Karma e responsabilità

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Karma e responsabilità

di Mario Bracchetti

[Appunti tratti da: Gaingiorgio Pasqualotto: – Dieci lezioni sul
buddhismo- Padova, Marsilio, 2008]

Il buddhismo si muove in prospettiva determinista, ma non fatalista.
Nel fatalismo è implicito che i fatti siano predispo­sti e preordinati
da una potenza trascendente e si compiano nei tempi da questa
stabiliti. Il determinismo al contrario, considera le influenze delle
azioni passate nel compimento delle azioni presenti, le quali a loro
volta producono conse­guenze nel futuro.

Non essendovi la possibilità di sostenere l’esistenza di un io
autonomo e permanente, l’azione prodotta da un in­dividuo non può
essere addebitata soltanto a lui, ma assume un carattere collettivo,
poiché le condizioni ambientali e so­ciali risultano indirettamente
responsabili, anche se poi egli è l’unico destinatario della pena,
data l’ovvia impossibilità di comminarla all’ambiente e alla società.

La legge di causa-effetto, applicata alla sfera morale, è la legge di
causazione (karma), attraverso cui l’uomo rac­coglie ciò che ha
seminato, costruisce il suo carattere, cerca il suo destino, ottiene
la sua liberazione. L’impiego degli aggettivi possessivi rinvia
inconsapevolmente all’idea di un soggetto a cui sono attribuibili come
sua proprietà privata un carattere, un destino, una liberazione. Ma
non è così.

Questa tesi si riferisce al periodo dell’apprendistato nell’itinerario
della liberazione, quando ancora il praticante crede nell’esistenza
reale del suo io. Il fatto è che la pratica buddhista, esercitata
mediante la meditazione, consiste pro­prio nel progressivo
scioglimento di questa credenza e con­duce a cogliere l’io come una
pluralità di condizioni mute­voli, come una realtà priva di un sé,
essendo l’individualità empirica un semplice processo in continuo
cambiamento.

Quindi, non può essere la sua coscienza, la sua indi­vidualità la sola
responsabile, per il fatto che non viene te­nuto nella debita
considerazione il contrasto con la teoria dell’anatta, secondo cui non
sarà lui a subire direttamente come persona le conseguenze
dell’azione, ma sarà un altro che, però, non è diverso da lui. La
fiamma della candela morente non è uguale, ma non è neanche diversa
dalla fiamma della nuova candela.

Vi è una continuità causale tra l’azione e il suo effet­to, ma non vi
è una persona o una coscienza che ne raccolga direttamente i frutti, o
che debba poi tornare a rinascere senza alterità, cioè rimanendo la
stessa persona. Se l’idea di karma servisse a spiegare il rapporto tra
causa ed effetto fa­cendo riferimento all’io come centro unitario e
invariabile, diventerebbe legittimo parlare di reincarnazione,
intenden­dola, come un passaggio da un corpo all’altro, ma
dell’esi­stenza dell’anima non vi è alcuna certezza.

È ovvio che, a questo punto, scatta l’obiezione: « Non si elimina in
tal modo l’idea di responsabilità perso­nale? » Ogni azione viene
moralmente accompagnata dalla nozione di merito o demerito: chi non ha
raggiunto uno sta­bile grado di maturazione e fa una buona azione, non
la fa con generosità e altruismo, ma è motivato dalla speranza di un
riconoscimento da parte di un’autorità morale, civile, religiosa,
oppure da un’istituzione politica, o dal consenso so­ciale; chi fa una
cattiva azione è motivato dall’interesse di soddisfare un suo
desiderio, però sempre nel timore di rice­vere giudizi di demerito e
punizioni.

In ogni caso, si ha un interesse privato fondato sull’accrescimento
della potenza dell’io, il quale, invece di riconoscere l’intima
interconnessione con tutti gli altri esse­ri, si reputa autonomo e
indipendente; egli non ha ancora realizzato la propria inconsistenza e
impermanenza e rap­presenta se stesso ancora come un punto unitario
stabile, dove convergono le linee che costituiscono le cause e da cui
si originano le linee che predispongono gli effetti del suo
comportamento, ma questa è una evidente e deviante visio­ne
egocentrica.

Invece per i liberati, per i realizzati, per gli illumina­ti la teoria
del karma vale solo come chiarimento della con­sapevolezza che ogni
azione è il risultato di una rete infinita di cause e produce una rete
infinita di effetti. Ciò non signi­fica l’annientamento del karma come
sistema di retribuzio­ne morale, ma ne è il superamento.

Quando il senso dell’io è atrofizzato o addirittura as­sente, accade
che l’azione è del tutto disinteressata e gratui­ta e, in quanto tale,
si pone al di là del livello in cui può es­sere qualificata buona o
cattiva. Il livello sul quale si pone questo tipo di azione fondata
sull’assenza dell’io è talmente alto che non ha bisogno del concetto
di responsabilità.

È allora che l’idea di karma cambia stato e il nibbana coincide col
samsara, ma è da precisare che questa coinci­denza la sperimenta solo
chi è andato al di là del samsara e chi non ne è rimasto prigioniero.
Questi è condannato a ri­nascere, rinascere, rinascere fino quando non
avrà compreso che la vita è data come opportunità di liberazione dalla
con­danna.

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