Intervista al monaco che porta la meditazione in carcere

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Intervista al monaco che porta la meditazione in carcere

Intervista di Marco Restelli

dal sito milleorienti

– Carcere e meditazione: sono compatibili? –

– Si può avere libertà interiore quando non si ha libertà fisica? –

°°°

Risponde un maestro zen di Roma che sta realizzando un progetto molto
interessante a Rebibbia.

(Si chiama Dario Doshin Girolami (foto) è un monaco buddhista e dirige
il Centro Zen l’Arco di Roma. La formazione di Doshin (in giapponese
“Cuore della Via”) è molto particolare perché pur essendo un monaco
zen ha ricevuto insegnamenti e iniziazioni anche da grandi maestri di
varie tradizioni: da Corrado Pensa a Thich Nhat Hanh al Dalai
Lama.”Yoga Journal” lo ha intervistato per chiedergli come questo
eclettico percorso lo abbia portato a un’esperienza di grandissimo
interesse: la gestione di corsi di meditazione – sia per i detenuti
sia per le guardie – nel carcere di Rebibbia a Roma)

___

1) Da dove nasce l’idea di insegnare la meditazione in un carcere?

“Dalla mia esperienza americana. Il San Francisco Zen Center,
monastero dove sono stato ordinato monaco Zen e dove continuo a
insegnare e praticare periodicamente, da anni promuove un corso di
meditazione per i detenuti del carcere di San Quintino. Del resto,
negli Stati Uniti sono più di quarant’anni che si tengono corsi di
meditazione nelle prigioni, con grandi risultati. Perciò ho
partecipato al programma per riproporre lo stesso tipo di corsi anche
in Italia. Ora sono già due anni che un crescente numero di detenuti
del carcere di Rebibbia di Roma segue assiduamente il corso di
meditazione di consapevolezza che conduco settimanalmente tra le mura
dell’istituto penitenziario.”

2) Che cosa insegna l’esperienza americana? Quali risultati ha dato
fra la popolazione carceraria?

“I risultati sono straordinari: sensibile diminuzione dello stress,
della rabbia e, addirittura, calo del numero dei suicidi. Inoltre è
stato registrato un calo del 20% delle recidive criminali negli ex
detenuti che hanno frequentato tali corsi. La pratica meditativa si è
rivelata estremamente efficace anche nei bracci della morte, dove
condannati alla pena capitale sono riusciti a vivere più serenamente e
pienamente il tempo che rimaneva loro, grazie all’assidua meditazione.
Ma c’è di più. Alcuni detenuti hanno trasformato il periodo di
detenzione in un ritiro spirituale, o, addirittura, in un ritiro
monastico, tanto da ricevere una ordinazione religiosa tra le mura del
carcere. A loro detta, infatti, non c’è poi molta differenza tra la
vita cenobitica, dove si trascorre il tempo in una “cella” monastica,
in silenzio, seguendo la Regola, e la vita in prigione.”

3) E in Italia cosa è successo? Ha incontrato collaborazione o difficoltà?

“Dopo vari tentativi, e con il significativo contributo del professor
Antonino Raffone, della Facoltà di Psicologia della Sapienza, sono
entrato in contatto con il direttore e gli educatori del carcere di
Rebibbia che, da subito, hanno dimostrato grande apertura e interesse
nel progetto. E’ stato così strutturato un primo corso di “meditazione
di consapevolezza” (Vipassana) della durata di sei mesi. Assieme agli
educatori si è deciso di rivolgere il corso a un gruppo di detenuti
condannati all’ergastolo, cioè a delle persone con problemi di
aggressività – molte di esse hanno condanne per omicidi plurimi – e
che dovevano affrontare le molteplici difficoltà che derivano dal
confrontarsi con una pena a vita. Da subito i detenuti partecipanti al
corso hanno mostrato curiosità e interesse, dando vita a vivaci
domande e riflessioni, non soltanto sulle tecniche in sé, ma anche sul
Buddhismo e la psicologia.”

4) Come si svolgono questi corsi di meditazione e qual è il loro scopo
precisamente?

“Sebbene le pratiche meditative proposte provengano dalla millenaria
tradizione Buddhista, tuttavia il corso è stato strutturato in maniera
non denominale. In altre parole sono state semplicemente presentate le
tecniche di consapevolezza, senza far riferimento alla tradizione che
le ha generate, nel pieno rispetto delle idee dei partecipanti.
Fondamentalmente si tratta di tecniche di presenza mentale, o
Mindfulness, atte a riportare la mente al “qui e ora”.?Ci sono periodi
di meditazione seduta associati a periodi di meditazione camminata,
dove l’attenzione al corpo e al respiro viene praticata in maniera
dinamica associando la consapevolezza al movimento. In tal modo ogni
camminata, anche il percorso effettuato per andare dalla cella alle
docce, può essere trasformato in un occasione di pratica, in
un’occasione di pace interiore.?Entrambe le pratiche consentono di
sviluppare uno spazio interiore di libertà paragonabile all’occhio del
ciclone: un centro interiore che rimane tranquillo anche nel mezzo del
caos, un luogo di chiarezza nel mezzo della confusione. Si tratta di
uno spazio interiore che, una volta addestrati, può essere contattato
a piacimento.?Tale pratica consente di fare pace con il momento
presente, qualunque esso sia, e di fare pace con se stessi; consente
di non “scappare fuori” con la mente ma di rimanere sereni esattamente
dove si è, e di trasformare il “disagio” in “agio”. Con
l’approfondirsi della pratica diviene possibile liberarsi dai sensi di
colpa, osservare le tendenze negative senza dargli corso, prendere
consapevolezza delle proprie azioni passate e delle conseguenze di
tali azioni.”

5) Quali differenze ha riscontrato fra l’esperienza americana e quella italiana?

“Anzitutto, l’entusiastica partecipazione delle guardie carcerarie
italiane. Negli Stati Uniti mi era stata segnalata una forte
resistenza da parte delle guardie carcerarie, che non solo non erano
interessate alla meditazione, ma anzi la schernivano. In Italia invece
ho avuto una gioia inaspettata: il comandante delle guardie di
Rebibbia mi ha chiesto di organizzare un corso anche per le guardie
carcerarie – ovviamente in spazi e in orari diversi. Spesso si parla
dello stress e dei suicidi dei detenuti, dimenticando che anche le
guardie passano gran parte della loro vita dentro il carcere,
sviluppando alti livelli di stress, tanto da arrivare anche esse al
suicidio. Mi è subito risultato chiaro che per portare una maggior
pace all’interno delle mura carcerarie occorreva intervenire su
entrambe le facce dell’istituto penitenziario: i detenuti e le
guardie. I poliziotti hanno risposto con entusiasmo, formando subito
un gruppo di venti persone. Anche questo rappresenta una novità per
l’Italia. Un’altra particolarità italiana è straordinario legame umano
tra guardie e detenuti che ho riscontrato a Rebibbia. Ho scoperto
infatti che il legame umano che si instaura porta le guardie a farsi
carico psicologico dei drammi dei detenuti, carico che si va ad
aggiungere allo stress derivante da un lavoro logorante. Da qui la
necessità di un corso anche per loro.”

6) Al progetto collabora anche l’Università la Sapienza di Roma. Qual
è il suo ruolo?

“Entrambi i corsi – quello per i detenuti e quello per le guardie –
sono stati organizzati assieme alla Facoltà di Psicologia della
Sapienza, con l’intento di fare anche una ricerca scientifica – sul
modello di quanto già fatto negli Stati Uniti – volta a monitorare
gli effetti della meditazione sui partecipanti. Sono stati fatti
quindi dei test psicologici ai meditanti prima, durante e dopo il
primo corso, atti a misurare i livelli di stress, di ansia, di rabbia
e di auto-compassione.”

7) Nella popolazione di Rebibbia quali effetti sta provocando questo
corso di meditazione?

“Al di là dei test condotti dalla Facoltà di Psicologia – test che
hanno effettivamente dimostrato un aumento della tranquillità
interiore – immediatamente un dato è balzato ai miei occhi: i detenuti
riuscivano a dormire di notte. Sebbene questo possa sembrare un fatto
banale, in realtà non lo è. Infatti uno dei principali problemi che i
carcerati incontrano è quello dell’insonnia, dovuta ai sensi di colpa,
al pensiero che va “fuori dalle mura”, al costante rumore dovuto alle
porte di ferro che sbattono, ai richiami dei secondini, alle
televisioni ad alto volume. E il tutto porta a uno smisurato uso di
sonniferi. Il fatto quindi che, grazie alle tecniche di meditazione e
di rilassamento, i detenuti riuscissero a dormire, ha rappresentato un
primo grosso risultato.”

8) E lei, quali insegnamenti ha tratto da questa esperienza?

“L’immergersi nell’inferno della prigione costituisce una pratica
difficile. Il dolore è palpabile, il senso di oppressione è forte.
Anche la paura è presente: la paura della reclusione, la paura di
essere a stretto contatto con persone pericolose.?Tuttavia, e con mia
grande sorpresa, mi ha donato e continua a donarmi grande gioia e
apertura.?Incontrare di persona pluri-omicidi, sedere accanto a loro
in meditazione in una cella angusta, mi ha permesso di comprendere che
non si tratta di mostri ma di esseri umani, non diversi da noi. In
fondo tutti, prima o poi, abbiamo concepito pensieri
violenti.?L’assunto fondamentale della tradizione Buddhista Mahayana è
che tutti gli esseri viventi hanno la Natura di Buddha. Un pensiero
bello e affascinante, ma altra cosa è incontrare persone che sembrano
davvero lontane dalla buddhità. Eppure ho avuto modo di sperimentare
che tutti, prima o poi, rivelano la loro natura umana e la loro
fondamentale bontà.”

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