Introduzione alla musicoterapia – parte 3
di Mauro Scardovelli
Come funziona?
La musica, quindi, facilita la comunicazione, il contatto, la relazione là dove la parola non può
svolgere questa funzione. Ma perché utilizzare la musica? Il disegno non andrebbe altrettanto bene?
Il movimento, il massaggio, la manipolazione, la danza, il gioco creativo non potrebbero funzionare
allo stesso modo? Sembrano domande banali, ma non lo sono più di tanto, se ancora di recente le ho
sentite avanzare da professionisti seri e preparati.
Di fatto, ognuna di queste possibilità è stata esplorata, con un certo successo, dalla ludoterapia,
alla danzaterapia, alla psicomotricità, al metodo della globalità dei linguaggi (Guerra Lisi, 1980,
1990), e, più in generale, all’arte-terapia (Ricci Bitti, 1998).
Ma ognuna di queste discipline, oltre ad una base comune, quella di utilizzare prevalentemente la
comunicazione corporea o non verbale, ha la sua specificità. La musicoterapia si distingue
all’interno dell’arte-terapia in quanto utilizza quella particolare forma d’arte che è la musica. Ma
questo che differenza fa?
A tale domanda le diverse scuole e indirizzi in cui si articola la musicoterapia danno risposte con
accenti in parte diversi, dovuti ai differenti filtri teorici con cui viene esplorato il rapporto
uomo-musica.
Le scuole che si ispirano ai modelli psicoanalitici, ad esempio, sottolineano soprattutto il ruolo
regressivo svolto dalla musica, il recupero che essa induce di esperienze fetali o comunque molto
primitive in termini genetici (Benenzon, 1982), il suo ruolo di contenitore dei vissuti proiettivi e
la sua funzione catartica e riorganizzatrice (Manarolo, 1986).
Le scuole che si ispirano alla psicologia umanistica – che in Italia, e ancor di più all’estero,
sono la maggioranza – pur non escludendo le funzioni sopra indicate, pongono l’accento soprattutto
sugli aspetti comunicazionali: la musica è qui intesa come strumento facilitatore di una
comunicazione empatica profonda che avviene nell’hic et nunc tra musicoterapeuta e cliente (Boxill,
1985; Scardovelli, 1992).
Sì, ma in che modo specificamente la musica svolge questo ruolo facilitatore? Questa domanda trova
finalmente una risposta molto chiara, a mio avviso, nelle conoscenze che oggi possediamo
sull’interazione madre-bambino, ottenute attraverso osservazioni e ricerche estremamente ben
documentate. Mi riferisco alle ricerche svolte all’interno dell’approccio interattivo-cognitivista.
In tali ricerche si sono filmate innumerevoli interazioni madre-bambino in situazioni reali, e poi
si sono sottoposti tali film a microanalisi (Schaffer, 1977). Ciò ha consentito di scoprire dei
pattern comportamentali ricorrenti, che in gran parte erano sfuggiti alle precedenti osservazioni.
In fondo la microanalisi di un film funziona un po’ come una sorta di microscopio, che consente di
espandere i limiti delle nostre capacità di osservazione. Senza il microscopio non avremmo potuto
mai scoprire le cellule e il DNA. Allo stesso modo, alcuni schemi di comportamento non potevano
essere colti.
Mi riferisco ad esempio al fatto che i bambini molto piccoli si sincronizzano con micromovimenti al
linguaggio parlato della madre. Questa sincronizzazione sembra generare un senso di tranquillità in
lei, che in qualche modo si sente in relazione con il bambino. A livello conscio ella non sa perché.
Però se questa sincronizzazione viene a mancare, allora la madre entra in allarme. Così accade con i
bambini autistici: essi non si sincronizzano. Essi appaiono così staccati, isolati. Per caso si è
scoperto che, in realtà, anche i bambini autistici si sincronizzano: ma tale sincronizzazione
avviene con un ritardo di qualche secondo, ossia avviene fuori tempo, e quindi essa non può in alcun
modo essere riconosciuta, neppure a livello subliminale o inconscio.
Più in generale, si è osservato che madre e bambino sin dall’inizio sono impegnati in una
interazione che li vede attivi entrambi: ad ogni segnale del bambino, la madre risponde all’interno
dello stesso schema temporale, e in tal modo costruisce un frame, una cornice, in cui i segnali del
bambino, in origine casuali, acquistano pian piano un significato relazionale. Dapprima è la madre,
quindi, che si sincronizza sui segnali del bambino, ma ben presto è il bambino stesso che diventa
esperto in questo gioco, imparando a sintonizzarsi a sua volta. Alla fase dello pseudodialogo,
asimmetrica, in cui la madre svolge principalmente un ruolo di sostegno e accompagnamento
adattandosi alle variazioni del bambino, segue ben presto la fase del dialogo, in cui entrambi i
partner, su un piano di parità, si influenzano vicendevolmente (Schaffer, 1977; Stern, 1985, 1986).
In sostanza, quindi, la madre funge da specchio biologico, in grado di rispondere in modo efficace
ai segnali del bambino, rispecchiandoli, amplificandoli, variandoli, modulandoli. Qualunque
comportamento espressivo del bambino non è lasciato cadere e quindi squalificato, ma viene
considerato, ripreso, e inserito in un contesto relazionale. Il bambino si accorge così che i suoi
comportamenti provocano una risposta e ciò lo stimola a proseguire nell’esplorazione condivisa. Via
via che la competenza del bambino cresce, la madre inserisce nella relazione segnali sempre più
complessi e articolati, che conducono il bambino alla naturale acquisizione del linguaggio parlato.
D’altra parte, all’interno di questo rapporto privilegiato, il bambino trova la sua base sicura, che
gli consente di attivare il suo comportamento esplorativo nei confronti del mondo esterno, da una
parte, e del suo mondo interno, e quindi dei suoi vissuti emotivi, dall’altra (Bowlby, 1979, 1988;
Liotti, 1994).
Da un punto di vista musicoterapico, la relazione madre-bambino può essere vista e interpretata come
una sorta di sinfonia o di danza in cui i partecipanti sono coinvolti in un progetto espressivo
comune, quindi sono necessariamente accordati tra loro, sincronizzati, sintonizzati (Scardovelli,
1986).
Ora, l’esperienza dell’improvvisazione musicale fornisce una chiave di comprensione estremamente
interessante di questo fenomeno. Di fatto, anche nell’improvvisazione i musicisti coinvolti debbono
necessariamente accordarsi tra loro, condividere il tempo-ritmo, condividere il livello energetico,
rispondersi in qualche modo, ricalcandosi e rispecchiandosi vicendevolmente. Ripetizione,
variazione, modulazione, trasformazione sono tutte tecniche che essi adottano per costruire un
progetto musicale condiviso, e tali tecniche, tipiche della pratica compositiva, sono
straordinariamente simili a quelle adottate nella coppia madre-bambino. Armonia, bellezza,
espressività, coinvolgimento si accompagnano naturalmente ad ogni forma di comunicazione produttiva,
indipendentemente dai mezzi specifici che utilizza: musica, danza, movimento, parola.
Il musicista allenato ad improvvisare in gruppo è un esperto nella capacità di valorizzare e
sviluppare ogni contributo dei compagni, cogliendone l’aspetto temporale, energetico, timbrico,
dinamico. Il musicoterapeuta utilizza questa capacità al servizio della relazione con il bambino o
adulto disabile. Là dove la madre o altre figure significative si sono fermate, in conseguenza dei
deficit del bambino, là dove il filo della comunicazione si è spezzato, lì il musicoterapeuta può
riagganciarsi, facendo ricorso alle sue sofisticate abilità di ricalco, rispecchiamento,
sintonizzazione (Scardovelli, 1986).
La comunicazione musicale, lo abbiamo già detto, consente di essere non solo calibrata sui messaggi
del bambino, ma anche non invasiva, morbida, accogliente e nello stesso tempo stimolante e
seducente. I bambini, tutti i bambini, prima o poi vengono letteralmente sedotti dalla bellezza del
suono e della musica costruita per loro (Cremaschi, 1996, Alvin , 1965)). E’ veramente affascinante
e commovente assistere a sedute di musicoterapia in cui bambini da tempo chiusi nei confronti del
mondo esterno, cominciano a riaprirsi, a comunicare, a gioire del ritorno alla vita di relazione.
Questo accade anche con bambini gravissimi, come i prematuri, sordi e ciechi. Essi all’inizio
appaiono fermi o impassibili come dei vegetali, ma poi, attraverso il nutrimento dei suoni prodotti
per loro, pian piano si aprono e interagiscono: compare il sorriso, compare la voce, non rifuggono
più, ma cercano il contatto e ne provano evidente piacere.
Con bambini particolarmente gravi, il musicoterapeuta all’inizio si trova nell’impossibilità di
avviare un dialogo sonoro: sono bambini totalmente ripiegati su se stessi. A differenza di un
neonato, essi neppure si muovono o si esprimono in alcun modo. Ma il loro cuore continua a battere e
i loro polmoni a respirare. Nell’avvicinarsi al loro mondo, il musicoterapeuta può trovare in questi
ritmi naturali una porta di ingresso. Il bambino non è in grado di rispondere, ma è in grado di
ricevere. I suoni letteralmente nutrono il suo sistema nervoso, lo caricano, lo stimolano, come una
sorta di dinamo (Tomatis, 1990). I suoni, come onde di pressione, attraversano tutto il suo corpo,
tutte le sue cellule, e svolgono un importantissimo massaggio, che pian piano scioglie le tensioni e
i blocchi che il bambino ha costruito per difendersi dal dolore, per diventare insensibile (Lowen,
1975).
Con bambini così è molto utile il contatto diretto del loro corpo con uno strumento musicale, in
modo che la cassa armonica possa trasmettere le vibrazioni ai muscoli, alle ossa, agli organi
interni (Alvin, 1966, p. 145). Il pianoforte a coda è uno strumento ideale per questo: il bambino
viene collocato sul pianoforte, e possibilmente viene massaggiato in sintonia con la musica da una
persona competente. Questo, tra i tanti, è un metodo molto efficace di fare musicoterapia, che
ottiene sorprendenti risultati anche nei casi più disperati (Cremaschi, 1996).
Come dicevo, in questa prima fase non si può parlare di vero dialogo: il musicoterapeuta crea con i
suoni una sorta di contenitore, una sorta di grande utero che protegge, rassicura e nutre il
bambino. Il dialogo potrà iniziare, dapprima come pseudodialogo, solo quando compariranno i primi
segnali espressivi.
In sintesi, su questa linea, semplificando al massimo, si possono distinguere quattro livelli di
intervento, che corrispondono a quattro livelli o funzioni genitoriali:
1. livello di nutrizione/stimolazione, corrispondente alla funzione materna nei confronti del
feto. Questa funzione può essere esercitata dal musicoterapeuta ad esempio nei confronti di bambini
prematuri, gravemente ritardati o autistici: come abbiamo detto, il bambino è avvolto dai suoni
costruiti apposta per lui, ne viene letteralmente nutrito, energizzato, stimolato. Attraverso il
fenomeno della risonanza, tutto il suo corpo viene sottilmente massaggiato, le tensioni si riducono,
la respirazione si fa più profonda, compaiono i riflessi di orientamento, il bambino inizia ad
essere recettivo nei confronti del mondo esterno. La cosa importante è che in questo stadio di
lavoro il bambino rimane “passivo”, cioè non è in alcun modo stimolato ad agire o a fare qualcosa di
diverso da quello che fa. L’attenzione dell’adulto, attraverso la calibrazione dei segnali non
verbali, comunica una sua piena accettazione e accoglienza;
2. livello dello pseudodialogo, corrispondente alla funzione materna neonatale. Il
musicoterapeuta, superata la fase precedente, e cioè ottenuta l’apertura e l’attenzione del bambino,
prende spunto da ogni suo segnale espressivo e lo sviluppa in senso musicale, inserendolo e
variandolo nel contesto dell’improvvisazione. Il bambino percepisce la piena accettazione e
valorizzazione di ogni sua azione, che dapprima casuale e inintenzionale, acquisisce gradualmente
significato relazionale;
3. livello del dialogo, corrispondente alla funzione materna nei confronti del bambino dopo i sei
mesi circa. Il musicoterapeuta valorizza sempre più i contributi del bambino, stimolandolo nel
contempo a prendere l’iniziativa. Il bambino non si limita più a proporre, ma a sua volta comincia
ad imitare in qualche modo e a seguire ciò che viene proposto dal musicoterapeuta;
4. livello di educazione/socializzazione, corrispondente in qualche modo alla funzione paterna. Il
musicoterapeuta coinvolge il bambino nell’apprendimento della musica e del linguaggio. Da questo
punto in poi la musicoterapia inizia sempre più a sconfinare nella pedagogia della musica. Il
bambino è inserito appena possibile in piccoli gruppi ove l’apprendimento delle abilità musicali si
accompagna sempre più all’apprendimento di abilità comunicative e sociali.
Alle considerazioni fin qui svolte, occorre aggiungere qualcosa sulla specificità del mezzo
sonoro-musicale. La musica può essere definita come “organizzazione umana dei suoni”, o come
“scultura sonora” (Bunt, 1984, p. 71). E’ naturale pertanto che, come esseri umani, noi troviamo una
forte risonanza nelle sculture sonore fatte a nostra somiglianza. In particolare la musica può
essere vista come una variazione dell’energia nella dimensione temporale. In questo senso essa è
strutturalmente omologa alla nostre variazioni fisiologiche, e in particolare ai nostri processi
emozionali (Alvin, 1966). La musica, più di ogni altra arte, è in grado di adattarsi alle variazioni
del nostro vissuto emotivo in tempo reale. Ascoltare una musica che combacia con il proprio mondo
emozionale diventa pertanto una forte esperienza di riconoscimento e comprensione profonda, che
induce chi la riceve ad aprirsi ed andare verso la sorgente di questa comprensione. Questo vediamo
costantemente accadere anche nei casi di bambini più gravemente handicappati.
E la stessa cosa possiamo osservare sistematicamente nei gruppi di formazione. Ad esempio, se ad una
prima persona si dà la consegna di entrare in contatto con se stessa ed esprimersi con il movimento
libero, e ad una seconda si dà la consegna di ricalcare tale movimento con la propria voce, finché
il ricalco è approssimativo e non coglie gli aspetti essenziali, non accade nulla di particolare. Ma
se la seconda persona che usa la voce empatizza in modo profondo, se la sua voce diventa davvero una
“scultura sonora” che si adatta perfettamente al movimento della prima, allora accade regolarmente
un fenomeno molto interessante: la persona ricalcata si sente dapprima sostenuta e facilitata nella
sua espressione, e successivamente avverte un senso di straordinaria apertura e di gratitudine nei
confronti di chi ha cantato per lei. Nel giro di un minuto si instaura un rapporto intenso e
coinvolgente tra le due persone.
Questo può essere l’effetto di una musica che riceviamo o che ascoltiamo.
Ma qualcosa di analogo avviene anche quando siamo noi stessi a costruire la nostra musica, cioè
quando improvvisiamo o suoniamo qualcosa che combacia con il nostro vissuto emozionale. La musica
diventa quindi un mezzo privilegiato per esprimere emozioni e sentimenti, anche quelli che più
temiamo o di cui siamo poco consapevoli e che non sapremmo descrivere a parole (Alvin, 1966, p. 80).
E l’espressione musicale di un sentimento ha non solo un valore catartico, di liberazione di
un’energia accumulata e bloccata, ma anche trasformativo. Le forze dionisiache, irrazionali, degli
impulsi, degli istinti, delle emozioni, dei sentimenti, per essere espressi in musica, cioè in forma
organizzata ed estetica, necessitano di essere guidate e controllate dalle forze apollinee, della
razionalità, del logos, dell’evoluzione (Bunt, 1994).
Quando un bambino scarica la sua rabbia urlando, battendo i piedi per terra o battendo le mani su
un tamburo, il musicoterapeuta non impedisce questa espressione, anzi la permette e la incoraggia;
ma nel contempo crea una cornice sonora in cui quei colpi “irrazionali” e istintivi diventano parte
integrante di un brano musicale. La furia di quei colpi, originariamente cieca, diventa parte
essenziale di un progetto condiviso. La distruttività si trasforma in creatività. Il bambino impara
a trarre piacere, molto più piacere, dal creare insieme piuttosto che dal distruggere da solo.
In altri termini, egli impara gradualmente che esiste una terza via tra il bloccare e reprimere le
emozioni negative o scaricarle impulsivamente e senza controllo: impara cioè la via della
trasformazione costruttiva. Le emozioni, da oggetti pericolosi, fantasmi o nemici interni da temere
e da cui guardarsi, si trasformano in potenti alleati nel processo di crescita e di socializzazione
(Assagioli, 1965, Pierrakos, 1987).
Ma, secondo una legge ben nota in psicoterapia, ogni trasformazione presuppone una previa
accettazione (Rogers, 1961, 1980): da qui il fondamentale compito del musicoterapeuta di accogliere
e accettare il mondo emozionale del bambino, senza timori e pregiudizi, rimanendo genuino, autentico
ed empatico. Questo processo interiore del musicoterapeuta si traduce in precisi comportamenti
musicali, che veicolano accettazione e comprensione, da una parte, e che immettono via via spunti
creativi e trasformativi, dall’altra (Scardovelli, 1988, 1992). Accettato e compreso a livello
profondo, cioè a livello delle espressioni più direttamente collegate con il suo vissuto emotivo e
viscerale, via via il bambino impara a comprendere se stesso, a fidarsi di sé e ad aprirsi sempre
più all’altro e al mondo esterno.
Con alcuni bambini questo processo talvolta è difficilissimo: la sofferenza accumulata si è
trasformata in una sfiducia totale nel confronti degli altri e del mondo. Questi bambini
rappresentano una sfida tremenda per il musicoterapeuta: essi respingono, rifiutano, provocano,
aggrediscono anche in modo violento. Sono pieni di rabbia e di odio (Cremaschi, 1996). Accettare
queste manifestazioni, senza cadere in un controtransfert negativo, saperle accogliere e trasformare
musicalmente e creativamente, è un compito davvero arduo, che richiede un’eccellente formazione sia
a livello musicale che a livello personale.
segue…
Approfondimento sul sito www.sublimen.com
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