LA CATARSI NELL’OPERA TEATRALE
di Tania Zakharova
Prender, sì, da queste cose qui in terra belle;
ma avere in ogni istante,per suprema meta quella Bellezza assoluta, e salire su.
E sarà come per gradini di una scala ascendenti.
(Platone, Il Convivio)
Cosa succede nel momento magico in cui un attore teatrale dà vita ad un personaggio e cerca di coinvolgere il pubblico, di trascinarlo con sé entro un’altra dimensione coscienziale? Per secoli i grandi poeti, filosofi e artisti hanno indagato questo misterioso fenomeno da più prospettive: psicologica, filosofica, estetica, spirituale. L’arte, per Aristotele costituisce una forma di conoscenza che ricrea le cose secondo una nuova dimensione. Nel periodo classico la tragedia aveva per effetto la catarsi (dal greco kátharsis, purificazione). L’azione tragica proponeva una vicenda verosimile ad una condizione del vivere comune. Il susseguirsi di queste azioni era mirato alla risoluzione delle vicende messe in scena, e portava l’animo dello spettatore prima a indagare nel proprio io alla ricerca delle colpe, poi a liberarsi da questa condizione emotiva di disagio attraverso il fenomeno della catarsi. La Poetica di Aristotele individua la catarsi come il liberatorio distacco dalle passioni rappresentate nell’opera letteraria, distacco che interviene nel momento in cui si coglie la ragione celata negli eventi. La tragedia, rappresentando (imitando) fatti gravi, luttuosi, suscita forti emozioni, ma alla fine libera dal tormento “purificando il simile col simile”:
“…ora tratteremo della tragedia, ricavando dalle premesse precedenti la definizione della sua sostanza: tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.”(1)
La catarsi trova, nella trattazione di Aristotele, una forma di applicazione generale tra le regole della sua estetica (intesa come formulazione del pensiero filosofico applicato alla realtà), poiché definisce scopo ed effetti dell’arte. Platone utilizza questo termine per indicare la liberazione dal corpo per opera della morte, vista come ritorno dell’anima alla perfezione dopo la costrizione limitante vissuta nella materia. Ma in senso più ampio, Platone intende per “catarsi” un processo conoscitivo attraverso il quale ci si libererebbe dalle impurità per tornare ad uno stato di purezza originaria. Breuer e Freud negli Studi sull’isteria, riprendendo il significato aristotelico, avevano introdotto il termine abreazione(2) come processo terapeutico in cui si realizza una purificazione, una scarica emotiva degli affetti patogeni. La cura consentirebbe al soggetto di rievocare e perfino di rivivere gli eventi traumatici ai quali sono legati questi affetti e di “abreagirli”. Per lo psicoanalista Franco Fornari, Freud si rese conto che ciò che agiva terapeuticamente nel metodo catartico non era semplicemente la possibilità di rappresentare il fatto penoso obliato attraverso il ricordo, bensì il rivivere il ricordo nell’ambito di una relazione di transfert che, in quanto comporta affetti, implica una mescolanza di energia e di significazione. […] Il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona in qualcosa che sta al posto di un personaggio (1979, pp. 155-157).(3)
Nel 1921 Sandor Ferenczi, un allievo di Freud, indica nella “tecnica attiva” un intervento dinamico nel quale al paziente vengono assegnati ruoli e compiti, anticipando la tecnica psicodrammatica. Jacob L. Moreno affidò la funzione di abreazione alla drammatizzazione introducendo l’idea che la catarsi avviene nell’attore che è impegnato nella rievocazione, oltre che nello spettatore. Recitando situazioni passate, presenti o future-immaginarie della propria vita, i conflitti e le pulsioni possono essere esperiti in maniera intensa ed affettivamente coinvolgente. Più recentemente all’interno di paradigma delle Arti-terapie, la prospettiva della drammaterapia (o teatroterapia) propone una concezione della catarsi che integra ed estende tali riflessioni. Ritornando alla radice teatrale, il drammaterapeuta vede la catarsi come un processo attivo di “transfert” e trasformazione degli affetti. Attraverso la rappresentazione artistica, lo spettatore può comprendere, attenuandone l’effetto emotivo immediato, gli aspetti profondi della sua realtà psicologica ed esistenziale. Contemplare dall’alto, vedere da una certa distanza o da un altro punto di vista le passioni che ci trascinano, può contribuire alla comprensione del loro significato.
Nella comprensione di Robert Landy (1999, p. 137), la catarsi nella drammaterapia non è necessariamente uno sfogo di forti sentimenti, spesso è “l’abilità di riconoscere le contraddizioni, di vedere come aspetti conflittuali della vita psichica, del pensiero, del linguaggio o del sentimento possano esistere simultaneamente”(4). La catarsi, allora, può essere vista come il riconoscimento di un conflitto che genera tensione e disagio. Assumere una posizione dalla quale poter modulare la propria esperienza, spostandosi sui gradi del vissuto emozionale, vuol dire porsi a una “giusta” distanza da un contenuto emotivo: «possiamo intendere il distanziamento come un’interazione o un processo intrapsichico caratterizzato da un certo grado di partecipazione e di distanza» (Landy, 1999, p. 138). Landy fa coincidere il concetto di distanza estetica con quello di catarsi, intesa come conquista di equilibrio tra emozione e consapevolezza, tra coinvolgimento e distacco. Ad una “distanza estetica”, la persona può esperire l’ansia senza esserne sommersa; può “sentire intelligentemente” e “capire con sentimento”, elaborando la tensione attraverso un nuovo livello di comprensione. In questa prospettiva la catarsi è il raggiungimento di una posizione di distacco da cui si può arrivare a cogliere la natura profonda della realtà (impermanente, interrelata) in cui bene e male, sofferenza e felicità possono convivere.
L’elaborazione del concetto di catarsi che ci ha lasciato nei primi decenni del secolo scorso Lev Vygotskij, offre degli spunti interessanti proprio a partire dall’esperienza estetica. Lo psicologo russo insorge contro chi vorrebbe vedere nell’arte solamente una funzione conoscitiva, gnoseologica, e anche contro chi riconduce l’arte al sentimentale, nella sua versione edonistica (l’arte come piacere). La sua attenzione va al processo di trasformazione che attraverso l’opera si mette in atto. Il processo artistico, insieme alla “metamorfosi del materiale dell’opera”, produce anche una “metamorfosi dei sentimenti”(5). Sentimenti, emozioni, passioni si trasfigurano innalzandosi dalla sfera strettamente individuale per divenire sociali e universalizzarsi. «Così, il senso e la funzione d’una poesia sulla tristezza non stanno affatto nel trasmettere a noi la tristezza dell’autore, nel contagiarci con essa, bensì nel trasformare questa tristezza in modo che agli uomini si riveli qualcosa di nuovo, in una più alta verità di vita» (ivi, p. 10). Per Vygotskij, il processo della catarsi si esprime attraverso “il contrasto di sentimenti” dove il contenuto affettivo di un’opera, si sviluppa in due direzioni contrarie, ma convergenti verso un unico punto finale nel quale si determina una trasfigurazione del sentimento, una sua chiarificazione e illuminazione» (ivi, p. 11).
La tragedia ci dispone a tendere verso l’infinito, a proiettare il nostro sentire oltre i limiti dell’io, delle emozioni personali, mettendoci a contatto con il tremendo e il sublime. È questa la posizione di W. M. Dixon (1925)(6) che denuncia il rischio del dramma moderno di perdere questa funzione epifanica, riducendo quei motivi universali a questioni sociali e psicologiche. Mentre il personaggio tragico, adempiendo alla funzione della tragedia, contribuiva al progresso etico: riaffermando il legame religioso (re-ligāre) dell’uomo con il suo “destino meta-psicologico”. La katharsis diventava un forte segno di rigenerazione spirituale. In questo ultimo caso potremo parlare di “livelli crescenti di libertà”, nell’accezione kantiana. La libertà è, per Kant, «un principio che è capace di determinare l’idea del soprasensibile in noi…”.(7) L’ammirazione di bellezza e il sentimento religioso, hanno molto in comune nell’essere entrambi la porta per l’esperienza del sublime, estrema condizione di libertà, sganciata da ogni esperienza sensibile e emotiva. Il sublime è infatti, per Kant, «ciò che, anche solo a poterlo pensare, attesta una facoltà dell’animo che supera ogni misura dei sensi» (ivi, p. 86). Angela Ales Bello(8), partendo dalle pagine del Convivio di Platone, esplora il tema dell’amore tracciato da Edith Stein(9), rintracciando diversi livelli del sentire partendo da quello psicofisico detto “sensoriale” in cui assumono rilievo le sensazioni di attrazione/repulsione, fino a un livello che l’autrice chiama “religioso-sapienziale”, frutto di un cammino conoscitivo e spirituale, di una iniziazione o pedagogia sapienziale: «un processo educativo che ha bisogno di un Maestro, conoscitore della verità, il quale conduce verso il bene» (ivi, p. 142. ) e verso la Bellezza assoluta. La filosofa e antropologa Suzanne Langer, ha descritto il processo psichico simile alla nozione di catarsi che si esprime nella “esperienza estetica” e in “performance rituale”.
In particolare, descrive le emozioni suscitate nei diversi contesti, ponendo accento sul significato, sulla trasformazione, sulla distanza estetica, sulla libertà. Nell’esperienza estetica, il materiale fornito dai sensi viene, secondo la Langer, trasformato: […] l’emozione estetica scaturisce dal superamento di barriere (costituite da pensiero coatto) e dall’ottenere di penetrare in certe realtà che sono, letteralmente, “ineffabili”; ma il contenuto emotivo dell’opera può essere qualcosa di molto più profondo di ogni esperienza intellettuale…: le realtà ultime stesse, i fatti centrali della nostra breve, senziente esistenza. Il “piacere estetico”, allora, è affine (benché non identico) alla soddisfazione di scoprire la verità(10). Quindi scoprire la “verità artistica” non ha a che fare con i significati razionali, ma con la trasformazione che l’opera nei suoi modi propri induce. La ricerca dell’esperienza di verità è stata per tutta la vita l’obiettivo del fondatore del conosciuto metodo teatrale, lo scienziato dell’arte dell’attore, Konstantin Stanislavskij (1863-1938). Secondo il grande regista russo, lo spettacolo ha raggiunto il suo scopo, se “lo spettatore dimentica di aver pagato il biglietto, di essere seduto in una poltrona di velluto, di aver lasciato il lavoro solo momentaneamente, di vivere a teatro il suo tempo libero”.
Stanislavskij interpreta la versione della catarsi in un’esperienza artistica che non si colora dallo sgomento e il terrore delle tragedie antiche ma si offre come la sorpresa di osservare la realtà in uno specchio che non la deforma, ma la propone agli occhi dello spettatore che viene posto di fronte a sé stesso, alla sua realtà profonda. Per raggiungere quella verità così desiderata Konstantin Stanislavskij aveva introdotto un percorso, che coinvolge il corpo, la mente e l’etica dell’attore. Per riattivare le forze creative, per ritrovare il “tesoro” nascosto e renderlo visibile, l’attore doveva raggiungere una disciplina tale da porre ordine nella sua mente; questo significava riuscire a ricomporre i brandelli dei pensieri e delle emozioni, così da ricondurli entro contorni vivi e precisi, per costruire immagini che si collochino in uno spazio interiore ordinato. La scienza psicologica dell’India classica propone metodi e terapie per ristabilire l’armonia nel complesso mente-corpo di un individuo non come fine a sé stessa, ma come strumento per conseguire lo scopo ultimo dell’esistenza: la realizzazione della propria natura ontologica dell’origine divina senza la quale è impossibile sviluppare appieno la propria personalità e raggiungere uno stato di completa soddisfazione interiore.
Come sottolinea nei suoi lavori il Prof. Marco Ferrini, Ph.D. Psychology, fondatore dell’Accademia delle Scienze Tradizionali dell’India, per la psicologia indovedica gli oggetti psichici (idee, pensieri, immagini, emozioni, sentimenti, ecc.) non sono meno reali e consistenti di quelli fisici, caratterizzati da una loro propria conformazione e funzione, rilevabili però con una metodologia differente rispetto a quella utilizzata per i corpi tangibili, e consistente principalmente nel metodo introspettivo, molto più consono e adeguato all’indagine psicologica rispetto a quello epistemologico definito pratyaksha e fondato sulla percezione sensoriale (p.9).(11) “Le scuole psicologiche moderne che non interpretano il processo psichico individuale in un orizzonte teorico di tipo materialistico-positivistico, si differenziano pur sempre dalla scienza psicologica indovedica, in quanto quest’ultima riconosce l’esistenza di una realtà ulteriore rispetto al corpo e alla mente; tale realtà viene identificata con la forza vitale e rappresenta il soggetto cosciente, atman, colui che fa l’esperienza di vedere, pensare, sentire, ecc., servendosi degli strumenti psicofisici”(ivi, p.10). Nel Bhagavata Purana, un compendio di saggezza vedica, c’è uno shloka famoso che afferma che qualsiasi dovere espletato, qualsiasi ruolo svolto non hanno valore se non suscitano in noi il gusto dell’amore, il gusto per la realtà. Senza uno scopo chiaro, sensa una conoscenza finalizzata all’evoluzione spirituale, una performance teatrale diventa un sovrapporsi di suoni, immagini, sentimenti, brandelli di sensazioni e tutto ciò turba, confonde la mente, accrescendo il disagio esistenziale.
Il teatro vedico, che attinge dalle fonti di una tradizione antica di millenni, dove l’essere umano viene considerato come un’entità bio-psico-spirituale, consente un approccio terapeutico armonioso e complesso che purifica, sublima e trasmuta le energie psichiche incanalandole verso una dimensione trascendente. L’artista nella tradizione, sia che si tratti di scrittura, teatro, danza, musica, pittura o scultura, in virtù dell’aderenza alle leggi dell’ordine universale cercava, attraverso le proprie opere, di armonizzare tutti i piani antropologici dell’essere umano. In questa visione l’autentica opera d’arte è considerata quella che attraverso il linguaggio simbolico educa la mente a percepire i concetti di alta psicologia, invitando nel mondo della trascendenza oltre la mera rappresentazione sensoriale. Per la psicologia vedica assistere ad una scena di violenza non è un’esperienza catartica bensì contaminante per la psiche. “Un qualcosa si libera del suo pathos e della sua negatività solo quando viene profondamente compreso e superato. La catarsi è una trasmutazione dell’emotività psichica che avviene naturalmente quando si è in contatto con il Divino, con persone di natura divina, con il messaggio spirituale” (Dr. M.Ferrini, Psicologia e Terapie, Centro Studi Bhaktivedanta). Nell’India antica la rappresentazione teatrale veniva offerta come un sacrificio dove si ricreava l’ordine cosmico universale; un attore, come un sacerdote con i complessi riti di purificazione purvaranga, apriva, alla divinità e a tutti gli attori partecipanti, il luogo sacro della recitazione. Nel teatro indiano, ogni dimensione presentata nell’opera appare racchiusa dentro un’altra superiore, livello metatemporale, che rimane nella mente, come traccia, dove dietro le poesie di una incomparabile fragranza estetica, che dolcemente attirano nel mondo di sentimenti, pensieri, visioni e spazi metafisici, si scopre la realtà spirituale. Secondo il pensiero antico indiano, sia le leggi fisiche che quelle etiche sono espressioni di un unico ordine universale di origine divina, riscontrabile non solo all’esterno, ma anche nella mente e nella coscienza individuali.
Scopo della visione teatrale è quello di ricostituire l’Ordine divino (ritam) che consente l’ottenimento della liberazione attraverso il sentimento estatico. Uno dei concetti più importanti del Natyashastra, il Trattato Vedico di Teatro, Musica e Danza, è l’esperienza dei rasa. “Natya” è essenzialmente rasa, presentato tramite situazioni, mimesi, stati emotivi transitori; nella visione dell’opera, rasa è un sentimento che non può essere sperimentato per via di nessun mezzo della conoscenza empirica, ma solo grazie alla sensibilità estetica. Rasa, l’oggetto estetico di natura trascendente, rappresenta l’essenza dell’arte drammatica, la quintessenza di un opera d’arte, che è un processo a due sensi: l’artista cerca di esprimere rasa nel suo lavoro e il rasika o il “conoscitore”, colui che sperimenta, coglie questo sentimento grazie alla percezione intuitiva. Quando il rasa viene espresso nell’arte e nell’esperienza estetica, il termine indica uno stato di elevata gioia o ananda, quello stato di beatitudine che può essere sperimentato solo nella nostra essenza ontologica. La gioia elevata che si vive nella contemplazione e condivisione di un’opera d’arte stimola a raggiungere uno stato yogico che permette di calmare la irrequietezza dei sensi e della mente, di liberare dai veli della dualità del mondo fenomenico e di realizzare il vero conoscitore d’esperienza, l’atman.
(1) Aristotele, Poetica, 6, 1449b 24-28, trad. di M.Valgimigli.
(2) Abreazione, neologismo (ab-reagieren) coniato da Breuer e Freud (il prefisso ab comporta vari significati: distanza nel tempo, separazione, diminuzione).
(3) Fornari Franco, Nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte, Il Saggiatore, Milano, 1979.
(4) Landy Robert, Drammaterapia. Concetti, teoria e pratica, EUR, Roma, 1999.
(5) Vygotskij Lev S., Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1976.
(6) Dixon W. M., Tragedy, Un. press, London, 1925.
(7) Kant Immanuel, Critica della ragione pura, Einaudi, Torino, 1999.
(8) Docente di filosofia e religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma.
(9) “Sacralità dell’amore” in Amore sacro amore profano, (a cura di) Cavaciuti S. e Contini A., Bastogi, Foggia, 2005.
(10) Langer Susanne, Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, mito, rito e arte, Armando, Roma, 1972.
(11) Marco Ferrini Pensiero, azione, destino. Potere e uso del pensiero. Centro Studi Bhaktivedanta, 2004.
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