Istantanea di Raimon Panikkar
ISTANTANEA DI RAIMON PANIKKAR (1)
(di Ricardo R. Laudato)
– Pennellate invitanti –
Incontrai Panikkar in casa sua, una villa stupenda, affacciata su un pendio
ripido e imponente (“cingles” in catalano) che permette di vedere la
vastissima estensione del fondovalle. In autunno il precipizio appare sempre
avvolto da una nebbia fitta accompagnata da una pioggia sottile, testarda,
nordica. Tra il burrone e la nebbia, la dimora di Panikkar eclissa
l’archetipo
borgesiano della Biblioteca di Babele: tra i titoli multietnici si indovina
la presenza di un locus amoenus adatto allo studio e alla meditazione. Le
impressioni lasciate di quelle cinque ore ininterrotte di conversazione su
Fatone (2) e temi affini sono innumerevoli e ciò risulta naturale se si
pensa che Panikkar è uno degli ultimi esseri umani in cui tanto le
conoscenze quanto il tempo sono parti costituenti dell’essere.
Le maschere di quel personaggio pubblico che è Panikkar non si possono
descrivere in poche parole. Da una parte, i suoi quasi 83 anni rendevano più
impressionante l’agilità mentale del pensatore: lo vidi commentare le bozze
di un suo nuovo libro con alcuni membri di Vivarium (professori,
intellettuali) (3) e rimasi meravigliato dalla sua padronanza del dialogo e
dal suo umorismo pungente e a volte un po’ acerbo (ma invariabilmente
salace).
D’altra parte, suppongo che gli anni di sacerdozio abbiano dato a Panikkar
quell’equilibrio tra due tendenze temperamentali proprie di un certo tipo
psicologico mediterraneo: l’alacrità verbale (nell’utilizzo delle lingue e
delle idee) e la scaltrezza dell’uomo di mondo. Panikkar “la sa
lunghissima”,
e a mio avviso è riuscito ad amalgamare certi richiami della vita quotidiana
con certe esigenze della vita monastica. Forse questo equilibrio non si
accorda con le presunzioni del mondo contemporaneo; ma penso che gli sia
riuscito magistralmente. In effetti, da meridionale accorto, Panikkar non
può essere altro che un Janus bifrons.
Janus bifrons
In verità Panikkar è al contempo un catalano e un indiano, e questo fatto
avrebbe dovuto far riflettere gli studiosi della cultura. Come mai un
catalano può sentirsi a suo agio tra gli indiani quando “gli indiani” sono
un insieme di razze e popoli diversi che peraltro non condividono nemmeno
una lingua? Non basta accennare all’origine indiana del padre data
l’esistenza
del fratello, Salvador Pániker, scrittore, pensatore, proprietario della
Casa Editrice Kairós e proponente della legalizzazione dell’eutanasia, il
quale pare che non solo abbia romanizzato il suo cognome ma abbia anche
schernito pubblicamente le scelte esistenziali del fratello teologo.
Lasciando da parte i parametri emotivi di un lessico familiare, il quesito
si dovrebbe avviare su criteri più antropologici che individuali. Come mai
un catalano cresciuto secondo i principi razionalistici di una cultura
urbana (c’è una città più squisitamente borghese – da “borgo”- di
Barcellona?) può diventare un uomo che sente pensa e agisce secondo i
principi intuitivamente intellettuali di una civiltà – insieme di culture –
“pagana” (da “pagus”) come quella sviluppatasi in India?
La risposta appartiene allo sfondo comune dell’essere umano.
Panikkar è semplicemente un vero uomo (almeno come immagino io gli uomini di
una volta); un’anima viva, che sa godersi la vita suggendo la linfa vitale
dalle diverse morti che tutti dobbiamo superare (una volta che abbiamo
assaporato intellettualmente la vita). Uno solo è il compito del vero uomo:
concertare il dissenso delle voci che spifferano tra le fessure del cuore.
Uomo magro e piccolo, di parvenza alquanto fragile (un Gandhi catalano),
Panikkar è tuttavia capace di fissare sull’interlocutore uno sguardo
vigoroso e penetrante mentre svolge la sua coloritura verbale e
argomentativa, senza imposizioni né parole d’ordine. Nondimeno,
paradossalmente, questo primo passo verso il silenzio può risultare
fuorviante.
Panikkar è, indubbiamente, un ometto imponente, ma l’imponenza dell’uomo
pubblico viene spezzata ogni tanto da una certa disarmonia tra gesti e
parole da una parte e il suo sguardo dall’altra. “Disarmonia”, in quale
senso? Panikkar è capace di parlare con entusiasmo, con veemenza senza
cadere nel soliloquio o nell’ammonimento, cioè prova a conversare con gli
altri e attende la risposta dell’interlocutore consapevole delle imboscate
del linguaggio.
Ma all’improvviso, è facile percepire che il suo sguardo si allontana
fulmineo dai gesti che scortano il discorrere della mente, palesando per
conto suo un salto indietro delle potenze.
La conversazione di Panikkar, il suo sorriso e i suoi gesti sono
spontaneamente sociali e cordiali; anzi a volte risultano fraterni e
affettuosi senza previe condizioni; tuttavia il suo sguardo non si lascia
mai trascinare dalle convenzioni né dai sentimenti fraterni né dal rispetto
dovuto all’individuo. Ogni tanto, quasi in maniera fulminante, i suoi occhi
diventano di una durezza adamantina senza ragione manifesta; ecco il salto
indietro, naturale e impulsivo, verso il sancta sanctorum della coscienza.
Ed ecco anche il nocciolo più esteriore del personaggio: lo sguardo del
Panikkar pubblico rivela la presenza di un altro Panikkar più
irraggiungibile e meno bonario, meno loquace e più sommerso nella maestà del
silenzio.
Perciò, sarebbe un’impresa ciclopica descrivere tutte le maschere dei
personaggi pubblici che è Panikkar; ma sarebbe infinitamente più arduo fare
un commento su quell’altro Panikkar; sul Panikkar che istiga alla
distorsione della sua figura, distorsione emanata dalle opinioni
contrastanti sulla sua persona.
C’è un canto dentro di me
In effetti, durante il mio soggiorno catalano, la menzione di Raimon
Panikkar destava reazioni colorite ma sempre sottovoce: un mormorio, un
bisbiglio leggero ma persistente. Mettendo da parte il fastidioso rumore dei
particolari, le critiche vanno condensate in questa frase di Salvador
Pániker, rivolta pubblicamente al fratello: “eres el hombre menos desnudo
que conozco” (4) (se la mia memoria è fedele). D’altro canto, e di fronte ad
una figura pubblica di questa portata, certamente non mancano giudizi
laudatori, alcuni veramente inconsueti. Il miglior esempio in questo senso
potrebbe essere l’asserto di Silvano Panunzio, tratto da un suo saggio, dove
si discute la necessità di un essere come Panikkar per il mondo:
(…) secondo gli indù, un occidentale che disponesse di ‘talento
metafisico’
non può essere realmente un occidentale: egli (Panikkar, ovviamente) è un
indù che è ridisceso tra i barbari per illuminarli ed elevarli. (5)
Di proposito la mira fende l’immagine trasformando la bifrontalità nel
baratro di contrasti logici: mancanza di nudità e talento metafisico.
Esisterebbe una maniera di accordare queste intuizioni contrapposte? La
questione sembra irrilevante. Un labirinto di specchi può fuorviare solo
quelli che ne ignorano il disegno e vengono sempre più affascinati dalla
molteplicità dei riflessi. Del resto, siccome ignoro effettivamente questo
particolare disegno, non posso permettermi congetture molto profonde; posso
comunque azzardare una prima ipotesi basilare non troppo rischiosa.
L’ipotesi è legata all’isolamento attuale e inevitabile d’ogni uomo dotato
di talento metafisico. Panikkar non è una eccezione, è la regola; è un uomo
isolato per forza (tra le tantissime persone che gli girano attorno) come
accade a tutti quelli che, senza badare al canto delle sirene ideologiche
che risuonano da più o meno trecento anni tra di noi, hanno accettato
seriamente le relative imposizioni di Mâyâ in ogni campo della prassi
cosmica. Non a caso, il perno della sua laboriosità intellettuale si trova
nell’espressione “esperienza cosmoteandrica”.
Secondo il ritmo dei tempi, quindi, Panikkar subisce l’isolamento riservato
dalla meschinità e dalla pusillanimità a quelli che ancora sono in grado di
spargere i doni della carità e della generosità. In realtà, la storia non è
stata compagna di Panikkar esattamente come non lo è stata di un altro paio
di veri uomini che ho avuto il privilegio di conoscere o di studiare. Basti
pensare che, bambino cresciuto alle soglie di una civiltà oggi scomparsa, di
una civiltà in punto di morte – ma civiltà ancora -, oggi Panikkar è invece
un naufrago sano e salvo, una sensibilità e un’intelligenza superstiti che
attraversano le rovine cantando un canto antico, incomprensibile, un canto
che “non può adagiarsi in nessuna forma e che spezzerebbe qualsiasi
linguaggio | un canto che nessuno potrebbe ascoltare senza che la sua anima
fosse sgomenta dalla sorpresa e ricolorata da un altro sole”, come diceva un
vecchio poema dimenticato. (6)
Questa situazione non sarebbe affatto anormale se la storia medesima non
porgesse una sfida al naufrago; la sfinge funesta di altri tempi compare
ormai sotto la forma dell’isolamento. L’enigma proposto dalla sfinge si può
formulare entro i limiti di un simbolismo musicale-animale (ricordando
Marius Schneider): come mai si avvera oggi che le aquile siano solo capaci
di emettere spontaneamente sibili di serpenti?
Entro i confini di un linguaggio moralizzatore, la formulazione del quesito
semplifica troppo il gioco dei mondi: come mai il canto del naufrago, quel
silenzio cantatore, può solo evocare la vigliaccheria nei cuori altrui?
Purtroppo, l’enigma della sfinge non è altro che una delle giocate della
Mâyâ prestidigitatrice, quel tangibile indebolimento dei ritmi interiori che
forniscono l’unica fonte di lealtà nel mondo sublunare. La mestizia del
Buddha morente e la disperazione del Cristo sul Monte degli Ulivi, la
partenza definitiva di Laozi e la crocifissione di al-Hallaj sono esempi
troppo sconvolgenti per insistere sui motivi ricorrenti di questa
conturbante economia del cosmo.
Lo stile è l’uomo
Di conseguenza, la disarmonia tra il personaggio pubblico e la fonte che la
instilla non risulta anormale; sarebbe la sfida logica imposta dal silenzio
dei silenzi. Anzi, postulare che Panikkar è un naufrago non può affatto
stupire, dato che la proposta offre una delle chiavi che spiegano la
varietà, il volume e la profondità della sua opera.
Uno dei tratti più evidenti dei suoi scritti è l’ansia di comunicare con il
lettore. Sia la minuziosità pertinente delle spiegazioni che la forma
dialogica della prosa, sia la varietà di temi e argomenti che l’interesse
multiculturale, sono l’indizio sicuro dell’intenzione dell’autore: rendere
evidente che l’unico atteggiamento peccaminoso è l’irrigidimento
dell’intelligenza
e l’inasprimento della responsabilità che ogni essere umano ha di fronte
alle esigenze della coscienza, cioè al fatto di essere consapevoli di essere
consci. Panikkar scrive e riscrive, modula, aggiunge e rispiega, in una
parola, trita, schiaccia e riduce argomenti e argomenti con quell’unico
scopo.
Solo un naufrago, solo uno che è già andato oltre la strage può impegnare le
sue forze a rendere evidente che solo la generosità è l’asse dei mondi.
L’opera di Panikkar è la sua maniera personale di comprendere il suo
compromesso pubblico con il silenzio dei silenzi. Ritengo che il discutere
con Panikkar, su ogni tipo di argomenti, deve essere una esperienza
preziosa, indimenticabile, trasumanante. E giustamente ciò che rende
trasumanante quella esperienza è proprio la menzionata disarmonia.
Ovviamente, del suo impegno intimo col silenzio dei silenzi non si dà
conoscenza oltre i limiti imposti dai tratti percepibili della personalità
pubblica. Ma proprio quella impossibilità diventa la sfida per qualsiasi
altra anima viva; incontrare un Proteo dell’intelligenza può essere
incontrare “un uomo meno nudo” di altri uomini, giacché si tratta di uomo
che campa in virtù della nudità. Indubbiamente, un incontro permanente con
Panikkar può assolutamente diventare la realizzazione di quel richiamo
permanente dell’universo: avere il coraggio di “vestirci di cielo” superando
per sempre i furbissimi ghiribizzi del grande teatro del mondo.
[2000]
———————
(1) Raimon Panikkar, nato a Barcellona nel 1918 da madre spagnola cattolica
e da padre indiano di religione indù, si laureò in chimica, filosofia e
teologia, e divenne prete cattolico nel 1946. Ha tenuto corsi e lezioni in
molte università europee, asiatiche e americane. Oggi vive a Tavertet,
vicino a Barcellona, nella Catalogna dov’è nato. Per maggiori ragguagli,
cfr.nella pagina web www.estovest.org/ecosofia/panikkar.html la nota
biografica dell’articolo di Paolo Vicentini “Panikkar e la crisi del mondo
moderno”.
(2) Dell’argentino Vicente Fatone (1903-1962), nell’eccellente studio di
Ricardo R. Laudato: Vicente Fatone: un letrado cumplido en América, vien
detto che «fue tal vez el primer latinoamericano, nacido en Argentina,
dedicado honradamente al encuentro de Oriente y Occidente» [«fu forse il
primo latinoamericano nato in Argentina che si dedicasse con serietà
all’incontro di Oriente e Occidente»].
(3) Centro studi interculturale fondato da Panikkar.
(4) “Sei l’uomo meno nudo che conosco”.
(5) da: Silvano Panunzio, Pax Profunda (L’universalità come pace e la pace
come universalità), in: Miquel Siguan (curatore), Philosophia pacis,
Homenaje a Raimon Panikkar, Editorial Símbolo, Madrid, 1989, p.165.
(6) da: C’è un canto dentro di me, in: Giovanni Papini, Cento pagine di
poesia, 1915.
Tratto da:
www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/istantanea.htm
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