di Vajra Karuna
Il tema di oggi è intitolato: “Cosa è meglio: l’illuminazione graduale o
quella istantanea?”.
Per cominciare, voglio affermare che nessuna è meglio dell’altra, perché
entrambe si basano su concezioni metafisiche del mondo e della natura umana
molto diverse. Quindi, è impossibile classificarle come “superiore” o
“inferiore”. Inoltre, devo specificare che, sebbene l’illuminazione
istantanea è associata alle scuole Soto (in cinese: Tso-Tsung), Rinzai
(Lin-Chi) e Zen (Ch’an), questo articolo tratta solo del significato
attribuitole dalla scuola Rinzai, che non coincide esattamente con quello
della Soto.
Prima di paragonare tra loro l’illuminazione graduale e quella istantanea,
devo darvi una definizione dell’esperienza minima di illuminazione (kensho o
satori). Questa definizione non è l’unica possibile e altre possono
competere con essa, soprattutto perché è molto influenzata dalla tradizione
Rinzai. L’esperienza dell’illuminazione è un’esperienza singolarmente
intensa, che rivela a una persona il suo posto nello schema delle cose.
Essa è, molto spesso, un’esperienza definitiva grazie alla quale colui (o
colei) che esperimenta non dubiterà mai più della propria relazione con se
stesso/a, gli altri, il mondo e qualunque cosa si ritenga esistere al di là
di quest’ultimo. Tale esperienza conferisce un grande potere ed è
enormemente convalidante; inoltre, è diversa da tutte le altre esperienze
possibili. Un aspetto importante di essa è il suo essere non-settaria. Vale
a dire, questa esperienza è rinvenibile nel buddismo, nel cristianesimo,
nell’induismo, nell’Islam e in molte altre tradizioni religiose.
Ogni tradizione può imporle la sua interpretazione dogmatica, ma
l’esperienza
iniziale, dal punto di vista psicologico, sembra trans-culturale. Per
finire, questa esperienza può verificarsi in molte circostanze diverse, ma
nella maggior parte dei casi accade come conseguenza di qualche grave crisi
intellettuale, emotiva o fisica. Se si leggono i resoconti di queste
esperienze di risveglio nelle vite dei ricercatori più o meno famosi, ci si
accorgerà che tali crisi possono manifestarsi come un dubbio profondo sulla
giustizia divina, una malattia che mette a rischio la vita, uno stato di
disperazione per la perdita di una persona amata, un’esperienza vicina alla
morte o addirittura un tentativo di suicidio.
Si noti che la definizione di kensho o satori non dice nulla sulla capacità
di colui che esperimenta di insegnare o sostenere in qualche modo i bisogni
spirituali altrui. A questo proposito, occorre fare una netta distinzione
tra una persona che ha un’esperienza di illuminazione e una persona
illuminata. Quest’ultima categoria andrebbe limitata a quegli individui che
possiedono la saggezza e il carattere morale per influenzare correttamente
gli altri, oltre alla capacità carismatica di fare ciò senza sfruttare in
alcun modo le persone.
Questa è la definizione di un saggio illuminato o di un santo. Una persona
simile può aver avuto un’esperienza di illuminazione, istantanea o graduale,
oppure può godere di una maturità spirituale naturale, che esclude il
bisogno di un’esperienza di satori. Ma se vogliamo fare affidamento sulle
fonti storiche, un saggio naturale è molto più raro del saggio che ha
bisogno di un’esperienza dell’illuminazione.
D’ora in poi, comunque, parlerò solo dell’esperienza dell’illuminazione in
sé, senza fare ulteriori distinzioni tra i saggi e i non saggi. Avendo
definito l’illuminazione per gli scopi di questa conferenza, è ora tempo di
spiegare cosa significa illuminazione “istantanea” o “graduale”.
A differenza della maggior parte delle scuole buddiste, di solito definite
“scuole dell’illuminazione graduale”, lo zen (parola con cui, d’ora in poi,
si indicherà lo zen Rinzai) viene definito “scuola dell’illuminazione
istantanea”. Tutte le scuole buddiste concordano sul fatto che l’esperienza
dell’illuminazione, nel momento in cui avviene, è istantanea, ma questo non
è l’unico significato di “istantanea” nel contesto dell’omonima scuola.
Fin dalle origini, nel buddismo sono esistite due interpretazioni del
processo dell’illuminazione. Nella prima, il mondo viene considerato un
luogo di frustrante impermanenza e inappagamento (dukkha), mentre la natura
umana è il prodotto di secoli di attaccamento karmico a passioni impure. In
quest’ottica, l’illuminazione indica la conquista e l’estinzione di tali
impurità, oltre alla conseguente evasione dalla vita, il mondo e il dukkha.
Per ottenere questa liberazione, è necessario vivere senza fissa dimora e
condurre una vita ascetica nella quale i desideri e i bisogni umani vengono
dissolti per trascendere le passioni e i sentimenti comuni dell’uomo, sia
positivi che negativi.
L’amore, così come l’odio, tiene attaccati al mondo; solo colui che riesce a
restare indifferente a entrambi può definirsi un essere illuminato o libero
dalle passioni (Arahat o Buddha). Il processo di illuminazione che si
accompagna a questa concezione richiede un lungo e graduale percorso di
disciplina ascetica, che conduce a stadi progressivi di illuminazione.
Ciascuno stadio è caratterizzato da un attaccamento, al sé e al mondo,
inferiore di quello precedente. Nella maggior parte dei casi, in questa
concezione l’illuminazione non è qualcosa di raggiungibile da un comune
laico. Questo concetto della gradualità è giustificato se ci si attiene a
un’interpretazione
pluralista della realtà, come faceva il buddismo primitivo.
Ma esiste anche il secondo punto di vista buddista, che afferma che il
nostro dukkha è dovuto all’illusione in un sé separato e autonomo.
L’illuminazione,
in tal caso, vuol dire abbandonare questo concetto irreale del sé o “senso
dell’io ingrandito”, risvegliandoci alla realtà della sua illusione. Il
problema insito nell’approccio dell’illuminazione graduale, per quanto
riguarda questo falso io, è il fatto che l’affermazione: “Sto cercando
l’illuminazione”
in realtà rinforza il senso dell’io.
Quindi, presumibilmente, più una persona pratica, più profonda si fa
l’illusione
di un sé separato e autonomo, e tanto più si allontana l’illuminazione. Il
buddismo mahayana si è sviluppato estendendo a tutta la realtà questa
concezione secondo cui non esiste un autentico sé indipendente. Ciò comportò
l’abbandono dell’interpretazione pluralista della realtà a favore di una
non-duale.
Ovvero, ogni parte della realtà è così totalmente integrata che non può
essere divisa in alcun modo, soprattutto in sé separati. Poiché ogni dualità
è illusoria, non può esserci dualità nemmeno tra la mente samsarica,
non-illuminata o impura, e la mente nirvanica, illuminata e pura. Dal
momento che la realtà non-duale non può essere divisa in parti incrementali,
è impossibile comprenderla poco a poco, come richiede l’approccio graduale
all’illuminazione. Il non-duale va realizzato nel suo insieme
(istantaneamente) come un tutto, o non lo si realizza affatto. Comunque,
poiché il mahayana primitivo conservò la diffusa idea indiana secondo cui le
passioni umane sono impure, dovette ignorare l’incoerenza tra una filosofia
non-duale e l’illuminazione graduale.
Quando il buddismo entrò in Cina, questa incoerenza divenne un problema. La
causa di ciò fu il modo decisamente non-indiano in cui i cinesi
consideravano il mondo e la natura umana. A differenza del pensiero indiano,
che dava la priorità all’elemento della realtà divino o trans-umano, il
pensiero cinese assegnava la priorità al mondo umano. Secondo la
tradizionale concezione cinese, la gente nasce con un innato senso del bene,
del vero e del puro, le comuni passioni umane sono parte di questa bontà e
un saggio illuminato è colui che accetta tutto ciò.
La primitiva filosofia buddista, che considerava impuro il samsara e puro il
nirvana, non poteva essere accettata fino in fondo dai cinesi senza
abbandonare prima la tradizione confuciana e taoista, molto più positiva. Ma
l’insegnamento mahayana secondo cui il samsara e il nirvana erano la stessa
cosa s’integrò facilmente nella filosofia tradizionale cinese. Se le
passioni samsariche sono contenute nel nirvana e viceversa, l’illuminazione
non richiede una dissoluzione graduale dei comuni sentimenti, bisogni e
desideri umani.
L’illuminazione vuol dire semplicemente diventare consapevoli del fatto che
si è già nello stato incondizionato del nirvana. Quindi l’illuminazione,
anziché sostituire la natura umana con una natura trans-umana libera dalle
passioni (come nel tradizionale buddismo indiano), non fa che aggiungere
all’ordinaria
condizione umana la consapevolezza non-duale della propria innata purezza
nirvanica.
I cinesi, accettando la filosofia non-duale mahayana, videro con grande
chiarezza l’incoerenza tra la non-dualità e l’illuminazione graduale. Questa
percezione fu rinforzata dal fatto che il taoismo, la cui filosofia della
realtà era a sua volta non-duale, era più incline all’approccio
dell’illuminazione
istantanea. Per questo, la scuola dell’illuminazione istantanea finì per
dominare il pensiero cinese, sia buddista che non buddista. Poiché
l’illuminazione
istantanea non richiede una graduale purificazione monastica, essa può
succedere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, in ambiente monastico o
normalmente domestico. Questo piacque molto ai cinesi, poco inclini
all’ascetismo.
In tal modo, chiunque, persino la persona più attaccata al mondo, può
sperimentare lo stato di illuminazione. Naturalmente, questa possibilità ha
senso solo se l’illuminazione non dipende da alcun tipo di pratica ascetica,
nemmeno dai comuni freni morali dell’individuo medio. In ultima analisi, una
tale illuminazione istantanea deve essere conseguita a prescindere da
qualsiasi sforzo ascetico o addirittura meditativo.
In realtà, tale sforzo sarebbe appropriato solo per l’illuminazione
graduale. L’illuminazione istantanea, non dipendendo dalla pratica, deve
quindi essere più o meno accidentale. La differenza tra i punti di vista
“istantaneo” e “graduale” determina il modo in cui ciascuna tradizione
considera non solo l’illuminazione, ma anche il Buddha. La scuola “graduale”
giudica l’illuminazione come qualcosa che ci rende persone molto migliori,
considerando il Buddha superiore a tutti gli altri esseri. Per la scuola
“istantanea”, l’essere illuminati non rende più elevati o più importanti
delle persone non illuminate. Poiché sia l’illuminato che il non illuminato
hanno la stessa natura del Buddha o del nirvana dentro di sé, entrambi
possiedono naturalmente lo stesso valore e le stesse virtù. Se non abbiamo
bisogno dell’illuminazione per diventare migliori, secondo la scuola
istantanea, il Buddha è semplicemente un primo tra uguali.
In realtà, questo punto di vista “istantaneo” della buddità afferma che il
nostro dukkha, o l’attaccamento pieno di paura alla vita e alla morte,
avviene perché dubitiamo del nostro valore presente e assolutamente
incondizionato (la natura di Buddha). “Illuminazione” vuol dire lasciare
andare completamente questo dubbio per comprendere intuitivamente la nostra
parità con il Buddha.
Una volta liberati dal nostro dukkha, siamo soddisfatti di noi stessi e
degli altri così come siamo.
Nella scuola istantanea, una semplice comprensione intellettuale di quanto
appena detto costringe ad abbandonare l’orgoglio insito nello sforzo di
raggiungere l’illuminazione. Questa mancanza di orgoglio, o questa umiltà,
dovuta alla caratteristica natura accidentale dell’illuminazione istantanea,
è un modo di lasciare andare il sé come fonte del dukkha; quindi, di fatto,
è una sorta di illuminazione prima dell’illuminazione. Per alcune persone,
questa è già un’illuminazione sufficiente, mentre per altre significa
maggiori possibilità di risvegliarsi a qualcosa di più grande. Ciò diventa
particolarmente vero con un’adeguata pratica preliminare. La pratica
preliminare va chiaramente distinta da quella che implica l’illuminazione
graduale. Nessuna forma di pre-illuminazione è un requisito
dell’illuminazione
istantanea, tanto meno una causa o una garanzia; ciononostante, essa svolge
un’importante funzione. L’illuminazione istantanea può accadere a una
persona, ma se quest’ultima non è preparata a riconoscerla e – fatto più
importante – a integrarla nel suo essere psicologico di tutti i giorni,
quasi sicuramente verrà solo per scivolare via.
A questo proposito, possiamo fare un’analogia con la pioggia. La pioggia,
come l’illuminazione istantanea, non può essere forzata; arriva da sola.
Inoltre, quando cade, lo fa indifferentemente su terreno fertile e su quello
improduttivo. Se cade sul primo, le piante crescono in modo lussureggiante;
sul secondo, non si avrà altro che terreno umido. Coltivare una pratica di
pre-illuminazione vuol dire assicurarsi un terreno fertile quando la pioggia
dell’illuminazione istantanea cadrà; non avere alcuna pratica vuol dire
quasi sicuramente perdere ciò che si sperava di ottenere. Questa pratica
preliminare non va considerata un avvicinamento graduale all’illuminazione,
perché in essa non esistono stadi.
In altre parole, a differenza di una pratica orientata verso l’illuminazione
graduale, in cui di solito è possibile scorgere dei progressi (come un
distacco sempre maggiore dal mondo) nessun avanzamento è evidente in una
pratica istantanea. In più, mentre una pratica a orientamento graduale di
solito presuppone un lungo periodo di tempo (ci vogliono molti anni prima
che siano visibili dei risultati), la stessa cosa non è vera per una pratica
non graduale.
Poiché l’illuminazione istantanea non dipende da alcun tipo di pratica, e
può giungere con o senza quest’ultima, l’illuminazione potrebbe irrompere
dopo un solo giorno o non arrivare neppure dopo molti anni. Per questa
ragione, una pratica non graduale può essere molto più frustrante di una
pratica che mostri chiari progressi verso la meta.
Comunque, il vantaggio di una pratica non graduale (e di fatto una delle
ragioni della sua diffusione) è che essa è effettuabile sia all’interno che
all’esterno di un monastero. Questo è specialmente vero per una specifica
pratica non graduale, il classico Kung-an cinese (ma non necessariamente per
il koan giapponese).
Naturalmente, il paradosso di una pratica di pre-illuminazione volta
all’illuminazione
istantanea è che essa implica nulla di meno che la frustrante esperienza di
ricercare ciò che già si ha, cioè il valore incondizionato del Buddha.
Questo vuol dire chiedersi costantemente: “Perché sto facendo ciò?”, “Perché
la mia mente non mi lascia sperimentare la mia vera natura? Forse tutta
questa faccenda è una menzogna. Forse sto solo sprecando tempo ed energia;
mi sto ancora ingannando”. Questo dubbio è una parte naturale della
preparazione all’illuminazione istantanea e richiede, affinché la pratica
continui, una fede pari al dubbio. È qui che entrano in scena un’insegnante
e una comunità spirituale, in quanto l’insegnante che ha attraversato queste
difficoltà può infondere speranza, mentre una comunità di ricercatori può
fungere da supporto.
Né l’approccio graduale né quello istantaneo possono garantire
l’illuminazione,
ma entrambi danno una possibilità di raggiungerla, ognuno a suo modo. Per
una persona capace di impegnarsi totalmente in una vita monastica la via
graduale può offrire più speranza di quella istantanea. Per chi non è in
grado di prendere un impegno così grande, la via istantanea potrebbe offrire
maggiori speranze. Come tutte le religioni e le filosofie, è possibile
trovare molti argomenti razionali a sostegno dell’approccio graduale o di
quello istantaneo, ma la realtà è che nessuna delle due può essere
dimostrata o confutata logicamente. Entrambe, in ultima analisi, si basano
largamente sulla fede. Di fatto, tutte le scuole del buddismo, se non
addirittura tutte le tradizioni religiose, richiedono una grande fede come
requisito per qualsiasi risveglio spirituale.
Nella Cina e nel Giappone medievali si sviluppò una scuola buddista chiamata
della “terra pura” (in cinese: Ching-t’u; in giapponese, Jodo). Questa
scuola insegnava che, a causa della corruzione del mondo e del gigantesco
karma negativo accumulato dall’umanità, nessuno sforzo umano sarebbe mai
stato grande abbastanza da permettere a un individuo di raggiungere la
liberazione.
Ma, grazie al voto di salvare tutti gli esseri fatto millenni prima dal
celestiale Buddha Amithaba (cinese: O-mi-to; giapponese: Amida), qualsiasi
persona, buona o cattiva, che avesse chiesto la liberazione con sincera fede
a questo Buddha, l’avrebbe ottenuta. Nella scuola tradizionale della terra
pura, questa liberazione prende la forma della consapevolezza che, dopo la
morte, si rinasce nel paradiso celestiale di Amithaba.
Tale dipendenza assoluta dal potere divino di un altro essere per
raggiungere la liberazione fu chiamata “la via dell’altro potere”
(giapponese: tariki). Poiché lo zen e poche altre scuole insegnavano a non
aver fede nella grazia di un potere esterno per liberarsi, la loro venne
chiamata “la via del proprio potere” (giapponese: jiriki) dalla scuola della
terra pura. Nel corso dei secoli, questa definizione venne ripetuta così
spesso che alla fine s’impose: oggi persino lo scuola zen la usa per
distinguersi da quella della terra pura.
Ma, questa definizione è molto fuorviante. Il “proprio potere” implica che
l’individuo
è in totale possesso del processo di liberazione. Questo è più vero per le
scuole di illuminazione graduale non-zen. In quelle scuole, l’individuo
purifica il sé e lavora verso la meta unicamente grazie ai propri sforzi. Ma
se nello zen l’illuminazione istantanea è accidentale, parlare del proprio
potere o dei propri sforzi dovrebbe essere fuori luogo.
L’aspetto accidentale dell’illuminazione istantanea andrebbe definito in un
altro modo, piuttosto che come l’influenza del proprio potere. Definire lo
zen “una scuola del proprio potere” mette in ombra l’aspetto accidentale
della sua illuminazione istantanea. Un altro modo di dire questo è dare una
seconda definizione dell’illuminazione istantanea. Essa è l’irruzione
dell’«altro»
nell’ordinario, la discontinuità radicale nel flusso della vita quotidiana,
una catastrofe positiva.
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