Introduzione alla musicoterapia – parte 2
di Mauro Scardovelli
Quale è la sua origine?
L’origine della musicoterapia, intesa in senso ampio, si perde nella notte dei tempi. Sin
dall’antichità era nota l’influenza del suono e della musica sull’uomo, sulle sue emozioni, sulla
sua fisiologia(1). La musica, spesso accompagnata alla danza, è stata utilizzata in quasi tutte le
culture come strumento per facilitare la catarsi emozionale, lo scarico delle tensioni, lo sblocco
dell’energia vitale, e quindi anche il recupero dello stato di benessere e di salute (Alvin, 1966).
Ciò è particolarmente evidente nei riti che conducono alle trance sciamaniche (Zuffi, 1998), ma
alcuni meccanismi sottostanti sono presenti, ripeto, nelle culture più diverse. Le leve di questi
meccanismi erano conosciute e utilizzate allora da sacerdoti, maghi, sciamani, guaritori, che spesso
erano essi stessi musicisti (Rouget, 1986; Schneider, 1987; Franco, Zuffi, 1996)).
In epoca moderna il rapporto musica-cura-terapia-guarigione ha interessato soprattutto due categorie
di professionisti: musicisti, da una parte; medici, psichiatri, psicologi, dall’altra. Come abbiamo
visto, ne derivano due anime della musicoterapia: la prima che pone l’accento sul potere intrinseco
della musica, e richiede quindi un’elevata preparazione proprio in senso musicale; la seconda che
pone l’accento sulla relazione tra il terapeuta e il paziente, considerando la musica
prevalentemente come strumento facilitatore di questa relazione (Bruscia, 1989).
Attualmente, la prima anima, come tendenza, la troviamo diffusa soprattutto nella musicoterapia
anglosassone (Alvin, 1965; Nordoff, Robbins, 1965; Boxill, 1985); la seconda nella musicoterapia
argentina, francese, tedesca (Benenzon, 1982; Guilhot et al. 1973).
In Italia attualmente le due anime sono compresenti, e ciò comporta, come vedremo, notevoli
differenze di vedute circa la professionalità e la formazione del musicoterapeuta.
Tra le prime esperienze documentate di musicoterapia in epoca moderna si può citare come esempio
l’utilizzo di musica a scopi sedativi in un ospedale di Londra, verso la fine del secolo scorso
(Bunt, 1994). Questi esperimenti ottennero un notevole successo e una grande attenzione da parte dei
media. Successivamente gli esperimenti si estesero all’uso di musica non solo sedativa, ma anche
stimolante ed energizzante.
Negli anni venti in alcuni ospedali inglesi la musica fu sperimentata come strumento per elevare il
morale dei pazienti, e in generale come aiuto alla convalescenza. I medici invitavano i musicisti a
suonare davanti a grandi gruppi di pazienti, allo scopo di stimolare le funzioni metaboliche e
ridurre lo stress mentale. Nella letteratura medica sono riportati tanti episodi e aneddoti
sull’efficacia di questo mezzo.
Molto importanti per lo sviluppo della musicoterapia furono le esperienze condotte negli Stati
Uniti, dopo la seconda guerra mondiale, rivolte ai veterani ricoverati in ospedale. Di fatto, molti
musicisti e insegnanti di musica cominciarono ad essere assunti nelle équipe ospedaliere. Ma
ovviamente la comunità medica e scientifica non era facilmente convinta dai risultati raccolti sotto
forma di aneddoti. Ne conseguì la sfida ai musicisti di sistematizzare il loro lavoro, di
documentarlo, di sottoporlo a seri test di verifica.
Su questa linea, cioè sull’esigenza di rendere credibile la musicoterapia alla comunità scientifica,
si inquadrano tutta una serie di ricerche svolte in quel periodo negli Stati Uniti, dirette a
verificare gli effetti della musica su differenti gruppi di clienti. Tali ricerche cominciarono ad
esplorare ogni possibile cambiamento misurato sulla base di precisi indici fisiologici: metabolismo,
respirazione, battito cardiaco, riflesso pupillare, livello di attenzione, livello di affaticamento,
riflessi muscolari, conduttività cutanea ecc. Nel tentativo di mantenere le variabili sotto
controllo, tali ricerche venivano compiute utilizzando l’ascolto di musiche preregistrate di breve
durata. Non vennero svolte ricerche dirette e verificare l’effetto del dialogo sonoro o della
pratica dell’improvvisazione.
A ciò va aggiunto che molti musicoterapisti si accostarono allora alla psicoterapia comportamentale,
il cui approccio favoriva la rilevazione e la documentazione solo di comportamenti esternamente
osservabili. Ricerche rigorosamente controllate dimostrano gli effetti della musica in un ampio
ambito di comportamenti e abilità, come l’apprendimento della lettura e della matematica. Furono
altresì svolte ricerche che dimostravano l’influenza della musica nel ridurre i comportamenti
aggressivi, le stereotipie, l’iperattività, i comportamenti disadattati. Questo indubbiamente favorì
la credibilità scientifica della musicoterapia tra gli anni 50 e 70 negli Stati Uniti, dove essa si
sviluppò sempre più come parte della scienza del comportamento (Bunt, 1994).
La critica a questo tipo di ricerche è parte della più generale critica all’impostazione
comportamentale: cioè il focalizzare l’attenzione solo su piccoli aspetti del comportamento,
trascurando dimensioni più ampie, come la consapevolezza, la scelta, la progettualità, la
realizzazione di sé.
Negli ultimi vent’anni, molti musicoterapeuti si sono accostati alla psicologia umanistica,
conosciuta anche come terza forza, tra i due pilastri della psicoanalisi e del comportamentismo,
abbracciandone pienamente l’obiettivo di aiutare gli individui a realizzare le loro potenzialità.
Fondamentale fu l’influenza di Carl Rogers, che individua nell’empatia, nell’accettazione
incondizionata e nella genuinità le tre condizioni base di ogni relazione di aiuto.
Le ricerche basate sulla prospettiva umanistica aiutarono la musicoterapia a sviluppare strategie
alternative alla rigida impostazione comportamentista, basate solo su musiche preregistrate, aprendo
il campo alle ricerche svolte con la musica prodotta dal vivo, improvvisata, o agita dai clienti
stessi.
All’interno di questa cornice, è diventata sempre più chiara l’importanza di una musica costruita
dal vivo, all’interno di una relazione empatica con il cliente. Tale musica deve adattarsi il più
possibile alle caratteristiche e specificità della persona, al suo umore del momento, alle sue
emozioni, alla sua fisiologia. In un certo senso, il cliente è considerato una partitura vivente,
cui il musicoterapeuta si ispira istante per istante. Fondamentale, pertanto, è considerato il c.d.
“principio iso”, già sottolineato da uno dei pionieri della musicoterapia, Ira Altshuler. “Iso” in
greco significa eguale. Principio “iso” pertanto significa che il tempo e il carattere della musica
devono combaciare, almeno all’inizio, con quelli del cliente” (Alvin, 1966).
In questo lavoro il musicista mette la sua arte al servizio della relazione: il risultato estetico
passa in secondo piano. Ciò non significa che l’aspetto estetico non sia importante, significa solo
che non costituisce mai un obiettivo in sé, ma diventa un mezzo per costruire e facilitare la
comunicazione.
(1) E’ nota, ad esempio, la concezione che i greci avevano della musica. In particolare ne
sottolineavano il potere di influenzare le emozioni, le motivazioni, la volontà. Essi la concepivano
come una “forza demoniaca”, che è all’origine della tragedia. “Fu quindi naturale che filosofi e
politici si occupassero di questa forza misteriosa, gli uni per conoscerne i modi e le origini, gli
altri per porla al servizio dell’etica, cioè per valersene come di una medicina morale, per
approfittare dei buoni impulsi che essa poteva dare e per paralizzare le cattive influenze. Ne
nacque la dottrina dell’ethos musicale, fondata essenzialmente su questo postulato: la musica non
solo può modificare o determinare i nostri stati d’animo, ma anche agisce sulle facoltà volitive.
Proseguendo su questa strada si stabilì che l’azione della musica era di tre tipi fondamentali:
qualora producesse un atto della volontà (ethos energico), oppure paralizzasse la volontà stessa
(ethos snervante), oppure provocasse uno stato di ebbrezza, di estasi (ethos estasiante)”
(Postacchini, 1996, p. 11).
Tra gli altri, anche gli antichi egizi erano consapevoli dell’influenza della musica sull’uomo, come
documentato in un reperto risalente al 1500 avanti Cristo (Benenzon, 1981).
segue…
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