Klaus Schulze. Sinfonie elettroniche per lo spirito

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Klaus Schulze. Sinfonie elettroniche per lo spirito

di Sergio d’Alesio per auraweb.it

Parlare con Klaus Schulze significa incontrare il padre della musica cosmica e di tutti i generi
nati dalla contaminazione tra il rock e l’elettronica, e di tutte le evoluzioni contemporanee dei
suoni computerizzati, a cominciare dalla new age.

Multistrumentista di gruppi-pilota come i Tangerine Dream e Ash Ra Tempel, nel corso della sua
trentennale carriera, ha esplorato in proprio – e attraverso il suo alter ego Richard Wahnfried –
l’anima più sperimentale della dimensione elettronica, interagendo fra l’altri con i Cosmic Jokers,
Stomu Yamash’ta, Rainer Bloss, Sergius Golowin, Ernst Fuchs, Andreas Grosser, Michael Shrieve e via
dicendo.

Il suo nuovo album Moonlake è dedicato alla straordinaria bellezza dell’omonimo lago austriaco e
propone il ritorno delle percussioni in un ruolo più centrale e dominante, supportate dall’utilizzo
del mini-moog, suonato per la prima volta con l’ausilio del distorsore e del wha wha.

Il progetto propone quattro track di lunga durata, registrate in studio (“Playmate In Paradise” e
“Artemis In Jubileo”) e a uno dei megashow che il “disegnatore di luci” Gert Hof ha tenuto per me a
Posen in Polonia (“Same Thoughts Lion” e “Mephisto”), e miscela la musica elettronica con una lirica
world orientaleggiante. La nostra intervista esclusiva è stata realizzata direttamente da Berlino.

– Cosa ispira le sue sinfonie elettroniche?

Nella mia musica non c’è mai stato un riferimento speciale né univoco. All’inizio degli anni
Settanta ascoltavo il rock di quel periodo perché era molto semplice da capire, ma le mie opere non
avevano nulla a che vedere con i suoni di quel periodo. Io stavo sperimentando delle sonorità che
tendevano a svelare nuove frontiere dell’arte. E questo accade ancora oggi.

A parte le opere di Mozart, di Beethoven, di Schubert, di Bach, di Grieg e di Rossini, per me è
realmente difficile ascoltare una musica che non sia la mia. È un riflesso inconscio, che mi
allontana dai consumatori abituali che continuano a operare il banale distinguo fra i titoli di
breve durata del pop e le opere di lunga durata, identificate nella musica classica. Ovviamente
questo non è il metro con il quale ascolto e compongo la mia musica…

– Gran parte dei suoi estimatori affermano che le sue composizioni propongono musica per lo spirito
e per la mente, non per il corpo: sono queste le emozioni che vuole trasmettere?

Ogni tipo di musica, eccetto la dance, è musica destinata allo spirito e allo scoprire il
significato dell’esistenza, non al corpo. Quella di intrattenimento raggiunge solo i livelli esterni
e superficiali del nostro spirito, mentre quella seria ha un effetto molto più radicale e profondo.

– Nel corso della sua carriera certe sue opere erano accompagnate da slogan del tipo: “Usa il tuo
cervello” e “Apri le tue orecchie”… Pensa che siano attuali ancora oggi?

In realtà è sempre stato un malinteso, perché “Use Your Brain!” era uno slogan coniato nel 1977
dalla compagnia discografica Metronome, proprietaria dell’etichetta Brain . Un semplice gioco di
parole usato precedentemente anche dalla Ohr

– Cosa distingue la sua carriera da solista da quella del suo alter ego Richard Wahnfried?

Se avessi voglia di dire qualcosa di preciso avrei scritto degli articoli, dei saggi o dei libri, ma
sino a oggi ho sempre preferito comporre e suonare la mia musica. Quando indosso il nome di Richard
Wahnfried ho la libertà d’interagire con musicisti differenti, creando dei suoni del tutto opposti a
ciò che compongo da solo.

– Ci può raccontare qualcosa delle sue interazioni con le voci dell’opera classica?

La voce umana è il primo strumento naturale dell’umanità: quello che convoglia le emozioni. A me,
come alla maggior parte della gente, piace ascoltare la voce di Maria Callas o di Willie Nelson. Sin
dal 1974 durante le sessioni di Blackdance ho provato a lavorare con una serie di voci maschili e
femminili e con il coro classico. Sono esperienze che tonificano il mio spirito.

– Che tipo di processore elettronico preferisce usare in studio?

Se entra nel mio websitewww.klaus-schulze.com e clicca su “studio” ci sono una lunga serie di
immagini realizzate nel maggio del 1996, che mostrano come io abbia cambiato i vecchi Atari dei miei
esordi con i Macintosh. E poi, nel corso degli ultimi trent’anni, sono cambiati gli strumenti,
l’atteggiamento della gente, la mentalità degli artisti, i media, la moda e il tipo di ascoltatori.
Passare dall’analogico al suono digitale, ai sampling e alla computer music ha influenzato ogni mio
processo compositivo.

– Cosa ricorda del periodo trascorso alla Innovative Communication?

Ho scoperto la IC nel 1978, semplicemente perché in quel periodo non c’era alcuna etichetta
interessata alla musica elettronica. Non ho mai venduto molti dischi sino a Ideal (700mila copie
solo in Germania, ndr.) Nel 1983, durante un vasto giro di concerti, mi sono accorto che la IC non
aveva una buona distribuzione in Europa, così ho continuato lavorare con la Brain, passando poi alla
Virgin, che aveva ottenuto dei grandi risultati con i Tangerine Dream e Mike Oldfield.

– Le piace la musica elettronica del nuovo millennio?

Oggi non ha più senso parlare di musica elettronica, perché la maggior parte delle registrazioni
sono elettroniche. Costano meno e hanno una connection diretta con la dance, la trance e il pop. Il
95% della musica è creata con i sample e il software del computer. Mi ricordo che, negli anni
Sessanta, il pianista classico Glenn Gould aveva già previsto tutto questo. È realmente divertente
ascoltare i nuovi gruppi inglesi che suonano con la strumentazione che i Tangerine Dream usavano nel
1973, senza possedere la freschezza, l’energia e la loro emotività espressiva.

– In una prospettiva posteriore pensa che voi artisti del settore, tipo Vangelis, Mike Oldfield,
Roedelius, Kitaro, Jean Michel Jarre, Kitaro e lei stesso, abbiate inconsciamente compiuto degli
errori di valutazione?

Nel mio caso ho sempre cercato di registrare ogni progetto al massimo delle mie capacità espressive,
anche se dopo sei mesi o due anni ti accorgi che non era proprio così… Conosco personalmente
Roedelius, Edgar Froese e Kitaro, ma non ho mai seguito con attenzione la loro musica.

– Steve Roach l’ha sempre citata come il compositore che “ha aperto le porte” alla musica
elettronica…

Sulla rivista americana “Synapse” scrisse un articolo interessante sulla mia musica e, al pari di
molti altri artisti e imitatori che nel corso degli anni mi hanno inviato delle lettere ricche di
complimenti, ha iniziato anche lui comporre musica elettronica sulla mia scia…

– Come nasce il suo nuovo album Moonlake?

In realtà non avevo in programma di registrare un altro cd. Avevo firmato un contratto con la SPV
per la rimasterizzazione del mio back-catalogue, iniziando da Das Wagner Desaster Live, che avevo
registrato con la vocalist Julia Messenger, ma la compagnia mi ha chiesto un progetto inedito, così
ho composto in studio “Playmate In Paradise” e “Artemis In Jubileo”, preferendo registrare dal vivo
le altre due suite, durante la mia partecipazione al festival multimediale all’aperto che si tiene a
Posen, quest’anno dedicato al nuovo millennio del calendario cinese, con uno show luminoso del
grande Gert Hof, che si è visto fino a 40 chilometri di distanza.

– In questo lavoro usa per la prima volta il mini-moog con effetti distorti e il wha-wha…

C’è stata una sorta di malinteso riguardo a questo. In realtà ho sempre suonato il mini-moog in
studio, ma Moonlake ospita anche una lunga sequenza di improvvisazioni create con il pedale wha-wha
e le distorsioni anche sul palcoscenico.

– Preferisce registrare dal vivo o in studio?

Adoro i concerti, sono più ispirato e assimilo l’adrenalina della gente che mi circonda. Negli anni
Settanta i promoter tendevano a risparmiare, organizzando i concerti nelle cattedrali, mentre oggi
suono di fronte a decine di migliaia di persone. A dicembre tornerò anche in Italia, suonando
gratuitamente in piazza del Popolo a Roma. In studio è tutto più grigio. È difficile uscire dai
condizionamenti ambientali del training quotidiano. Mi sento come chiuso in una gabbia…

– L’album interagisce anche con la world music…

Le mie ispirazioni al riguardo nascono dall’interazione con il musicista folk Thomas Kagermann.
Negli anni Settanta era semplicemente un chitarrista folk, ma oggi suona il flauto, il violino e
differenti strumenti asiatici, che sono finiti nell’album sotto forma di sample.

– Il titolo Moonlake è dedicato a un lago austriaco, vero?

Tutto è nato durante una vacanza in Austria. Ero circondato da una cornice naturale davvero
splendida, che ha ispirato buona parte dell’album.

– Prima di scoprire le possibilità espressive dell’elettronica lei ha iniziato a suonare come
batterista: mi sembra che le percussioni siano uno degli elementi che caratterizzano questo nuovo
lavoro…

Ho riacceso il mio flirt con i groove! Quando ho smesso di suonare la batteria, ho composto solo
musica strumentale con le tastiere. Su Moonlake ho ripreso a picchiare sulla batteria, ma molti
suoni nascono dalla drum machine elettronica e dai loop.

– Come ne pensa della musica contemporanea?

Non accade molto e tutto si ripete all’infinito. Negli anni Ottanta e Novanta c’era la techno, la
ambient, l’hip hop e la trance: oggi non c’è nulla di nuovo. Negli anni Settanta eravamo degli eroi
a creare dei suoni rivoluzionari, mentre oggi puoi comprare milioni di suoni preconfezionati che
tutti usano.

– Perché, dopo dieci anni di sodalizio con Pete Namlook, nel 2005 ha deciso di interrompere la serie
“The Dark Side Of The Moog”?

Era un progetto sperimentale di lungo corso, nel quale ho coinvolto anche Bill Laswell al basso. Era
solo un gioco che faceva il verso ai Pink Floyd…

– È ancora interessato a comporre per il cinema?

Oggi è tutto più difficile, perché non componi la tua musica, ma devi seguire la sceneggiatura del
film e ti senti come privato della tua personalità artistica…

– È esattamente quello che ci ha detto la compositrice australiana Lisa Gerrard dopo l’esperienza de
Il gladiatore…

Amo molto la vocalist dei Dead Can Dance e mi piacerebbe lavorare con lei.

– Per lei la musica è sempre una forma di autoterapia?

Amo il mio lavoro. Quando posso concentrarmi su un progetto preciso, mi sento felice e mi diverto.
Questo è un modo per restare vivo, in salute e in armonia con il mio spirito.

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