Krishnamurti: la consapevolezza, l’amore, la libertà

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Krishnamurti: la consapevolezza, l’amore, la libertà

di Giuliano Giustarini

(Le radici del cielo sono nel silenzio profondo e costante)

Krishnamurti nacque nel 1895 a Madanapalle (presso Madras, nell’India
del sud), da una famiglia di modeste condizioni economiche. Ancora
tredicenne, fu ‘riconosciuto’ dalla società teosofica, allora
presieduta da Annie Besant, come il maestro del mondo di cui era stata
preannunciata la venuta e fu quindi portato in Europa dove, insieme
all’inseparabile fratello Nitya, ebbe un’istruzione di tipo
occidentale. Su iniziativa della stessa Besant e di Charles Leadbeater
(il teosofo che, grazie a presunte doti di chiaroveggenza, aveva
indicato in Krishnamurti l’atteso ‘messia’), fu istituito l’Ordine
della Stella, con a capo lo stesso Krishnamurti. Nel 1925 Nitya morì
di tubercolosi. Fu un’esperienza di grande dolore per Krishnamurti e
fu, al contempo, causa di una profonda trasformazione: come egli
stesso ricordò in seguito, dovette confrontarsi con l’immensa angoscia
della perdita e lo fece senza ‘fuggire’, senza ricorrere a credenze
consolatorie. Nell’agosto del 1929, davanti a un’assemblea di seguaci
dell’Ordine della Stella riunitasi a Ommen Camp, in Olanda, per
ascoltarlo, Krishnamurti lasciò sbalorditi tutti i presenti decretando
lo scioglimento dell’Ordine. Affermò, in quell’occasione, che la
ricerca spirituale deve essere una questione personale e che egli non
sarebbe stato più la stampella di nessuno. In quello stesso discorso,
espresse il suo intento di continuare a parlare a chiunque lo avesse
ascoltato, “per rendere libero l’Uomo”. Da allora Krishnamurti ha
girato il mondo incoraggiando a cercare la Verità dentro se stessi,
senza accettare alcuna autorità, esterna o interna.

L’oggetto centrale dei suoi discorsi è la liberazione e ciò che
impedisce la liberazione. L’immersione appassionata in questo che può
essere considerato il cuore della ricerca spirituale ha toccato temi
essenziali quali la morte, la paura, l’amore, il rapporto con gli
altri, la meditazione, la religione, la natura della mente. Quale che
fosse l’argomento su cui si soffermava, Krishnamurti ha sempre
sottolineato il ruolo fondamentale della consapevolezza, del semplice
vedere le cose così come sono, senza manipolazioni da parte dell’io.
Soltanto la consapevolezza può condurre alla fine del condizionamento
e dunque alla radicale trasformazione dell’individuo.

La trasformazione ha luogo in virtù del vedere il condizionamento in
tutti i suoi aspetti, senza evitarlo, senza rifugiarsi in sensazioni
gratificanti che, comunque, appartengono al condizionamento. Uno degli
aspetti del condizionamento su cui Krishnamurti si è maggiormente
soffermato è il ‘tempo’. Va detto innanzitutto che Krishnamurti,
quando parla del tempo, distingue tra tempo effettivo e tempo
psicologico. Quest’ultimo è una manifestazione dell’attaccamento, cioè
dell’incapacità di stare nel ‘qui e ora’, della tendenza a proiettare
un’immagine nel futuro utilizzando il ‘conosciuto’ accumulato nel
passato. Secondo Krishnamurti non ci può essere consapevolezza qualora
ci si limiti a proiettare nel tempo i propri contenuti mentali, il
‘pensiero’. Soprattutto perché il pensiero, al contrario della
consapevolezza, è limitato, condizionato. Identificandosi con qualcosa
di limitato, l’individuo diviene frammentato, aggrappato a
quell’immagine, quel frammento che è l’io.

Ciò che chiamiamo pensiero è la risposta della memoria, e dove scatta
questa reazione condizionata non ci può essere passione né intensità.
C’è intensità solo dove c’è totale assenza di io.

Proprio per i rischi che si insinuano nella visione del tempo
psicologico, Krishnamurti è sempre stato estremamente restio a parlare
di pratica, ritenendo ogni concetto di gradualità un impedimento alla
visione immediata delle cose. Considerare il lavoro interiore in
termini di tempo significa consegnarlo a quello che, nella tradizione
buddhista, viene chiamato tanha, il desiderio, la separazione della
mente da ciò che è. Proprio il Buddha definisce il Dharma, cioè la
verità ultima, akaliko, senza tempo.

La consapevolezza è la qualità della mente che osserva senza
giustificazione o condanna, approvazione o disapprovazione, attrazione
o repulsione, che si limita a osservare

Una nota frase di Krishnamurti riguardo alla consapevolezza è
‘l’osservatore è la cosa osservata’. Con ciò si intende la necessità
di non porre una distanza psicologica tra noi e l’oggetto
dell’osservazione. L’osservatore, nel caso di un processo dualistico,
è il conosciuto, la conoscenza che ha accumulato nozioni, ferite,
reattività e che non può assolutamente vedere, ma soltanto proiettare
un’immagine precostituita. L’osservazione senza un osservatore
significa dunque svuotare la coscienza di quei contenuti che velano la
realtà del momento presente:

Nell’ambito del conosciuto c’è attaccamento, con le sue paure, le sue
disperazioni, e la mente che è trattenuta in quest’ambito, per quanto
esteso e vasto sia, non è mai libera.

La separazione psicologica, spaziale (osservatore-osservato) o
temporale (tempo psicologico, gradualità) è l’io. La fine dell’io è la
fine del conosciuto. Allora rimane soltanto una consapevolezza nuda,
autentica, innocente. Questa consapevolezza è amore (l’amore, secondo
Krishnamurti, è ‘morire all’io’ ed è la vera libertà.

Dobbiamo morire giorno per giorno a tutte le cose che abbiamo
accumulato psicologicamente.

Amore e libertà sono due termini che Krishnamurti usa per indicare
l’Incondizionato e per ispirare la visione profonda della realtà. Si
tratta, dunque, di due approcci alla ricerca interiore diversi ma
sostanzialmente convergenti, due vie attraverso le quali
l’Incondizionato si tende verso di noi manifestando il suo profumo. In
questo modo i libri di Krishnamurti appaiono al lettore come sentieri
di indagine nella mente, con una freschezza intrinseca che li rende
vere e proprie ‘meditazioni in atto’.

Perché questo modo di parlare della libertà e dell’amore non perda la
sua capacità di evocare la consapevolezza, bisogna ‘spolverare’ questi
termini da ogni eventuale distorsione. Ciò significa, innanzitutto,
riconoscere e rifiutare tutto ciò che non è amore, smontando così, per
mezzo di un’acuta e costante osservazione, l’intero edificio dell’io.
Soltanto questo processo di sincera e appassionata negazione può
condurre alla scoperta dell’amore autentico.

Solo scoprendo che cosa l’amore non è, sapremo che cos’è l’amore.

La meravigliosa ricerca dell’amore passa perciò attraverso
l’osservazione diretta, non giudicante, del desiderio, del piacere,
della ricerca di sicurezza e di tutto ciò che limita le nostre
relazioni e le tramuta in conflitto. Ovvero, l’indagine di
Krishnamurti si focalizza essenzialmente sull’io, poiché, se non si
comprende veramente il movimento anche sottile dell’io, tutto ciò che
viene chiamato amore non è altro che un’immagine illusoria, rafforzata
con l’attaccamento alle tradizioni o agli ideali.

Lo stesso discorso vale per la libertà. Il primo possibile
fraintendimento da cui Krishnamurti mette in guardia è quello di
vedere la libertà come forma di reazione, cioè come qualcosa che si
contrappone a ciò che lega, che condiziona. Ma ciò che è l’opposto di
una cosa, afferma Krishnamurti, appartiene allo stesso ambito di
quella cosa, cioè al limitato, al condizionato. Una libertà come forma
di reazione è un’azione che si muove sempre e comunque
orizzontalmente, che non osa quel balzo definitivo verso la libertà
assoluta.

L’insegnamento di Krishnamurti, come si è visto, mira a eliminare
quella distanza che siamo soliti creare tra noi e l’Incondizionato,
tra noi e la vera natura delle cose. La libertà stessa viene reificata
dall’io, ridotta a un concetto, a un’astrazione del pensiero e perciò
dello stesso condizionato, del ‘conosciuto’. Inoltre, viene vista come
un obiettivo da raggiungere, un oggetto da ottenere, un qualcosa da
cui ci separa, di nuovo, l’illusione del ‘tempo psicologico’. Ajahn
Sumedho chiama questa trappola dell’io gaining idea, il concetto,
cioè, che dobbiamo conquistare qualcosa da cui siamo divisi, lontani.
Rimandiamo, così, l’atto di vedere, ostacoliamo la visione immediata
delle cose, ponendo tra noi e la libertà ultima la barriera del tempo,
del pensiero, dell’attaccamento, della paura. Come insegna la
tradizione buddhista (specialmente le scuole del Mahayana), la
libertà, o natura di Buddha, è già presente, ma non la vediamo. Il
sottile insegnamento di Krishnamurti ruota intorno a questo asse
cruciale: non c’è una ‘liberazione nel futuro’ (definizione che evoca
la nozione di tempo psicologico e allontana dalla presenza mentale),
ma esiste soltanto il momento presente, che è senza tempo, che è già
libertà. Questa relazione tra momento presente e libertà la ritroviamo
nelle parole del maestro Zen Suzuki Roshi:

Se andate alla ricerca della libertà, non potete trovarla. La libertà
assoluta stessa dev’essere presente già prima che voi possiate
ottenere la libertà assoluta.

Nello stesso modo Krishnamurti è solito ripetere: “Il primo gradino è
l’ultimo gradino”. Egli si rende conto che parlare di libertà può
diventare un’oziosa speculazione su teorie o ideali, una stagnante
proliferazione del pensiero. I suoi libri non espongono concetti (ne
siamo già pieni) ma comunicano l’urgenza di vedere, di trasformare se
stessi, di assaporare quel ‘frutto prezioso’, quell’‘incommensurabile
qualcosa’.

Votarsi alla libertà e a scoprire cos’è l’amore, sono queste le uniche
due cose che contino: la libertà e quella cosa chiamata amore.

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NOTE

1. Krishnamurti, A se stesso, Ubaldini Editore, Roma 1990, p. 18.

2. Per la biografia di Krishnamurti si veda Mary Lutyens, La vita e la
morte di Krishnamurti, Ubaldini Editore, Roma 1990.

3. Krishnamurti, Sull’amore e la solitudine, Ubaldini Editore, Roma
1996, p. 111.

4. Krishnamurti, Sulla libertà, Ubaldini Editore, Roma 1996, p. 117.

5. Sulla libertà, p. 75.

6. Krishnamurti-Andersson, Un modo diverso di vivere, Ubaldini
Editore, Roma 1996, p. 154.

7. Sull’amore e la solitudine, p. 65.

8. Sull’amore e la solitudine, p. 68.

9. Shunryu Suzuki, Mente Zen, mente di principiante, Ubaldini Editore,
Roma 1976, p. 92.

10. Sulla libertà, p. 112.

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