Istruzioni per disporsi alla consapevolezza
di Corrado Pensa
La meditazione di consapevolezza ci chiede di aderire alle condizioni in cui
ci troviamo adesso qui e di lasciar cadere i vari pensieri circa le
condizioni nelle quali ci piacerebbe essere o nelle quali riteniamo che
dovremmo essere. Abitare consapevolmente le condizioni presenti significa
essere unificati e vivi. Volgere l’attenzione al respiro è una ‘attività’
che sorregge anzitutto questa presenza nel presente, questo essere con
quello che è così com’è, e dunque questo sapore di verità, questo salutare
risvegliarsi al qui e ora.
Non che una cosa accaduta nel passato non sia vera. Ma se ci identifichiamo
e ci attacchiamo al ricordo di questa cosa, noi restiamo inevitabilmente
separati dalla vita che vive in questo momento. Al contrario, se non
impartiamo al ricordo uno spessore, una realtà che non ha e riusciamo invece
a stare davanti al ricordo in semplicità attenta, allora non ci divideremo
dalla vita presente.
Di fatto, un ricordo può essere molto più di un ricordo, al punto di
sembrare più reale della persona con cui stiamo conversando. La meditazione
di consapevolezza si ripropone di farci superare questa distorsione (che ha
tantissime forme) e di radicarci in ciò che è, qui e ora, così com’è. Quando
si insiste sulla necessità di ‘stare col respiro com’è’, questo non è
soltanto un fatto tecnico.
È di più. Infatti se impariamo a prestare un’attenzione
accettante al respiro così com’è noi costruiamo una base per poter ‘stare
con le cose così come sono’. Dalla piccola accettazione alla grande
accettazione: col respiro così com’è, con noi stessi così come siamo, con
gli altri così come sono, con le situazioni e gli eventi così come sono.
Ciò è ben diverso da quella sottile e invadente sfiducia in noi stessi, da
quel dirsi, in sostanza: “Potrò stimarmi e accettarmi a patto che riesca ad
avere una certa continuità nel seguire il respiro. Allora avrò il diritto di
sentirmi a mio agio, altrimenti no!”. Ora una cosa è aspirare, giustamente,
ad avere una buona resa nel lavoro della meditazione, altra cosa è questa
specie di ricatto affettivo, questo spirito autopunitivo.
E invece, non sarà per caso possibile essere a proprio agio con quello che
sappiamo fare ora, a proprio agio esattamente nello stato mentale e fisico
che è presente adesso? Ed è possibile, inoltre, che l’eventuale preferenza
per uno stato diverso rimanga una semplice preferenza, senza trasformarsi in
lamento, disappunto, giudizio? Ci vuole un po’ di tempo per accorgersi che è
solo su questa base di schietta accettazione che possiamo esercitare il
retto sforzo.
Infatti lo sforzo giusto è anzitutto la capacità di chiamare a raccolta
tutta l’energia di cui disponiamo in questo momento. Appena ci diciamo:
“Come mai non ne ho tanta come ieri?” oppure “ne dovrei avere di più”
abbiamo creato un problema, deragliando dal binario del retto sforzo. Noi
pensiamo che il problema sia la quantità di energia. Invece il problema è
proprio questo atteggiamento censorio e frustrato che, determinando una
dolorosa scissione interna, finisce col paralizzarci.
L’idea è dunque di ‘sistemarsi’, di accomodarsi semplicemente in quella
misura di energia e di sforzo che è disponibile al momento. Questo moto
discreto e saggio accresce, senza parere, l’energia e ci dispone in un
rapporto di familiarità con la pratica. E ciò, a sua volta, rende
progressivamente più spontanea la consapevolezza.
Si può anche dire che dobbiamo imparare la strada che porta da un modo
rigido e nervoso di praticare a un modo disteso e flessibile. Un po’ come
succede, per esempio, nella danza. Solo che nella danza basta un’occhiata
per vedere se stiamo superando l’iniziale impaccio. Nella meditazione la
questione è soprattutto mentale ed è più sottile e complessa. Il nervosismo
e la rigidezza si manifestano soprattutto in due maniere: nel correre dietro
all’oggetto di meditazione e nel frequente contrarsi nel giudizio e nel
confronto. Invece la disposizione meditativa più flessibile e accettante si
manifesta come immobilità ricettiva e trasparente: non inseguiamo l’oggetto
della consapevolezza, bensì lo riceviamo a piè fermo, ne siamo lo specchio
puntuale, lo lasciamo accadere guardandolo.
Come già si accennava, i frutti di questo apprendistato travalicano l’ambito
meditativo in senso stretto. Se ci rapportiamo al respiro nella maniera
nervosa e giudicante non faremo che rafforzare questo atteggiamento nella
vita. Se invece facciamo in modo di allevare la nostra meditazione secondo
la modalità distesa, ferma e ricettiva, allora col tempo ci ritroveremo a
volere che tutta la nostra vita sia così.
Dunque, se siamo rigidi e giudicanti andremo incontro a un crescente
sbilanciamento, saremo sempre più affannati e a un certo punto la stanchezza
e la tensione avranno il sopravvento. Per lo più bisogna ripetutamente
incappare in questo errore per poter capire e apprezzare finalmente la più
sottile modalità ricettiva. A questo proposito si può osservare che la
stessa parola ‘energia’ tende a evocare qualcosa che si proietta, si
slancia, corre eccetera, mentre il concetto di una energia
ferma-flessibile-trasparente è meno familiare e quindi richiederà più tempo
per tradursi in realtà ed entrare in circolo.
Allora: inspirare sapendo di inspirare, espirare sapendo di espirare. Nulla
di più, nulla di meno. Più questo ritmo corpo-mente è semplice e innocente,
più aiutiamo la consapevolezza a emergere. Quanto più, al contrario, ci
agitiamo, tanto più ci allontaniamo dalla consapevolezza. Però ogni istante
è buono per ritornare alla consapevolezza, deponendo l’agitazione e
l’affanno
giudicante. O meglio: collocando tranquillamente anche l’affanno giudicante
nel raggio della consapevolezza, secondo lo spirito della ‘mente del
principiante’.
Tornare all’attenzione al respiro come se fosse la prima volta: questo è
l’albeggiare
della mente di principiante. Ma quando poi riusciamo ad osservare con la
medesima innocenza il nostro rammarico per esserci distratti, allora la
mente di principiante comincia a diffondere la sua luce.
Il rammarico che viene, il rammarico che va, il giudizio che viene, il
giudizio che va: esattamente come il respiro che viene e il respiro che va.
Il continuo cangiare del corpo e della mente che si riflette in una
consapevolezza via via più equanime e compassionevole.
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