La chiave della libertà

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La chiave della libertà

di Guido da lista_sadhana

Indiscutibilmente, quanto causa sofferenza nel ricercatore spirituale non è
tanto lo stupore costante che egli prova nell’intuire la bellezza e la
perfezione esistenti al di là del mondo ritorto della forma; è, piuttosto,
quella larga forbice che continua a sussistere – e, sovente, ad allargarsi
di continuo – tra i suoi ideali, vissuti in modo fremente, e la quotidianità
del proprio esistere reincarnativo.

In poche parole, gli obiettivi percepiti da lui, o suggeritigli dalle sue
letture spirituali, o captati durante le meditazioni frequenti vanno a
formare, lentamente, un mondo parallelo a quello in cui egli vive, che si
stratifica, smeraldino, attraente, affascinante, in un punto specifico del
suo orizzonte soggettivo; e lì resta, tenace, a rappresentare uno dei
componenti della forbice di cui abbiamo parlato.

A ben pensarci, questo fenomeno è la principale causa dello stress sublimale
a cui i neofiti, o i discepoli sono costantemente sottoposti.

Essi vivono con intensità’ il fenomeno dell’equilibrista insicuro, tra i due
poli estremi di una realtà complessa, ma disarticolata. Da una parte, il
cielo, il Guru, Dio, l’universale, la perfetta intuizione (anche se, spesso,
non chiarita a se stessi) della Musica delle Sfere; dall’altra, i contrasti
della propria personalità’, il ruvido scontro con un mondo tangibile e,
sovente, ostile; la delusione costante e sincera di un proprio modo di
comportarsi, del tutto contrastante con l’ideale di un io voluto e sognato.

Insomma, la vita – malgrado la tenace e personale scelta di quell
‘altro – continua, imperterrita, e per anni, a tenere
il proprio tallone premuto sull’intera esistenza dello spiritualista.

In tutto questo appare evidente, allo sguardo del competente istruttore, uno
dei fondamentali atteggiamenti errati di colui che sperimenta l’alchimia
evolutiva della propria anima.

Concetti sovente ripetuti, come l’unità della materia e dello spirito; o
della luce, quale unico elemento costitutivo delle cose universali
divengono, allora, preziose chiavi per comprendere, e, alla fine, superare
tale stasi oscillante, comune caratteristica di molti spiritualisti.

Sfugge a costoro, infatti, che il parametro unico da prendere in
considerazione, per realizzare – gradualmente ed in modo equilibrato – l’
ascesi verso l’unificazione con ogni cosa è proprio e soltanto la ripetuta
cantilena delle mille e mille giornate quotidiane, in cui essi vivono i loro
karma e dharma reincarnativi.

L’occasione unica, la chiave magistrale che immette oltre l’uscio della
prigionia reincarnativa l’uomo, e lo fa planare proprio in quell’universo
parallelo da lui sognato ed intuito si riassume nel porre l’attenzione ed
ogni suo sforzo attivo verso la sua .

Questo – per inciso – è il gran segreto del Karma Yoga, che fu oggetto di un
passato articolo.

Quante ore, quante giornate, quante settimane e mesi ed anni l’uomo passa,
con il naso puntato al cielo, a gemere, a ricamare sottili circonlocuzioni
mentali, a soffrire realmente di acuta nostalgia verso ?

Quante?

Ma, cosa fa, concretamente, l’uomo, per provare e documentare
sperimentalmente a se stesso che tutto ciò non rappresenta solo un sogno
chimerico? Cosa fa, per calare , nella propria dimensione, la Sacra
Cornucopia che lo rende, soggettivamente, divino?

Si tratta, amici miei, di riconoscere, innanzitutto, che esiste un’ arte
vera e propria: quella che i Guru applicano verso ogni loro discepolo. L’
arte della trasmutazione costante dell’uomo, nell’alambicco di un artistico
mosaico voluto dalla Legge Una: che è la rete individuale di vita e di
doveri in cui egli si trova immerso.

Parliamo, ad esempio, dell’amore universale e dell’identificazione con l’
aspetto olistico dell’essere: ossia, con l’unità del tutto.

Se non cominciamo ad amare (magari, in silenzio) nostra moglie, o nostro
marito; la buona e borbottona portiera del condominio; se non siamo gentili
con il fruttivendolo, e con i colleghi di ufficio; se non ospitiamo
costantemente in cuore un atteggiamento di vera e formicolante simpatia
verso tutti coloro – conosciuti o sconosciuti – che vediamo camminare per le
vie che frequentiamo, o mentre guidano la macchina che affianchiamo con la
nostra; se non consideriamo la realtà’ apparentemente esterna a noi come il
nostro medesimo organismo esistenziale, come potremmo mai illuderci che
riusciremo a vivere sperimentalmente la vita tutta, come unità?

Noi abbiamo a disposizione un’unica serratura, tuttavia, ove potere girare,
con successo, la magica chiave dell’auto realizzazione cosmica: il nostro
semplice, trascurato, minuscolo ambiente quotidiano. E non potremo mai
illuderci che questo sia uno scalino da poter saltare a piè pari.

Esso rappresenta il baricentro verso il quale confluiscono tutte le forze
karmiche del nostro passato; illuderci che sia qualcosa di trascurabile – e
non, invece, il forziere di incalcolabili possibilità intuitive e
realizzatrici – significa non avere, allora, compreso il compito
reincarnativo di tutta l’umanità.

È solo attraverso l’occhio del presente che ci circonda d’appresso che
riusciremo a mettere a fuoco l’universo infinito di cui esso fa parte.

Ciò che più stupisce l’attento e maturo istruttore è il fatto che quanto
diciamo rappresenta una lezione ripetuta dai più grandi vangeli storici e da
tutte le scritture millenarie; ma, non percepita a sufficienza dall’umanità.

La vigilanza e l’attenzione che il Buddismo predica ai suoi proseliti
significa proprio una concentrazione totale verso la realtà circostante
ognuno di noi, sì da poter risalire verso quella metafisica, di cui essa è
semplice esternazione.

Non solo l’ambiente in cui il nostro karma ci ha proiettato e continua a
condurci rappresenta la palestra che , costituendo
la guaina personale ed unica del nostro dharma; esso è anche – lo
ripetiamo – una miniera di energie messe a nostra disposizione, di
incalcolabili possibilità.

Non esiste un nostro desiderio di evoluzione, una sola nostra pulsione allo
sviluppo di qualità immanenti, o trascendenti che non possano venire
sperimentati e risolti nel corso della nostra giornata dharmica.

La meditazione trascendentale cessa di essere un aristocratico modo di
svincolarsi dallo , ma si trasforma in identificazione
totale con tutto ciò che pulsa di vita propria, quando ogni nostro momento
di noia, di inerzia soggettiva, di automatismo vitale divengono una vigile
ed amorevole nel precipuo ambiente in cui ci troviamo, in quell’
istante.

Con il tempo, la mente si irrobustisce, il corpo intensifica le proprie
radiazioni sottili, il cuore aumenta le proprie pulsazioni metafisiche, il
pensiero si tramuta, gradatamente, in una facoltà magica quando
arroventiamo il nostro quotidiano con un costante e vigile intervento
creativo.

Non più, quindi, una meditazione egocentrica di pochi minuti, al mattino,
che – spesso – serve più ad intontire che a risvegliare; ma, la dilatazione
del proprio Sè, che avviluppa ogni ora della nostra giornata; inserendo in
essa le spore magistrali della nostra divina natura.

Ed è proprio in codesta dimensione che nasce il Cristo; e che si percepisce
il suono della divinità, espansa nell’universale, e non più imprigionata in
, o in momenti privilegiati di meditazioni
più o meno tecniche.

In tal modo si cessa di far parte di una mente individuale e personale – la
nostra -, ma, frantumandoci ed effondendoci nell’intero tempo e nel completo
spazio individuali, ci si sintonizza con la Mente Universale,
stabilizzandoci, definitivamente, in Essa.

Il (la materia), allora, diviene il Nocchiero che –
in tutta semplicità – fa attraversare l’uomo la palude delle illusioni.

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