortarle nelle vicissitudini della
vita e allietarle con la beatitudine dei frutti delle buone azioni. In
questo modo i confratelli dovrebbero tenere l’Uposatha. Ora i bhikkhu, in
obbedienza alla regola dettata dal Beato, nel giorno stabilito si radunarono
nel vihara e le persone vi si recarono per sentire il Dharma, ma esse furono
grandemente deluse, perché i bhikkhu rimasero in silenzio e non rilasciarono
alcun insegnamento.
Quando il Beato sentì questo, ordinò ai bhikkhu di recitare il Pratimoksha
che è una cerimonia per sgravare la coscienza; e comandò loro di confessarsi
per la loro trasgressione così come per ricevere l’assoluzione dell’ordine.
Semmai vi fosse una colpa, dovrebbe essere confessata dal bhikkhu che la
ricorda e desidera purificarsi perché una colpa quando è stata confessata,
peserà di meno per lui.
Ed il Beato disse: “Il Pratimoksha deve essere recitato così: un competente
e venerabile bhikkhu faccia la seguente proclamazione al Sangha: ‘Possa il
Sangha ascoltarmi; Oggi è l’Uposatha, l’ottavo, o il quattordicesimo o
quindicesimo giorno di metà-mese. Se il Sangha è pronto, che il Sangha tenga
il servizio di Uposatha e reciti il Pratimoksha. Io reciterò il
Pratimoksha’. Ed i bhikkhu risponderanno: ‘Noi lo sentiremo bene e
concentreremo bene le nostre menti su di esso, tutti noi.’ Poi il bhikkhu
officiante continuerà: ‘Colui che ha commesso un’offesa lo confessi; se non
c’è offesa, che tutti rimangano silenziosi; dal loro essere silenziosi io
capirò che i reverendi fratelli sono liberi da offese. Come una sola persona
a cui è stata fatta una domanda risponde, così anche se di fronte ad una
riunione come questa una domanda viene solennemente proclamata tre volte,
una risposta è attesa: se un bhikkhu, dopo una triplice proclamazione non
confessa un’offesa esistente che lui ricorda, egli commetterà una falsità
intenzionale. Ora, reverendi fratelli, una falsità intenzionale è stata
dichiarata dal Beato come un impedimento. Perciò, se un’offesa è stata
commessa da un bhikkhu che lo ricorda e desidera divenire puro, l’offesa
dovrebbe essere confessata dal bhikkhu; e quando è stata confessata, essa è
debitamente trattata’.”
LO SCISMA
Mentre il Beato dimorava a Kosambi, un certo bhikkhu fu accusato di aver
commesso un’offesa, e, siccome lui rifiutò di ammetterlo, la fratellanza
pronunciò contro lui la frase di espulsione.
Ora, quel bhikkhu era un erudito. Lui conosceva il Dharma, aveva studiato le
regole dell’ordine, ed era saggio, dotto, intelligente, modesto,
coscienzioso, e pronto per sottoporsi alla disciplina. Egli andò fra i
bhikkhu suoi compagni e amici, dicendo: “Qui non c’è stata nessuna offesa,
amici; questa non è ragione per una frase di espulsione. Io sono innocente.
Il verdetto è improprio e nullo. Perciò io mi considero ancora come membro
dell’ordine. Che i venerabili fratelli mi assistano nel mantenere il mio
diritto.”
Allora, quelli che parteggiavano col fratello espulso andarono dal bhikkhu
che aveva pronunciato la frase, dicendo: “Questa non è offesa”; mentre il
bhikkhu che aveva pronunciato la frase rispose: “Questa è un’offesa”. Così
sorsero alterchi e dispute, ed il Sangha fu diviso in due parti, che si
ingiuriavano e si calunniavano l’un l’altra.
Tutti questi eventi furono riportati al Beato. Allora il Beato si recò nel
luogo in cui erano i bhikkhu che avevano pronunciato la frase di espulsione,
e disse loro: “Non pensiate, o bhikkhu, di pronunciare l’espulsione contro
un bhikkhu, qualunque siano i fatti del caso, semplicemente dicendo: ‘Accade
a noi che è così, e perciò noi siamo lieti di procedere così contro nostro
fratello’. Che quei bhikkhu che frivolamente pronunciano una frase contro un
fratello che conosce il Dharma e le regole dell’ordine, e che è dotto,
saggio, intelligente, modesto, coscienzioso, e pronto per sottoporsi alla
disciplina, stiano nel timore riverenziale di provocare divisioni. Essi non
devono pronunciare una frase di espulsione contro un fratello solo perché
lui rifiuta di riconoscere la sua offesa.”
Poi il Beato si alzò ed andò dai fratelli che parteggiavano col fratello
espulso e disse loro: “Non pensiate, o bhikkhu, che se voi avete recato
offesa, voi non abbiate bisogno di fare ammenda, soltanto pensando: ‘Noi
siamo senza offesa.’ Quando un bhikkhu ha commesso un’offesa che lui non
considera offesa, mentre la fratellanza lo considera colpevole, egli
dovrebbe invece pensare: ‘Questi fratelli conoscono il Dharma e le regole
dell’ordine; loro sono dotti, saggi, intelligenti, modesti, coscienziosi, e
pronti per sottoporsi alla disciplina; è impossibile che essi possano agire
sul mio conto con egoismo o malevolenza o inganno o paura’. Che egli abbia
il timore riverenziale di provocare divisioni, e piuttosto riconosca la sua
offesa in base all’autorità dei suoi fratelli.”
Tuttavia, entrambe le parti continuarono a tenere Uposatha, e a compiere gli
atti ufficiali indipendentemente l’una dall’altra; e quando questi fatti
furono riferiti al Beato, lui stabilì che le riunioni di Uposatha e l’effettuazione
di atti ufficiali erano legali, ineccepibili, e valide per entrambe le
parti. Perciò lui disse: “I bhikkhu che parteggiano con il fratello espulso
formano una diversa comunione da quelli che pronunciarono la frase. Vi sono
venerabili fratelli in ambo le fazioni. Poiché essi non sono d’accordo,
permetto loro di tenere Uposatha e compiere separatamente gli atti
ufficiali”.
Ed il Beato rampognò i bhikkhu litigiosi, dicendo loro: “Il frastuono è la
voce che fanno i mondani; ma come possono essere biasimati essi quando
sorgono divisioni anche nel Sangha? L’odio non è placato in quelli che
pensano: ‘Lui mi ha offeso, lui mi ha ingiuriato, lui mi ha ferito.’ Perché
non dall’odio, l’odio è placato. L’odio, è placato dal non-odio. Questa è
una legge eterna.
Ci sono alcuni che non conosco la necessità dell’auto-controllo; se essi
sono litigio-si noi possiamo scusare il loro comportamento. Ma quelli che lo
sanno meglio, dovrebbero imparare a vivere in concordia. Se un uomo trova un
amico saggio che vive rettamente ed è costante nel suo carattere, egli può
vivere con lui, superando tutti i pericoli, felice e consapevole.
“Ma se lui non trova un amico che vive rettamente e che sia costante nel suo
carattere, è meglio che piuttosto cammini da solo, come un re che lascia
dietro di sé il suo impero e le preoccupazioni del governo, per condurre una
vita di ritiro come un elefante solitario nella foresta. Con gli stolti non
c’è compagnia. Piuttosto che vivere con uomini che sono egoisti, vani,
litigiosi, ed ostinati, è meglio che un uomo viva da solo.”
Ed il Beato pensò tra sé e sé: “Non è affato un compito facile istruire
questi sciocchi caparbi ed infatuati”. Poi, si alzò dal suo posto e se ne
andò.
IL RISTABILIMENTO DELLA CONCORDIA
Mentre la disputa tra le parti non era ancora stabilita, il Beato lasciò
Kosambi e, vagando di luogo in luogo alla fine egli giunse a Savatthi.
Durante l’assenza del Beato le dispute peggiorarono, tanto che i devoti
laici di Kosambi ne furono disturbati e presero a dire: “Questi monaci
litigiosi sono un grande fastidio, e por-teranno la sfortuna su di noi.
Preoccupato dai loro alterchi il Beato se n’è andato, e ha scelto un’altra
dimora per la sua residenza. Perciò noi non saluteremo più i bhikkhu, né li
sosterremo. Essi non son degni di portare le vesti gialle, perciò o dovranno
propiziarsi il Beato, o ritornare nel mondo.”
Ed i bhikkhu di Kosambi, allorché non furono più onorati né più sostenuti
dai devoti laici, cominciarono a pentirsi e dissero: “Andiamo dal Beato e
facciamogli risolvere questa questione del nostro disaccordo.” Entrambe le
fazioni andarono dal Beato a Savatthi. Ed il venerabile Sariputta, avendo
sentito del loro arrivo, si recò dal Beato e gli disse: “Questi bisticcioni,
contendenti e litigiosi bhikkhu di Kosambi, gli autori dei dissensi, sono
venuti a Savatthi. Come devo comportarmi, o Signore, verso quei bhikkhu?”.
“Non biasimarli, Sariputta” disse il Beato, “Perché le parole aspre non
servono come rimedio, e non sono piacevoli per nessuno. Per dimora, assegna
ad ogni fazione luoghi separati e trattali con imparziale giustizia. Ascolta
pazientemente entrambe le parti. Solo colui che soppesa entrambi i lati è
chiamato un muni. Quando le due fazioni hanno presentato il loro caso,
lascia che il Sangha giunga ad un accordo e dichiari il ristabilimento della
concordia.”
Prajapati, la matrona, chiese consiglio al Beato, ed il Beato disse: “Che
entrambe le parti godano i regali dei membri laici, sia vestiario che cibo,
a seconda del loro bisogno, e che nessuno riceva preferenze rispetto a
qualcun altro.”
Il venerabile Upali, essendosi avvicinato al Beato, chiese riguardo al
ristabilimento della pace nel Sangha: “Per evitare ulteriori dispute,
Signore,” disse lui, “Sarebbe corretto che il Sangha dichiarasse la
restaurazione della concordia senza indagare sul problema della disputa?”
Il Beato disse:”Se il Sangha dichiarasse il ristabilimento della concordia
senza aver indagato nella questione, la dichiarazione non sarebbe giusta né
legale. Ci sono due modi di ristabilire la concordia; uno è nella lettera, e
l’altro è nello spirito e nella lettera. Se il Sangha dichiarasse il
ristabilimento della concordia senza aver indagato nella questione, la pace
sarebbe conclusa solamente nella lettera. Ma se il Sangha, avendo indagato
nella questione ed essendo andato al fondo di essa decide di dichiarare il
ristabilimento della concordia, la pace è conclusa nello spirito ed anche
nella lettera. Soltanto la concordia riattivata nello spirito e nella
lettera è corretta e legale”.
Ed il Beato, indirizzandosi ai bhikkhu, raccontò loro la storia del Principe
Dighavu, il quale visse molto a lungo. Egli disse: “Nei tempi antichi, a
Benares viveva un potente re il cui nome era Brahmadatta di Kasi; egli entrò
in guerra contro Dighiti, un re di Kosala, perchè lui pensava che il regno
di Kosala era piccolo e Dighiti non sarebbe stato in grado di resistere al
suo esercito”. E Dighiti, visto che resistere contro il grande esercito del
re di Kasi era impossibile, abbandonò il suo piccolo regno lasciandolo nelle
mani di Brahmadatta; avendo vagato in lungo e in largo, alla fine egli
giunse a Benares, e visse là fuori di città con la sua consorte nella casa
di un vasaio.
“La regina gli dette un figlio, che essi chiamarono Dighavu. Quando Dighavu
fu cresciuto, il re pensò: ‘Il Re Brahmadatta ci ha fatto un gran danno, e
di sicuro lui si aspetta la nostra vendetta; perciò cercherà di ucciderci.
Se riuscisse a trovarci, egli ci ucciderà tutti e tre’. E così mandò via suo
figlio, e Dighavu che aveva ricevuto una buona istruzione da suo padre, la
applicò con diligenza per imparare tutte le arti, diventando molto abile e
saggio.
“A quel tempo, il barbiere del Re Dighiti dimorava a Benares, e lui vide il
suo re, ed essendo di natura avida, lo tradì vendendolo al re Brahmadatta.
Quando il re di Kasi, Brahmadatta, sentì che il fuggitivo re di Kosala e la
sua regina, sotto falso nome stavano vivendo una quieta vita nella casa di
un vasaio, ordinò che essi fossero catturati e uccisi; e lo sceriffo a cui
fu dato l’ordine catturò Re Dighiti e lo condusse al luogo di esecuzione.
“Mentre il re prigioniero veniva condotto attraverso le strade di Benares,
vide suo figlio che era ritornato per far visita ai suoi genitori, e
preoccupato di non tradire la presenza di suo figlio, benché ansioso di
comunicargli il suo ultimo consiglio, egli gridò: ‘O Dighavu, figlio mio!
Non cercare di sapere, ma non essere neppure miope, perché l’odio non è
placato dall’odio; l’odio è placato solo dal non-odio!’.
“Il re e regina di Kosala furono giustiziati, ma il loro figlio Dighavu
comprò un vino molto forte e fece ubriacare le guardie. Quando arrivò la
notte lui pose i corpi dei suoi genitori su una pira funebre e li fece
ardere con tutti gli onori e riti religiosi. Quando il Re Brahmadatta lo
seppe, ne fu impaurito, perché pensò che Dighavu, il figlio di Re Dighiti,
era un giovane saggio e si sarebbe vendicato per la morte dei suoi genitori.
Con un’occasione favorevole, costui lo avrebbe senz’altro ucciso’.
“Il giovane Dighavu andò nella foresta per piangere tutto il suo dolore. Poi
lui asciugò le sue lacrime e ritornò a Benares. Sentendo che servivano
assistenti nella stalla degli elefanti reali, lui si offrì per dare i suoi
servigi e fu preso dal padrone degli elefanti. Ed accadde che il re,
sentendo nella notte una dolce voce che con il liuto cantava una bella
canzone, fu allietato nel suo cuore. Ed avendo chiesto fra i suoi attendenti
chi fosse il cantante, gli fu detto che il padrone degli elefanti aveva al
suo servizio un giovane di grandi meriti, adorato da tutti i suoi colleghi.
Essi dissero che lui era avvezzo a cantare col liuto, e che doveva esser
stato lui il cantante che aveva allietato il cuore del re.’
“Il re chiamò il giovane davanti a sé e, essendo molto compiaciuto con
Dighavu, gli diede lavoro al castello reale. Osservando come il giovane
agisse saggiamente, come fosse modesto eppure preciso nel suo lavoro, il re
ben presto gli diede una posizione di fiducia. Ora avvenne che il re andando
a caccia si separò dal suo seguito, ed il giovane Dighavu rimase da solo con
lui. Il re, stanco e distolto dalla caccia, posò la sua testa nel grembo del
giovane Dighavu e si addormentò.
“Dighavu pensò: ‘Le persone potranno pure perdonare il gran male che hanno
ricevuto, ma non si sentiranno mai a loro agio per il male che hanno
sofferto. Esse perseguiteranno le loro vittime ad una fine amara. Questo Re
Brahmadatta ci ha fatto un grande danno; egli ci ha rubato il nostro regno
ed ha ucciso mio padre e mia madre. Lui ora è in mio potere’. Così pensando
sguainò la sua spada. Poi Dighavu pensò alle ultime parole di suo padre.
‘Non cercare di sapere, ma non essere neppure miope, perché l’odio non è
placato dall’odio; l’odio è placato solo dal non-odio!’ – Pensando così, lui
mise di nuovo la sua spada nel fodero.
“Il re finito il suo sonno si svegliò agitato, e quando il giovane chiese,
‘Perché sei tu spaventato, o mio Re?’ lui rispose: ‘Il mio sonno è sempre
senza riposo perché io spesso sogno che il giovane Dighavu stia venendo da
me con la sua spada. Mentre ero qui con la mia testa appoggiata sul tuo
grembo, io ebbi di nuovo quel terribile sogno; e mi sono svegliato pieno di
terrore ed allarme’. Allora il giovane, posando la sua mano sinistra sulla
testa del re indifeso e con la spada nella sua mano destra, disse: ‘Io sono
Dighavu, il figlio di Re Dighiti, a cui tu hai rubato il regno ed ucciso
insieme con la sua regina, mia madre. So bene che l’uomo può superare l’odio
conservato a causa del male ricevuto, molto più facilmente di quello per il
male che ha fatto, e così non posso aspettarmi che tu avresti avuto pietà
per me; ma io ora ho un’opportunità per la vendetta’.
“Il re vedendo che era alla mercé del giovane Dighavu unì le sue mani e
disse: ‘O mio caro Dighavu, accordami la vita. Se tu mi lasci vivo, io ti
sarò per sempre grato.’ E Dighavu disse, senza amarezza o malavoglia: ‘Come
posso accordarti la vita, O Re, se la mia vita è messa in pericolo da te? Io
non voglio reclamare la tua vita. Sei tu, O Re, che devi accordarmi la mia
vita!”
“E il re disse: ‘Bene, mio caro Dighavu, allora tu accordami la mia vita, ed
io ti accorderò la tua’. Così, Re Brahmadatta di Kasi e il giovane Dighavu
accordarono l’un l’altro la propria vita e si presero la mano l’un l’altro e
giurarono di non fare più danno l’uno all’altro.
“Poi Re Brahmadatta di Kasi disse al giovane Dighavu: ‘Perché tuo padre nell’ora
della sua morte ti disse: ‘Non cercare di sapere, ma non essere neppure
miope, perché l’odio non è placato dall’odio; l’odio è placato solo dal
non-odio!’ “- cosa voleva dire tuo padre con ciò?’
“Il giovane rispose: ‘O re, quando mio padre nell’ora della sua morte disse:
‘Non cercare di sapere”, lui voleva dire, Non lasciarti prendere dall’odio.
E quando mio padre disse ‘Non essere miope”, lui voleva dire, non aver
fretta di andar fuori con i tuoi amici. E quando lui disse, ‘Perché non con
l’odio, l’odio è placato; l’odio è placato solo col non-odio’, lui intendeva
questo: ‘Tu, o Re, hai ucciso mio padre e mia madre, e se io dovessi
spogliarti della tua vita, poi i tuoi parenti a turno reclamerebbero la mia
vita; e i miei parenti di nuovo spoglierebbero le loro vite. Così dall’odio,
l’odio non sarebbe placato. Ma ora, O re, tu mi accordasti la mia vita, ed
io ti ho accordato la tua; così l’odio è stato placato dal non-odio!’
“Allora Re Brahmadatta di Kasi pensò: ‘Come è saggio il giovane Dighavu,
poiché lui ha capito la piena estensione del significato di ciò che suo
padre disse in modo conciso’. Ed il re gli restituì così il regno di suo
padre e gli diede in matrimonio sua figlia.”
Avendo finito la storia, il Beato disse: “Fratelli, voi siete i miei figli
legali nella fede, generata dalle parole della mia bocca. I figli non
dovrebbero calpestare sotto i piedi i consigli dati loro dal padre; d’ora
innanzi fate in modo di seguire le mie ammonizioni. Allora i bhikkhu si
riunirono in conferenza; essi poi discussero le loro diversità con reciproca
buona volontà, e la concordia del Sangha fu ristabilita.
I BHIKKHU RIMPROVERATI
Una volta, accadde che il Beato camminava sù e giù all’aperto e senza
scarpe. Quando gli anziani videro che il Beato camminava scalzo, misero via
le loro scarpe e fecero la stessa cosa. Ma i novizi non tennero conto
dell’esempio degli anziani e tennero le scarpe ai loro piedi.
Qualcuno del fratelli osservò il comportamento irriverente dei novizi e lo
disse al Beato; ed il Beato rimproverò i novizi e disse: “Se i fratelli,
addirittura mentre io sto ancora vivendo, mostrano così poco rispetto e
cortesia l’un verso l’altro, cosa faranno quando io sarò trapassato?”
Il Beato era pieno di ansia per il bene della verità; così continuò:
“Perfino i laici, o bhikkhu, che si muovono nel mondo impegnandosi nell’arte
manuale che può loro procurare di che vivere, saranno rispettosi,
affettuosi, ed ospitali verso i loro insegnanti. Perciò voi, o bhikkhu, fate
in modo che la vostra luce risplenda, voi che avete lasciato il mondo e
dedicato la vostra intera vita alla religione ed alla disciplina religiosa,
potete osservare le regole della decenza, siate rispettosi, affettuosi, ed
ospitali verso i vostri insegnanti e superiori, o quelli riconosciuti come
vostri insegnanti e superiori. Il vostro comportamento, o bhikkhu, non
produce la conversione di coloro che devono essere convertiti né all’aumento
del numero dei fedeli. O bhikkhu, tutto ciò serve a respingere coloro che
devono essere convertiti e ad alienarli. Io vi esorto ad essere più
premurosi in futuro, più ragionevoli e rispettosi”.
LA GELOSIA DI DEVADATTA
Quando Devadatta, figlio di Suprabuddha e di un fratello di Yasodhara, e
perciò cognato del Beato, divenne un suo discepolo, aveva la speranza di
raggiungere gli stessi onori e riconoscimenti di Siddhartha Gotama. Restando
deluso nelle sue ambizioni, concepì nel suo cuore odio e gelosia e, tentando
di superare in virtù il Perfetto, egli trovò difetti nelle sue regole e lo
biasimò come troppo clemente.
Devadatta andò a Rajagraha e ottenne l’ascolto di Ajatasattu, il figlio del
Re Bimbisara. Ed Ajatasattu costruì un nuovo vihara per Devadatta, e fondò
una sètta i cui discepoli furono impegnati con regole severe e
auto-mortificazione.
Ben presto, il Beato stesso venne a Rajagraha e rimase un po’ al
Veluvana-vihara. Devadatta chiamò il Beato, chiedendogli di sanzionare le
sue regole con più severità, con cui potersi procurare una più grande
santità. “Il corpo”, lui disse, “consiste di trenta-due parti e non ha
attributi divini. È concepito nel peccato e nato nella corruzione. I suoi
attributi sono la predisposizione al dolore e la dissoluzione, perciò è
impermanente. È il ricettacolo del karma, che è la causa delle nostre
precedenti esistenze; è il luogo di dimora del peccato e delle malattie ed i
suoi organi emettono continuamente disgustose secrezioni. La sua fine è la
morte e la sua mèta il cimitero. Tale essendo la condizione del corpo, è
d’uopo trattarlo come una carcassa piena di abominevoli sozzure e vestirlo
solamente di stracci raccolti dai cimiteri o dai mucchi di immondizia”.
Il Beato disse: “Invero, il corpo è pieno di impurità e la sua fine è l’ossario,
perché è impermanente e destinato ad essere dissolto nei suoi elementi. Ma
essendo il ricettacolo del karma, sta in nostro potere farne un vaso di
verità e non di male. Non è bene indulgere nei piaceri del corpo, ma nemmeno
è bene trascurare le nostre necessità fisiche ed ammucchiare sozzura sulle
impurità. La lampada che non è pulita e non è piena di petrolio si spegnerà,
ed un corpo che è arruffato, sporco, ed indebolito dalle penitenze non sarà
un appropriato ricettacolo per la luce della verità. Fate attenzione al
vostro corpo ed alle sue necessità, così come trattereste una ferita di cui
vi preoccupate, pur senza amarlo. Regole più severe non serviranno a
condurre i discepoli sul sentiero mediano, che io ho insegnato. Certamente,
nessuno può essere prevenuto dal tenere regole più severe, se vede l’utilità
di farlo, ma non si dovrebbe imporle a nessuno, perché esse non sono
necessarie.”
Così il Tathagata rifiutò la proposta di Devadatta; e Devadatta lasciò il
Buddha ed andò nel vihara sparlando male del sentiero di salvezza del
Signore, come troppo clemente ed insieme insufficiente. Quando il Beato
seppe gli intrighi di Devadatta, disse: “Fra gli uomini non c’è nessuno che
non sia biasimato. La gente biasima sia chi siede silenzioso e sia chi
parla, essi poi biasimano anche colui che predica il sentiero mediano.”
Devadatta istigò Ajatasattu ad andare contro il il re suo padre, Bimbisara,
così che il principe non fosse più soggetto a lui. Bimbisara fu imprigionato
da suo figlio in una torre, dove morì, lasciando il suo regno di Magadha al
figlio Ajatasattu.
Il nuovo re ascoltò i cattivi consigli di Devadatta, e diede ordini di
reclamare la vita del Tathagata. Tuttavia, gli assassini mandati per
uccidere il Signore, non poterono compiere la loro cattiva azione perché si
convertirono appena lo videro ed ascoltarono la sua predica. La roccia
lanciata in giù da un precipizio sopra il grande Maestro si divise in due, e
i due pezzi passarono da entrambi i lati senza fare alcun danno. Nalagiri,
l’elefante selvaggio lasciato sciolto al fine di uccidere il Signore, in sua
presenza divenne gentile; ed Ajatasattu, patendo grandemente i tormenti
della sua coscienza, andò dal Beato e cercò la pace dalla sua angoscia.
Il Beato ricevette gentilmente Ajatasattu e gli insegnò il metodo della
salvezza; ma Devadatta tentò ancora di diventare fondatore di una sua
propria scuola religiosa. Però, Devadatta non riuscì nei suoi piani e fu
abbandonato da molti dei suoi discepoli, precipitò ammalato, e poi si pentì.
Egli implorò quelli che erano rimasti con lui di portare il suo letto dal
Buddha, dicendo: “Figli miei, portatemi da lui; sebbene io sia stato cattivo
con lui, sono sempre suo cognato. Grazie alla nostra relazione il Buddha mi
salverà”. E loro eseguirono, anche se di malavoglia.
Devadatta era impaziente di vedere il Beato sorgere vicino al suo letto, ma
poi i suoi corrieri se ne lavarono le mani. Poi i suoi piedi presero fuoco
sotto di lui; egli sprofondò in terra; e, cantando un inno sul Buddha, morì.
NOME E FORMA
In una occasione, il Beato entrò nella sala dell’assemblea ed i fratelli
interruppero la loro conversazione. Quando l’ebbero salutato a mani giunte,
essi si sedettero e rimasero composti. Allora il Beato disse: “Le vostre
menti sono infiammate da un intenso interesse; quale era il tema della
vostra discussione?”
Sariputta si alzò e parlò: “Maestro Onorato dal Mondo, era la natura della
propria esistenza come uomini. Noi stavamo tentando di afferrare la mistura
del nostro proprio essere, che è stato chiamato ‘Nome e Forma’. Ogni essere
umano consiste di formazioni, e ci sono tre gruppi che non sono corporei.
Essi sono la sensazione, la percezione, e le predisposizioni o tendenze;
tutte e tre costituiscono la mente o coscienza, essendo comprese sotto il
termine ‘Nome’. E vi sono quattro elementi, l’elemento terra, l’elemento
acqua, l’elemento fuoco, e l’elemento aria, e questi quattro elementi
costituiscono la forma fisica o corporea dell’uomo, essendo tenuti insieme
di modo che questa macchina si muova come un burattino. Come questo ‘nome e
forma’ resiste e come può vivere?”
Il Beato rispose: “La vita è istantanea e chi vive sta già morendo. Proprio
come una ruota rotolante del carro rotola solo in un certo punto del
cerchio, e quando rimane ferma resta solamente in un certo punto;
precisamente allo stesso modo, la vita di un essere vivente dura soltanto
per il tempo di un solo pensiero. E’ detto che appena quel pensiero è
cessato anche l’essere cessa. Com’è stato inoltre detto: ‘L’essere di un
momento di pensiero passato ha vissuto, ma non vive più, né vivrà. L’essere
di un momento di pensiero futuro vivrà, ma non ha vissuto, né vive. L’essere
del momento di pensiero presente vive, ma non ha vissuto, né vivrà’
“Riguardo a ‘Nome e Forma’, noi dobbiamo capire come interagiscono. Il Nome
non ha suo proprio potere, né può seguire il suo proprio impulso, come
mangiare o bere, o emettere suoni, o fare un movimento. Anche la Forma è
senza il potere e non può seguire il suo proprio impulso. Non ha nessun
desiderio di mangiare, o bere, o emettere suoni, o fare un movimento. Ma la
Forma lo esegue, quando è sostenuta dal Nome, e il Nome quando è sostenuto
dalla Forma. Quando il Nome ha un desiderio di mangiare, o bere, o emettere
suoni, o fare un movimento, allora la Forma mangia, beve, emette suoni, e fa
un qualche movimento.
“È come se due uomini, uno cieco dalla nascita e l’altro zoppo, fossero
desiderosi di viaggiare, e l’uomo cieco dalla nascita dicesse allo zoppo:
‘Guarda! Io sono in grado di usare le mie gambe, ma non ho occhi con cui
vedere i luoghi ruvidi e quelli lisci nella strada’. E lo zoppo dicesse
all’uomo cieco dalla nascita: ‘Guarda! Io sono capace di usare i miei occhi,
ma non ho gambe con cui andare avanti ed indietro’. E l’uomo cieco dalla
nascita, assai lieto e contento facesse salire lo zoppo sulle sue spalle. E
lo zoppo seduto sulle spalle dell’uomo cieco dalla nascita lo guidasse,
dicendo, ‘Lascia la sinistra e vai sulla destra; lasci la destra e vai sulla
sinistra!’.
“Qui l’uomo cieco dalla nascita è debole, senza il suo proprio potere, e non
può andare da nessuna parte di sua propria volontà o forza. Anche lo zoppo è
debole e senza il suo proprio potere, e non può andare da nessuna parte di
sua propria volontà o forza. Eppure, quando si sostengono mutuamente l’un
l’altro, per loro non è impossibile andare da qualunque parte. Precisamente
allo stesso modo, il Nome è senza il suo proprio potere, e non può saltare
su di sua propria forza, né compiere questa o quell’azione. Anche la Forma è
senza il suo proprio potere, e non può saltare su di sua propria forza, né
compiere questa o quell’azione. Eppure quando si sostengono mutuamente l’un
l’altra, per loro non è impossibile saltare su e proseguire.
“Non c’è nessuna materia che esiste per produrre Nome e Forma; e quando Nome
e Forma cessano, non vanno in nessun posto nello spazio. Dopo che Nome e
Forma sono cessati, essi non esistono più in nessun luogo, nulla più dei
cumuli di materia musicale. Quando si suona un liuto, non c’è nessun
precedente accumulo di suono; e quando la musica cessa non va in nessun
luogo nello spazio. Quando la musica è cessata, non esiste nessun luogo in
cui poterla immagazzinare. Essendo stata non-esistente prima, essa entrò in
esistenza grazie alla dura struttura del liuto ed alla bravura del
suonatore; e come è entrata in esistenza così svanisce. Allo stesso modo,
tutti gli elementi dell’essere, corporei e non-corporei entrano in esistenza
dopo essere stati non-esistenti in precedenza; ed essendo entrati nella
esistenza, prima o dopo svaniscono.
Non c’è un ‘sé’ che risiede in Nome e Forma, ma la cooperazione delle
formazioni produce ciò che le persone chiamano ‘un uomo’. Proprio come la
parola ‘il carro’ non è che una maniera di esprimere le assi, le ruote, il
corpo del carro e gli altri costituenti, nella loro corretta combinazione,
così un essere vivente è l’apparenza degli aggregati insieme coi quattro
elementi, nel modo in cui essi si sono riuniti in un’unità. Non c’è nessun
‘sé’ nella carrozza e nessun ‘sé’ nell’uomo. O Bhikkhu, questa dottrina è
sicura ed è una verità eterna, che non c’è nessun ‘sé’ aldifuori delle sue
parti. Questo nostro ‘sé’, che è ciò costituisce Nome e Forma, è una
combinazione degli aggregati con i quattro elementi, ma non c’è l’entità di
un ego, nessun ‘sé’ in se stesso.
“Benché possa sembrare paradossale: C’è un sentiero su cui camminare, c’è un
cammino che viene fatto, ma non c’è un viaggiatore. Ci sono atti che vengono
fatti, ma non c’è chi li fa. C’è un soffiare dell’aria, ma non c’è nessun
vento che soffia. Il pensiero del ‘sé’ è un errore e tutte le esistenze sono
vuote come l’albero di piantaggine, e vuote come bolle d’acqua.
“Perciò, o bhikkhu, poiché non vi è nessun ‘sé’, non c’è trasmigrazione di
un ‘sé’; ma ci sono le azioni e l’effetto continuato delle azioni. C’è la
rinascita di un karma; c’è la reincarnazione. Questa rinascita, questa
reincarnazione, questa riapparizione delle formazioni è continua e costante,
e dipende dalla legge di causa ed effetto. Proprio come un sigillo è
impresso sulla cera che riproduce le configurazioni della sua struttura,
così i pensieri degli uomini, i loro caratteri, le loro aspirazioni sono
impresse su altri esseri, in un continuo trasferimento, e continuano il loro
karma, e le buone azioni continueranno nelle benedizioni, mentre quelle
cattive avranno continuità nelle maledizioni.
“Qui non c’è un’entità che emigra, nessun ‘sé’ è trasferito da un luogo ad
un altro; ma qui c’è una voce che è emessa e il suo eco che ritorna. Il
maestro pronuncia una strofa ed il discepolo che attentamente ascolta
l’istruzione del suo insegnante, ripete la strofa. Così la strofa è rinata
nella mente del discepolo. Il corpo è un composto di organi deteriorabili. È
soggetto al decadimento; e noi dovremmo prenderci cura di esso come una
ferita o un dolore; dovremmo fare attenzione alle sue necessità senza
esserne legati, e senza doverlo necessariamente adorare. Il corpo è come una
macchina, in esso non c’è nessun ‘sé’ che lo fa camminare o agire, ma sono i
pensieri che, come l’elemento del vento, fanno sì che la macchina lavori. Il
corpo si muove proprio come un carro. Perciò è detto:
“Come le navi sono spinte dal vento che soffia sulle vele,
“Come le frecce volano da un arco con la corda metallica,
“Così, quando la forza del pensiero lo dirige,
“Il corpo, mettendosi in moto, prosegue l’andare.
“Proprio come macchine che sono mosse da corde,
“Così sono i meccanismi e le cavità del corpo;
“Obbedienti allo stimolo potente della mente,
“I nostri muscoli e le nostre membra si muovono.
“Qui non c’è nessun ‘sé’ o ‘Io’ indipendente,
“Ma molte forze mobili riunite insieme;
“Il nostro carro è maneggiato dalla mente,
“Ed il nostro karma, sono i cavalli di questo carro”.
“Solo colui che all’improvviso abbandona ogni pensiero di ego, potrà
sfuggire le trappole del Male ed è fuori della portata di Mara. Così il
tentatore che promette il piacere dice:
“Finché a quelle cose chiamate ‘Io’ ed ‘il mio’,
“Il vostro cuore affamato ancora si aggrappa –
“Tutte le mie trappole voi non potrete sfuggire”.
“Il fedele discepolo risponde: niente ‘io’ e niente ‘mio’,
“La mente non è il ‘sé’! Così Mara, io dico a te,
“Il mio sentiero tu non potrai mai scovare! “.
“Eliminate l’errore del ‘sé’ e non aggrappatevi ai possessi che sono
transitori, ma compite atti che sono buoni, perché le buone azioni danno
frutti e il vostro karma continua negli atti.
“Poichè, allora, o bhikkhu, non c’è nessun ‘sé’, non ci può essere un ‘dopo
la vita’ del ‘sé’. Perciò abbandonate ogni pensiero del ‘sé’. Ma poiché ci
sono gli atti e poiché gli atti hanno una continuità, siate accurati coi
vostri atti. Tutti gli esseri hanno il karma come loro origine: essi sono
eredi del loro karma; essi sono nati dal loro karma; il loro karma è il loro
genitore; il loro karma è il loro rifugio; è il karma che destina gli esseri
alla meschinità o alla grandezza.
“In vita con le ultime doglie, assalito dalla morte,
“Per far finire tutte le tue gioie e i tuoi dolori,
“Cos’è che possiedi, qual è il tuo compenso?
“Cosa ti resterà, quando sarai andato via da qui?
“Che cos’è che, come un’ombra, sempre ti segue
“E anche nell’Aldilà sarà la tua sola eredità?
“Sono solo i tuoi atti, sia buoni che cattivi;
“Niente altro può essere, dopo la tua morte.
“I tuoi atti sono la tua unica ricompensa;
“Essi sono i tuoi possessi, quando andrai via da qui;
“Essi sono la tua ombra, che sempre ti segue
“E anche nell’Aldilà sarà la tua sola eredità.
“Allora, lascia tutto qui e compi buone azioni,
“Per il futuro benessere, metti da parte un tesoro;
“C’è da raccogliere una messe di semi nobili,
“Che è una beatitudine che aumenta sempre”.
LA META
Il Beato così si rivolse ai bhikkhu: “E’ attraverso la non-comprensione
delle quattro nobili verità, o bhikkhu, che noi dovremmo vagare a lungo nel
faticoso sentiero del samsara, voi ed io.
“Attraverso il contatto il pensiero è nato dalla sensazione, ed è rinato da
una riproduzione della sua forma. Cominciando dalle forme più semplici, la
mente si eleva e cade secondo le azioni, ma le aspirazioni di un Bodhisattva
perseguono il retto sentiero della saggezza e della rettitudine, finché
raggiungono la perfetta Illuminazione nel Buddha.
“Tutte le creature sono quelle che sono, attraverso il karma dei loro atti
fatti nelle esistenze precedenti ed in quella presente.
“La natura razionale dell’uomo è una scintilla di vera luce; è il primo
passo sulla Via diretta verso l’alto. Ma nuove rinascite sono richieste per
assicurare un’ascesa verso la vetta dell’esistenza, l’Illuminazione di cuore
e mente, in cui è ottenuta l’incommensurabile luce della comprensione
morale, che è la fonte di ogni virtù. Avendo raggiunto questa rinascita più
elevata, io ho trovato la verità e vi ho insegnato il nobile sentiero che
conduce alla Città della Pace. Io vi ho mostrato la Via verso il lago di
ambrosia che lava via ogni desiderio malvagio. Io vi ho dato la rinfrescante
bevanda chiamata ‘percezione della verità’, e colui che la beve diviene
libero da eccitazioni, passioni e azioni sbagliate.
“Molti dèi invidiano la beatitudine di colui che è sfuggito dai flussi delle
passioni e ha scalato le scogliere del Nirvana. Il cui cuore è libero da
tutte le illusioni e purificato da ogni contaminazione. Egli è come il loto
che cresce nell’acqua, anche se neppure una goccia di acqua aderisce ai suoi
petali. L’uomo che cammina sul nobile sentiero vive nel mondo, eppure il suo
cuore non è contaminato da desideri mondani.
“Colui che non vede le quattro nobili verità, che non capisce le tre
caratteristiche e che non è radicato nell’Increato, ha ancora un lungo
sentiero da attraversare con ripetute nascite attraverso il deserto
dell’ignoranza, coi suoi miraggi illusori, ed attraverso la palude del male.
Ma ora che voi avete ottenuto la comprensione, la causa di ulteriori
migrazioni e aberrazioni è rimossa. La meta è raggiunta. La bramosia
dell’egoismo è distrutta, la verità è ottenuta. Questa è vera liberazione;
questa è la salvezza; questo è il paradiso e la beatitudine di una vita
immortale.”
MIRACOLI PROIBITI
Jotikkha, figlio di Subhadra, era un capofamiglia che viveva in Rajagraha.
Avendo ricevuto una preziosa ciotola di sandalo decorata con gioielli, egli
eresse un lungo palo davanti alla sua casa e mise la ciotola sulla cima con
questa leggenda: ‘Se un samana dovesse prendere questa ciotola senza usare
una scala o un bastone con un gancio, o senza scalare il palo, bensì con un
potere magico, egli riceverà come ricompensa qualunque cosa desidera’.
La gente si rivolse al Beato, piena di meraviglia e dicendo con parole di
encomio: “Grande è il Tathagata. I suoi discepoli compiono miracoli.
Kassapa, il discepolo del Buddha vide la ciotola sul palo di Jotikkha e,
protendendo la sua mano, lui la prese giù, trasportandola trionfante al
vihara”.
Allorché il Beato seppe ciò che era accaduto, andò da Kassapa e, rompendo la
ciotola in pezzi, proibì ai suoi discepoli di compiere miracoli di alcun
genere.
Poco dopo questo fatto, in una delle stagioni piovose successe che molti
bhikkhu stavano nel territorio di Vajji durante una carestia. Ed uno dei
bhikkhu propose ai suoi fratelli che essi avrebbero dovuto lodarsi l’un
l’altro davanti ai padroni di casa del villaggio, dicendo: “Questo bhikkhu è
un santo; lui ha visto visioni celestiali; e quel bhikkhu possiede doni
soprannaturali; lui può operare miracoli.” E gli abitanti di un villaggio
dissero: “È una fortuna per noi, che tali santi stiano passando con noi la
stagione piovosa.” E così fecero volentieri abbondanti offerte, ed i bhikkhu
prosperarono e non patirono la carestia.
Quando il Beato lo seppe, disse ad Ananda di riunire i bhikkhu, e poi chiese
loro: “Ditemi, o bhikkhu, quand’è che un bhikkhu cessa di essere un
bhikkhu?”
E Sariputta rispose: “Un discepolo ordinato non deve commettere atti
impudici. Il discepolo che commette un atto impudico non è più un discepolo
del Sakyamuni. Ancora, un discepolo ordinato non deve prendere nulla se non
quello che gli viene dato. Il discepolo che da solo prende, sia pure poco,
non è più un discepolo del Sakyamuni. E un discepolo ordinato non deve, di
proposito e infine malignamente, spogliare della vita alcuna creatura
innocua, neanche un lombrico o una formica. Il discepolo che di proposito e
malignamente spoglia qualche creatura innocua della sua vita non è più un
discepolo del Sakyamuni. Queste sono le tre grandi proibizioni”.
Ed il Beato indirizzandosi ai bhikkhu, disse: “C’è un’altra grande
proibizione che io vi dichiaro: Un discepolo ordinato non deve vantarsi di
alcun potere sovrumano. Il discepolo che si vanta di un potere sovrumano,
con intenzione malvagia e bramosa, sia di visioni celestiali o miracoli, non
è più un discepolo di Sakyamuni. Io vi proibisco, o bhikkhu, di applicare
incantesimi o suppliche perché sono inutili, e perché la legge del karma
governa tutte le cose. Colui che tenta di compiere miracoli non ha capito la
dottrina del Tathagata.”
…
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